moltitudine

La fiera dei valori morali e la Sinistra
di Alberto Altamura

Il mercato americano dei “moral values”

Di questi tempi, esattamente un anno fa, alcuni provati riformisti nostrani, di ritorno da più o meno impegnativi viaggi politici negli States, davano per scontata la vittoria di John Kerry, per poi assistere, agli inizi di novembre, alla rielezione di George W. Bush.L’evento venne archiviato rapidamente. Le elezioni regionali incombevano e occuparsi del populismo berlusconiano era ritenuta cosa più urgente di una analisi del voto americano.
La rielezione di Bush, tuttavia, andava e, a nostro parere, va ancora, studiata per cogliere un dato chiave, di cui deve occuparsi chiunque voglia programmare politicamente: la difficoltà di individuare un nesso cognitivo necessario tra gli interessi materiali ed economici di cui i soggetti sono portatori e le loro visioni politico-morali. Detto in termini più banali, quel voto ci costringe a riflettere, ancora una volta, sul come si possa vincere fra le classi deboli sostenendo programmi di destra.
A differenza di quanto accaduto in relazione al voto della Florida nel 2000, non penso si possa sostenere più di tanto la tesi dei brogli elettorali, anche se promossa da autorevoli interpreti come Gore Vidal, sulla base del rapporto del democratico del Michigan, John Conyers, Preserving Democracy: What Went Wrong in Ohio.
Senza trascurare, tuttavia, la denuncia avanzata dal rapporto Conyers rispetto alla gestione della macchina elettorale da parte di tale Kenneth Blackwell, segretario di stato dell’Ohio e, allo stesso tempo, condirettore della campagna Bush-Cheney, risulta difficile discutere di brogli elettorali di fronte ad una rielezione avvenuta con 286 voti elettorali contro 252, con un guadagno, sul 2000, di 9,4 milioni di voti popolari (50milioni-455mila nel 2000, 59milioni-829mila nel 2004).
Pur tenendo conto di quanto accaduto nell’Ohio, non è possibile dimenticare che nello Stato del Massachusetts, cioè in casa di Kerry, Bush ha guadagnato 188mila voti, superando l’incremento di 178mila voti fatto registrare dal candidato democratico. E, allo stesso modo, non è possibile trascurare quanto accaduto nello Stato di New York, laddove, in una situazione di supremazia democratica, Kerry ha perso 115mila voti, mentre Bush ne ha guadagnati 392mila.
Del resto, è difficile con i casi della Florida (2000) e dell’Ohio (2004) spiegare il declino democratico, che è ormai un fatto storico, essendosi determinato progressivamente nella seconda metà del Novecento.
Dal 1961, ai tempi della presidenza Kennedy, al 2005, i democratici, infatti, sono passati da una maggioranza alla Camera di 283 deputati contro 153, ad una posizione di minoranza di 201 deputati contro 233; nello stesso periodo, al Senato sono passati da una maggioranza di 64 seggi contro 34, ad una minoranza di 45 seggi contro 54. Lo stesso discorso vale per i governatori: 34 democratici contro 16 repubblicani nel 1961, 28 repubblicani contro 22 democratici nel 2005.
Di notevole interesse è anche la singolare coincidenza che, su questo versante, è stato possibile registrare con la rielezione di Bush: il picco negativo della storia elettorale democratica è, infatti, coinciso con una significativa inversione di tendenza rispetto alla partecipazione al voto, che, in costante discesa dal 1961 e attestata nel 2000 sul 51,30%, è salita al 60% nel 2004, con un ingresso di 14 milioni di nuovi votanti, soprattutto giovani.
Questo dato ci costringe a ridiscutere, fra l’altro, la convinzione che dall’aumento della partecipazione e dal voto giovanile possa derivare automaticamente un vantaggio elettorale per le posizioni progressiste.
Né va dimenticato che il 51% degli elettori di Bush sono state donne, soprattutto madri, con buona pace della “peace mom” Cindy Sheenan.

Di fronte alla rielezione di Bush, avvenuta in un contesto di una aumentata partecipazione, significativa per la spoliticizzata società americana, si sono prodotte una serie di letture, a mio avviso riconducibili a tre importanti prospettive.

