I mercanti della democrazia, parte seconda

La democrazia degli strani mercanti
di Nino Mastropierro

Nell’articolo “I mercanti della democrazia”, pubblicato nel numero precedente di questa rivista, abbiamo individuato alcune situazioni e linee di tendenza nella politica internazionale, prendendo a riferimento alcune iniziative – diplomatiche e militari – del governo americano in Medio ed Estremo Oriente per rafforzare l’egemonia USA nel mondo in qualità di unica superpotenza globale. In questo articolo tratteremo oltre che degli USA, anche dell’Italia, nelle vesti anch’essa di stato legittimatosi esportatore di democrazia, dopo aver raggiunto la consapevolezza che la merce immateriale, detta democrazia, che è un prodotto molto particolare del nostro paese (nonostante stragi di stato, depistaggi, scandali vergognosi, conflitti di interesse, frenesie sul meticciato, mafia, ecc…), è fabbricato in quantità tali da poterci permettere di esportarne il surplus.

La teoria e la pratica della guerra preventiva e infinita ha come giustificazione nell’attuale fase storica la lotta sia agli “stati canaglia” che al “terrorismo”. In particolare contro quest’ultimo quasi tutti gli stati del mondo hanno dichiarato di voler impegnarsi a fondo. Come è noto i paesi in cui è più feroce la guerra al “terrorismo” da parte degli artefici della guerra preventiva sono l’Afghanistan e l’Iraq.
L’invasione e l’occupazione del loro paese ha prodotto un ovvio movimento di rigetto negli iracheni, con esiti che sarebbero dovuti essere, anche ai più sprovveduti in Occidente, prevedibili nella loro tragicità. Purtroppo finora la guerra per scovare fantomatiche armi di distruzione di massa, divenuta guerra contro il terrore e poi “esportazione della democrazia”, ha causato un numero incredibilmente alto di morti, in particolare iracheni (soprattutto civili) ma anche americani, inglesi, italiani, ecc…, distruzione di beni materiali e distruzione e saccheggi di beni culturali.
Bisognava che si affacciasse l’era dell’iperliberismo perché a qualcuno venisse in mente di esportare la “democrazia” con le armi. E a questo punto sarebbe interessante capire come funzioni la democrazia quando, ad esempio, volteggia per i cieli, scaricata dai cacciabombardieri, o quando nelle carceri di Abu Ghraib in Iraq – o di Bagram in Afghanistan – torturatori in divisa esercitano, per conto della democrazia esportata, la loro attività criminale.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica qualcuno aveva pensato che la Storia fosse finita, la superpotenza non avrebbe avuto più avversari in grado di contrastarne i progetti imperiali e il “mondo libero” avrebbe finalmente potuto dispiegare tutte le potenzialità. Purtroppo la natura stessa della superpotenza ha creato da sé le contraddizioni: a) per mantenere il tenore di vita dei suoi cittadini, gli USA hanno bisogno di controllare sempre nuovi territori e di procurasi materie prime sparse per il mondo; b) l’industria bellica americana è potentissima e la sua merce deve essere prodotta e smaltita in tempo utile da qualche parte; c) se sorgono contrasti con i popoli legittimi proprietari delle risorse ambite dalla superpotenza, gli USA possono ricorrere alla “pistola” pronta a diventare “fumante”.
Ed avviene, in conseguenza delle contraddizioni citate, che, quasi all’improvviso, la Storia ha bisogno ancora di un po’ di tempo per finire perché i “terroristi”, quelli veri e quelli presunti, hanno pensato di ostacolare in qualche modo la marcia trionfale della superpotenza. Non solo nel Vicino e Medio Oriente, ma anche in Africa e persino in America del Sud: in Brasile, ad esempio, o in Venezuela e Argentina.
L’insistenza con cui le potenze che occupano l’Iraq e l’Afghanistan giustificano la loro presenza in quei paesi (cioè la guerra al terrorismo) fa del terrorismo la reale – e sicuramente esagerata – contropartita alla democrazia. Il terrorismo, cioè, è subentrato all’URSS nella visione manichea del guerrorismo del mondo “libero” e “liberato” e la propaganda che immeritatamente ne fanno sia capi di stato e di governo sia mezzi di informazione in tutto il mondo ne favorisce il radicamento presso gli umili e gli umiliati che nessun’arma potrà più estirpare.
Prima della guerra di Bush all’Iraq il terrorismo in questo paese non esisteva: adesso, oltre alla resistenza che si batte per il ripristino della sovranità nazionale, il terrorismo agisce in forze moltiplicate sottraendo militanti proprio alle forze democratiche. Ben scavato, viene da pensare, presidente Bush: se prima saremmo dovuti essere grati agli USA per aver lei pensato di liberarci dalle armi di distruzione di massa detenute dagli iracheni, ora siamo fieri del fatto che, dopo aver sconfitto l’”impero del male”, l’Occidente può vantarsi di aver piantato sul cranio inclinato degli iracheni la bandierina invisibile della vittoria.
Secondo il più recente rapporto pubblicato dall’”Institute for policy studies”(IPS) con sede a Washington, la presenza militare americana in Iraq è costata finora agli americani 5,6 miliardi di dollari all’anno (e la guerra dura da più di due anni e mezzo), 2060 morti e 14065 feriti; agli iracheni quasi 100.000 morti e distruzioni varie. Distruzioni immani sul piano materiale su cui però lucrano le imprese di ricostruzione americane ed europee, autorizzate dal Pentagono, che fanno affari d’oro secondo un’infernale girandola che funziona più o meno in questo modo: compio l’occupazione militare del paese che ho devastato con la guerra; impongo il regime che mi aggrada (il controllo sullo svolgimento delle elezioni è cosa mia); mi impadronisco delle risorse materiali e culturali; ricostruisco con i suoi soldi, ma con profitti miei, il paese che ho devastato; produco un numero altissimo di morti; produco, per reazione, ostilità violenta soprattutto contro il mio paese ed i suoi alleati; offro uno spazio politico illimitato al terrorismo contro cui proclamo ogni giorno di voler combattere; e chiamo tutto ciò “esportazione della democrazia”. Non basta: siccome la generosità del mio paese è illimitata, invio a esportare la democrazia, fra gli altri, i riservisti, la guardia nazionale, i vigili del fuoco, ecc…Così quando, purtroppo, capita una tragedia tutt’altro che imputabile alla volontà divina come l’uragano Katrina (non ho forse sottovalutato le conseguenze della devastazione ambientale e deriso il protocollo di Kyoto?) devo prendere atto che l’esportazione della democrazia ha dei costi non preventivabili, considerato che “i nostri ragazzi” stavano in Iraq e non potevano accorrere subito a New Orleans a salvare i poveri malcapitati abitanti di quella città che non avevano avuto la possibilità di mettersi