La prima prospettiva può essere ricondotta ad una lettura “psicologica”: condizionato dalla guerra in corso in Iraq e dallo spettro del terrorismo, il voto americano è stato dettato dalla paura e soddisfatto dall’autoritarismo di Bush. Non a caso il manager della campagna elettorale presidenziale, Ken Mehlman, ha orientato la strategia della rielezione tenendo conto della presenza dei militari americani in Iraq. Puntando tutto sull’incertezza del futuro e sulla guerra al terrorismo, a Bush è stato consigliato di parlare soltanto di sicurezza nazionale, allo scopo di spiazzare tutti gli attacchi dei democratici, che puntavano ad intercettarlo sul terreno della gestione economica (Cfr. Franco Palumberi, La coalizione Bush si propone al Nord-Est e ai Grandi Laghi, in “lotta comunista”, n. 411, nov. 2004, pp. 8-9). Per quanto riguarda questo aspetto, rinvierei alle illuminanti analisi sviluppate, in una dimensione storico-politica più ampia, da Corey Robin, docente del Brooklyn College di New York, nell’opera Paura. La politica del dominio (Oxford Univ. Press, 2004; trad. it., EGEA, Univ. Bocconi Editore, 2005), o all’agile saggio di Lucia Annunziata La sinistra, l’America, la guerra (Mondadori, 2005).
La seconda prospettiva, fortemente legata alla prima, ma più “economicista”, si sofferma sul modo in cui la guerra permanente è diventata lo strumento più efficace in mano all’America per rinviare il pagamento di un debito estero diventato colossale (alla fine del 2003 era quasi il 70% del pil), e sul modo in cui Bush riesce ad ottenere un significativo incremento elettorale anche nelle zone del Nord-Est (+1milione-600mila voti) e del Midwest (+2milioni-400mila voti), cioè nelle regioni in cui è maggiormente presente la borghesia industriale e finanziaria. Su tali questioni, segnalerei la densissima analisi svolta da Martino Dolfini nel saggio Debito e impero, che apre il fascicolo di Limes dedicato a L’agenda di Bush (1/2005, pp. 23-43), o il testo di A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacchè, Escalation. Anatomia della guerra infinita (DeriveApprodi 2005).

Questi rinvii bibliografici mi consentono di dedicare la maggior parte della mia analisi alla terza prospettiva, che potremmo ricondurre ad un piano “etico-politico”, e che rinvia alla questione della esistenza o meno di un nesso cognitivo tra interesse economico e visione politico-morale.


In sostanza si tratta di discutere di quel 21% di elettori americani che ha dichiarato di essersi recato alle urne perché preoccupato del destino dei “valori morali” (moral values) americani: una significativa percentuale di cittadini, che ritiene il rifiuto delle unioni omosessuali e della legalizzazione dell’aborto più importanti dei temi connessi alla crisi economica del proprio paese.


L’analisi più interessante, in questa prospettiva, mi sembra quella sviluppata, ancor prima che Bush fosse rieletto, dal filosofo sloveno Slavoj Zizek nel volume America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità (ombre corte, 2005), titolo che banalmente traduce l’originale Welcome to the Desert of the American (sub)culture! An essay on Abu Ghraib and Related Topics.


Prendendo spunto dall’opera di Thomas Frank What’s the Matter with Kansas? How Conservatives Won the Heart of America (Metropolitan Books, New York 2004), Zizek si sofferma sul modo in cui, in America, l’opposizione economica, legata all’appartenenza di classe – contadini poveri e operai, da un lato, avvocati, banchieri, grandi manager, dall’altro – è stata trasformata in una opposizione morale “tra onesti americani di sani principi cristiani che lavorano sodo e liberali decadenti che bevono caffè macchiato, guidano macchine straniere, si prendono gioco dei sacrifici patriottici e della semplice vita di provincia” (S. Zizek, America oggi, p. 17).


Il paradosso sta nel fatto che la critica che, sul piano dell’opposizione morale, i populisti conservatori evangelici rivolgono allo stato, visto come una grave minaccia per l’etica individualistica e la libertà del credente cristiano, li conduce a sostenere una posizione economica imperniata sul “meno tasse, meno regole”, anche se, rispetto ai propri interessi diretti, una strategia di deregulation finisce con l’essere rovinosa, dal momento che consente, ad esempio, alle grandi aziende una libertà di manovra pressoché assoluta nei confronti dei piccoli agricoltori e, allo stesso tempo, impedisce allo stato di varare programmi di stanziamenti federali per soccorrere gli agricoltori impoveriti.


Preoccupati di difendere la libertà del singolo dall’invadenza impersonale dello stato, i populisti conservatori americani si trovano così a fare il gioco di grandi aziende che si propongono come massima espressione della libertà… di inquinare, disboscare, concentrare mass-media ecc. ecc.


È la sprezzante ironia della storia – scrive Zizek – a fare sì che l’individualismo radicale degli evangelici serva da giustificazione ideologica per l’avanzata incontrollata di un potere economico che la maggior parte della popolazione percepisce come qualcosa di anonimo e che regola la vita di milioni di persone senza alcun tipo di controllo pubblico e democratico.” (Ivi, p.18).


Ovviamente, le grandi aziende comprendono benissimo che, nell’attuale fase del capitalismo cognitivo, una affermazione reale dell’ideologia conservatrice sarebbe devastante per un modello produttivo fondato su quelle capacità di innovazione e di creazione che germogliano soltanto in quei contesti comunicativi e ipermoderni fortemente stigmatizzati dal populismo evangelico, e, tuttavia, ritengono che la “guerra morale” dei conservatori sia, al momento, il modo migliore per canalizzare la rabbia dei ceti meno abbienti ed impedirle di interferire con i grandi interessi economici di cui sono portatrici.


Per Zizek si tratta, quindi, di scorgere nella “guerra culturale” di oggi una “guerra di classe” indiretta (in a displaced mode) e di interrogarsi sui modi in cui si realizza questo spostamento (displacement), senza ricorrere semplicemente a spiegazioni fondate sulla “stupidità” o sulla “manipolazione ideologica” delle classi meno abbienti, rese incapaci di discernere i propri interessi materiali, o a posizioni, come quelle di Ernesto Laclau, impegnate a dimostrare che, non esistendo uno standard di consapevolezza ideologica “appropriata” inscritto nell’oggettività di una data situazione economica, non si può parlare di inganni o di “falsa consapevolezza”, ma occorre abituarsi all’idea che non sono rintracciabili legami necessari fra una data posizione socio-economica e l’ideologia ad essa associata (cfr. E. Laclau, On Populist Reason, Verso, London 2005).


Dal momento che, come i conservatori, anche i liberali illuminati americani spostano il conflitto su temi etici come la lotta al sessismo, al razzismo, al fondamentalismo e il sostegno alla tolleranza multiculturale, diventa decisivo per Zizek interrogarsi sul modo in cui le posizioni culturali stanno imponendosi come fondamentali categorie dell’antagonismo di classe e su come esse vengono gestite nel campo liberale.


Si tratta, cioè, di comprendere il contraddittorio messaggio classista offerto dai liberali che, sebbene predichino solidarietà con i poveri, nelle loro battaglie, ad esempio, a favore della tolleranza multiculturale e dei diritti delle donne finiscono con l’essere sprezzanti nei confronti dell’intolleranza, del fondamentalismo e del patriarcato sessista delle classi basse.


Assumendo come modello le lotte femministe sostenute dai liberali americani, Zizek osserva che “la lotta femminista può essere articolata in una catena che la unisce a una più generale lotta progressista per l’emancipazione, ma può pure indubbiamente funzionare come un mezzo ideologico usato dalle classi medio-alte per affermare la loro superiorità rispetto alle classi basse, giudicate intolleranti e patriarcali” (Ivi, p. 22).


Con battaglie culturali di tipo femminista, antisessista, antirazzista, i liberali, quindi, non soltanto affermano la propria forza di classe, ma tendono, in una prospettiva intesa a trasformare l’antagonismo in riconoscimento e coesistenza delle differenze, anche a disinnescare i meccanismi di una conflittualità di classe che, al contrario, marca le differenze di classe, per poterle superare. Al punto che, paradossalmente, “la logica dell’antagonismo è stata fatta propria dai populisti fondamentalisti conservatori […], che nelle loro campagne di base hanno adottato perfino la forma delle mobilitazioni popolari e della lotta contro lo sfruttamento delle classi basse indette nel passato dalla sinistra radicale”(Ivi, p. 23).


Spostando l’attenzione sul piano economico è possibile per Zizek cogliere facilmente la singolare inversione di ruoli che si è determinata fra Repubblicani e Democratici. I primi impegnati a spendere i soldi dello stato generando disavanzi record - in realtà spostando su altri paesi l’onere del finanziamento del debito pubblico americano (Cfr. Dolfini, cit.) -, a costruire uno stato federale forte nelle forme del Big Government, ad attuare una politica di interventismo globale, a legalizzare la condizione di milioni di lavoratori clandestini messicani. I secondi impegnati, dai tempi della pesante politica fiscale clintoniana, ad abolire il disavanzo, a sostenere programmi di privatizzazioni, ad abolire quanto resta in piedi dello stato sociale.


Dopo averli, innanzitutto, messi in guardia dall’assumere l’atteggiamento di facile disprezzo con cui i liberali guardano ai populisti fondamentalisti, ritenendoli, con fare paternalistico, soltanto dei poveracci manipolati, Zizek invita, pertanto, gli uomini di sinistra a continuare nel sostegno delle posizioni liberali nella maggior parte dei temi all’ordine del giorno (aborto, razzismo, omofobia ecc.), ma, allo stesso tempo, li invita ad avere il coraggio di individuare, in una prospettiva più ampia, il proprio vero alleato non tra i liberali, ma tra coloro che si fanno oggi prendere dai discorsi del populismo fondamentalista, e che, con uno sforzo di radicalità, potrebbero cogliere il legame che unisce il capitalismo al malessere sociale che subiscono e deplorano.

La bancarella dei valori morali italiana

All’indomani della rielezione di Bush, Massimo Cacciari sviluppava una serie di argomentazioni in apparenza simili a quelle di Zizek, che come ricordato risalgono al periodo precedente alle elezioni americane, per ricavarne indicazioni utili all’azione del centro-sinistra italiano, in vista delle elezioni politiche del 2006.
La posizione di Cacciari ci appare degna di essere discussa, dal momento che coloro che oggi dibattono furiosamente sul centro del centro-sinistra, criticando ipotesi neo-centriste e cose simili, sono anche, purtroppo, in buona parte quelli che nello scorso aprile erano tanto presi dalla celebrazione del “laboratorio politico” pugliese, con la vittoria di Nichi Vendola, da non avere occhi per il “laboratorio politico” veneziano, in cui abili manovre centriste portavano Cacciari a raggiungere la carica di sindaco contro il candidato delle sinistre Felice Casson.

Cacciari in una intervista rilasciata al Manifesto, qualche giorno dopo l’esito del voto americano, delineava, a mio parere, il percorso che una parte del centro-sinistra è pronta oggi ad assecondare.


Nella sua analisi ritornano tutti i temi sollevati dalla rielezione di Bush: la crisi dell’automatismo tra aumento della partecipazione e voto progressista, lo scollamento tra interessi economici e voto politico, il peso giocato dalla paura nel favorire derive plebiscitarie autoritarie, il bisogno di rassicurazione sentito dai ceti deboli in fasi storiche di grande inquietudine, il condizionamento mediatico promosso dai potentati economici.


Il punto cruciale del ragionamento di Cacciari emerge, tuttavia, quando la vittoria repubblicana viene spiegata anche con il “richiamo valoriale” praticato continuamente da Bush: “La mobilitazione nei settori evangelici è stata evidentemente formidabile. È avvenuta sulla base del grande richiamo etico. Anche su questo noi abbiamo sempre una chiave illumistico-razionalistica. Noi diciamo: ragioniamo. Bush invece dice: credi e segui. Pare sia stato più efficace il suo modo. È una riflessione che dobbiamo fare bene e con un po’ di spregiudicatezza: la sinistra forse troppo rapidamente si è convinta che la politica si fosse separata dal cielo o dall’inferno dei valori. E adesso te li ritrovi tra le palle da destra” (Bush? Rivincita autoritaria di valori forti, “il manifesto”, 4.11.2004, p. 7).


Naturalmente, Cacciari ci tiene a precisare che il suo non è un invito a inseguire l’ideologismo fondamentalista, ma soltanto un richiamo alla sinistra, affinché avanzi proposte di valore, capaci di soddisfare la richiesta di “senso”: “Facciamo sempre discorsi di razionalizzazione, messa a punto, tolleranza, riconoscimento delle differenze. Mentre il grosso dell’elettorato chiede decisioni, vuol sapere da che parte stai. Forse uno degli elementi di forza di Bush è stato questo: si capiva dove stava. La sinistra è stata per quindici anni portatrice di una visione rassicurante e razionalizzatrice, calcolatrice e amministrativa. Non è questo il modo in cui fanno politica i Bush e nemmeno i Berlusconi”.


L’intervista si concludeva, non a caso, con un riferimento alle elezioni politiche del 2006 e alla necessità di sconfiggere un esponente del neoconservatorismo mondiale come Berlusconi.


Meno complessa della soluzione prospettata da Zizek, con il suo invito ad intercettare da sinistra l’antagonismo di classe presente nei settori della società americana che oggi sostiene Bush, la soluzione di Cacciari sembra essere stata recepita da quelli che da tempo sono i suoi interlocutori politici, cioè l’area moderata del centro-sinistra.


Recepita e praticata, in modo particolare, in occasione dei referendum per l’abrogazione della legge 40, che ha visto le aree centriste del centro-sinistra collocate su posizioni culturali molto vicine a quelle papaline.


Si è prodotto un singolare spettacolo, in cui a rivelarsi come i campioni delle ultraconservatrici posizioni del populismo cattolico sono stati diversi cantori nostrani della modernizzazione, da tempo acriticamente appiattiti sulla dimensione economico/culturale del capitalismo globalizzato e arcignamente impegnati a bollare come conservatrici le posizioni della sinistra schierata a difesa dei diritti del lavoro, della sindacalizzazione dei lavoratori, di ciò che sopravvive dei sistemi di Welfare.


Nessuno ha avuto la forza di sviluppare le proposte di Cacciari nella direzione politica impressa, ad esempio, nella cattolicissima Spagna, da Zapatero, che ha posto all’ordine del giorno grandi questioni culturali, tradottesi nelle leggi sui diritti civili, fino a quella sui “matrimoni fra persone dello stesso sesso”, affrontando, allo stesso tempo, con coraggio i grandi temi di natura politico-sociale connessi al ritiro dall’Iraq, alla riapertura di relazioni con Cuba, alla revisione degli statuti d’autonomia, alla rinuncia a perseguire nella soluzione militare del problema basco.


Uno Zapatero che ha, così, costretto l’opposizione del Partido Popular ad arrancare, a non trovare nulla di meglio che accodarsi, con il suo segretario generale, Eduardo Zaplana, o con la moglie dell’ex premier Aznar, Ana Botella, alla manifestazione promossa lo scorso 18 giugno a Madrid dal Foro español de la Familia, con lo slogan “La famiglia sì che interessa. Per il diritto ad una madre e un padre. Per la libertà.”.


Uno Zapatero che non ha avuto paura di sfidare sul piano dei valori quell’insieme di cinquemila organizzazioni di stampo cattolico (si legga soprattutto Opus Dei), che il Foro è riuscito a mobilitare e a far sfilare attorno all’arcivescovo di Madrid, ex presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, Antonio Maria Rouco Varela, e un manipolo di una ventina di vescovi spagnoli.


Nel suo piccolo, rispetto alla vittoria di Bush, anche la sconfitta referendaria sulla “legge 40” non è stata sottoposta dal centro-sinistra a particolari analisi.


Le ragioni di una rapida archiviazione vanno cercate, questa volta, nelle incombenti elezioni politiche e nelle discussioni che, di conseguenza, andavano improrogabilmente avviate sulla leadership dell’Unione, sui rapporti fra partiti all’interno di essa, sulle regole delle primarie e su altri argomenti, evidentemente, capitali.


Eppure i referendum abrogativi della legge 40 segnalavano una significativa “crisi della partecipazione”, facendo registrare affluenze alle urne del 25,9% degli aventi diritto; percentuale di pochissimo superiore al 25,5%, raggiunto, nel 2003, per il referendum inteso a estendere la tutela dell’articolo 18 ai lavoratori delle piccole imprese.
Segnalavano, su questo versante, anche un nuovo aspetto della “questione meridionale”. Divisa per aree geografiche, infatti, l’affluenza è stata del 33,4% al Centro, del 29,8% al Nord, del 18,6% nelle Isole, e solo del 15,9% al Sud, con la punta più bassa in Calabria (12,7%). Nella stessa Puglia, che solo qualche mese prima aveva eletto Nichi Vendola, si registrava una partecipazione appena del 15,3%.


Buona parte della sinistra non ha avuto voglia di ritornare su questi dati e chi lo ha fatto è giunto a considerazioni non lontane da quelle formulate da Cacciari all’indomani della vittoria di Bush.


Penso in modo particolare alle risposte date proprio da Vendola ad Andrea Colombo, che, sulle pagine del Manifesto, lo invitava a spiegare l’alto livello di astensione registrato nel Sud Italia e in particolare in quella Puglia che solo due mesi prima lo aveva eletto presidente della Regione.


Dopo aver denunciato l’abissale livello di disinformazione, il fatto che il dibattito sia stato spesso percepito come una contesa interna agli stati maggiori degli schieramenti politici, la mancanza di una discussione collettiva sui temi della bioetica, la crisi della concezione laica dello stato, Vendola, incalzato dall’intervistatore a trovare una ragione della capacità offensiva manifestata dal fronte astensionista, è ricorso ad argomentazioni “valoriali”: “Quelli non si vergognano di proporre grandi narrazioni, mentre noi ci impaludiamo in microstorie. Quelli non subiscono la crisi delle ideologie, mentre per noi la crisi delle ideologie è diventata un’ideologia. […] L’altro fronte ti mette in campo i grandi interrogativi della vita. Così, in conclusione, sembra uno scontro tra chi difende un mercato e chi, invece, difende un’etica” (“il manifesto”, 15.06.2005).


Lo stesso Cacciari non si è lasciato sfuggire l’occasione della sconfitta referendaria per invitare, ancora una volta, il centro-sinistra a “stare bene attento a non rappresentarsi solo come il buon amministratore” e a sfruttare le primarie come una “occasione formidabile” per discutere di bioetica, di biopolitica, di guerra e pace, del nesso scienza-etica-politica. Fin qui niente di male, anzi ottimi consigli. Ma il discorso ha una premessa inquietante, perché scaturisce dalla considerazione che, di fronte ad una crisi dell’opinione pubblica, “chi orienta e dà senso alla vita ha un peso maggiore anche sui comportamenti elettorali. E che le grandi opzioni ideologiche sono destinate a pesare di più anche in Occidente” (“il manifesto”, 25.06.2005)


Una lettura più scientifica dei dati, per fortuna, non costringe ancora nessuno ad accelerare i tempi di una predicazione etica, o ad abbandonare la “critica dell’ideologia” appresa da Marx per farsi al più presto “orientatore” di coscienze.


Se prendiamo in considerazione, infatti, i risultati della ricerca condotta dal “COESIS research” di Milano, ci accorgiamo che, rispetto al 25,9% di votanti, l’area dell’astensionismo militante non è fatta del rimanente 74,1%, ma solo del 24% di esso. Risultando molto più vasta l’area del disinteresse-disimpegno (59% degli astenuti) e non trascurabile quella dell’astensionismo critico attestata sul 17%, in quest’area devono essere collocate, ad esempio, le posizioni di soggetti critici nei confronti dello strumento referendario, a prescindere dal tema in discussione.


Il fatto che solo un quarto del 74% di cittadini che si sono astenuti sembra aver condiviso e seguito i messaggi “ideologici” del fronte anti-abrogazionista, se da un lato non ci costringe a rincorrere le “grandi narrazioni” chiesastiche, dall’altro non costituisce, tuttavia, un segnale rassicurante.


L’Italia non sarà diventato ancora un paese di neo-teo-con, ma appare come un popolo di disimpegnati, risultato di più di quindici anni di spoliticizzazione della società italiana e della mancanza da parte della sinistra italiana di “un discorso all’altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione e dalla mediazione con le gerarchie vaticane”, come scriveva lucidamente Ida Dominijanni, sulla prima pagina del Manifesto, all’indomani della sconfitta referendaria.


Sebbene la deriva astensionistica impedisca di confrontare, fino in fondo, l’Italia, che ha fatto fallire i referendum, con l’America fondamentalista, massicciamente mobilitata intorno a Bush, è pur sempre possibile parlare, come fa la Dominijanni, di un “fondamentalismo all’italiana”, germogliante nel “deserto dell’apatia e del disincanto”, e contrastabile soltanto sul piano politico-culturale, cioè facendo ripartire la politica da “un paziente lavoro culturale: preoccupandosi di incollare le parole all’esperienza, prima che i leader alle sigle di partito e di coalizione” (“il manifesto”, 14.06.2005).


Il lavoro culturale richiesto dalla Dominjanni, tuttavia, richiede tempi lunghi e i partiti di centro-sinistra appaiono, attualmente, più interessati a “incollare i leader alla coalizione” che dovrà sconfiggere Berlusconi, piuttosto che a cancellare il berlusconismo e le sue pratiche ormai consolidatesi sul piano dell’immaginario politico.

Una Sinistra “al di là del bene e del male”

Sebbene nelle sue dichiarazioni pubbliche ci tenga ad apparire lontanissima dalle posizioni del populismo di destra, in realtà, la sinistra riformista e/o liberaldemocratica, punta a sconfiggerlo assumendone in sostanza i temi all’ordine del giorno. Si impegna, cioè, ad agire in modo più organico ed equilibrato, forse persino più efficiente, e di certo in forma meno rozza e becera, in materia di ristrutturazione del mercato del lavoro, di lotta all’immigrazione clandestina e alla criminalità, di cancellazione dei diritti sociali, ed anche di guerra e terrorismo.
Non si ricorderà mai abbastanza che gli attuali interventi di Maroni sulle pensioni proseguono le azioni di Dini-Prodi-Amato, che la Bossi-Fini è un adattamento, con i suoi cpt, della Turco-Napolitano, che la riforma Moratti prosegue, in altre forme, i temi di fondo della riforma Berlinguer, che la “legge 30” è strettamente connessa al “pacchetto-Treu”. Per non parlare dell’azione dei riformisti “eroi” del Kosovo, dei loro bombardamenti su Belgrado, dell’appoggio offerto da tanti rappresentanti del centro-sinistra alla guerra in Afghanistan.

Ciò che preoccupa, tuttavia, è che non si tratta di miopia o sprovvedutezza, ma di quella che, ancora una volta ricorrendo a Slavoj Zizek, possiamo definire una sorta di “epidemia dell’immaginario”, come recita il titolo di una sua opera, pubblicata in Italia da Meltemi nel 2004.


Il gioco è quello di far apparire, sul piano culturale, le posizioni neo-teo-con e quelle riformiste, diciamo per intenderci, “di stampo blairiano”, ma si potrebbe dire anche “prodiano-d’alemiano”, come opzioni fortemente alternative, allo scopo di impedire all’elettore, convinto sempre di esercitare attraverso il voto la propria libertà di scelta, di scorgere il terreno comune che quelle due opzioni non metteranno mai in discussione, vale a dire il sistema di produzione sociale e di relazioni sociali costruito dal capitalismo globale.


Con Zizek siamo portati a dubitare che questa omogeneità di fondo sia intaccabile sul piano elettorale, dal momento che i luoghi istituzionali della rappresentanza non sono altro che il palcoscenico destinato ad ospitare lo spettacolo della democrazia come “spazio di alternativa virtuale”, in cui si è autorizzati a scegliere tra opzioni diverse, ma solidali nel non mettere mai in discussione la cornice nella quale si trovano ad operare.


La prospettiva di un cambiamento di potere – afferma Zizek - è la grande illusione che ci fa sopportare i rapporti di potere esistenti”.


Fino a che giocherà questo gioco, anche mietendo qualche successo elettorale, la sinistra resterà perdente.


Così facendo, essa si dimostra stupidamente leale a quella forma di “bipolarismo politico” che le democrazie del post-’89 hanno assunto, in vista di una gestione burocratica della società, allo scopo di semplificare il confronto programmatico interno, fino a mortificarlo con “accordi bipartisan”, che si desiderano sempre più prossimi a quello che ha portato il parlamento americano, il 10 settembre 2004, a votare con 406 sì, contro 12 no, una risoluzione che lega l’Iraq al terrorismo e, per sillogismo, agli attacchi dell’11 settembre (Dolfini ha opportunamente parlato di “bulgarizzazione” del parlamento americano).


Troppo impegnata nell’affannosa ricerca di candidati digeribili dall’elettorato moderato, la sinistra sembra non rendersi conto che il “bipolarismo politico” non cancella un “bipolarismo sociale” frontale e incomunicabile, che, come scriveva la Dominijanni, all’indomani della rielezione di Bush, la destra riesce a rappresentare, giocandosi la carta di un “bipolarismo estremista”, e pescando in quel crogiolo di fideismo, identitarismo, emotività, così lontano dalle forme della razionalità politica della modernità in cui la sinistra è cresciuta (cfr. I. Dominijanni, Le due metà della mela, in “il manifesto”, 4.11.2005, p. 7).


La novità con cui la sinistra deve imparare a fare i conti è che proprio le forme della razionalità politica della modernità si sono irrimediabilmente svuotate di senso, dal momento che, come hanno efficacemente sottolineato Hardt e Negri, le organizzazioni sociali della modernità sono definitivamente tramontate lasciando il campo ad una frammentazione sociale senza ritorno (cfr. M. Hardt – A. Negri, Moltitudine, Rizzoli 2004, part. il cap. Mostruosità della carne, pp. 222-227).


Non prendendo atto di questa situazione, la sinistra finisce con il coltivare una nostalgia e un desiderio di restaurazione per quelle realtà nelle quali ha da sempre sguazzato la destra: la famiglia, la comunità religiosa, la patria. In Moltitudine, a questo proposito, si segnalano i numerosi intellettuali di sinistra statunitensi che, ancor prima dell’11 settembre, celebravano l’amor di patria come il mezzo più efficace per “arrestare l’anomia e la frammentazione individualistica che minacciano dall’interno la società statunitense”, oltre che per sconfiggere i nemici esterni.


Guardando all’Europa, Hardt e Negri rimproverano ai partiti e alle organizzazioni sindacali della sinistra, di ricadere, spinti da una sorta di riflesso meccanico, nel rituale della mera ripetizione, condizionati come sono dalla ricerca dei solidi valori di un tempo e dalla incapacità di comprendere che le formazioni sociali che li sostenevano non esistono più, che “il popolo è scomparso” (Ivi, p. 224)


In Moltitudine si invita la sinistra a smetterla con la nostalgia per i corpi sociali della modernità, per l’ordine politico che ne conseguiva e che si strutturava intorno alla famiglia, alla comunità, al popolo e alla nazione.


Non esistendo più la forma ordinatrice del corpo, occorre confrontarsi con “una sorta di carne sociale, una carne che non forma un corpo, una carne che è sostanza vivente comune” (p. 224).


Si tratta della “carne sociale vivente della moltitudine”, che non si compone in un corpo e che, per questa ragione, appare “mostruosa” a coloro che, abituati all’ordine offerto dall’azione organizzatrice della forma, nelle moltitudini, che non si offrono come “popolo”, “nazione”, “comunità”, non vedono altro che una manifestazione del caos conseguente al crollo sociale della modernità.


Ma ciò che atterrisce, soprattutto, i politici, di destra e di sinistra, è che “dal punto di vista dell’ordine e del controllo politico, la carne elementare della moltitudine è intollerabilmente elusiva, dato che non può essere compiutamente sussunta negli organi gerarchici di un corpo politico” (p. 225): nessuna alchimia politica potrà imbrigliarla e rappresentarla.


Trovare i mezzi per “affermare il mostruoso potere della carne della moltitudine in vista di una nuova società” ci sembra, oggi, il compito più urgente della sinistra.

settembre 2005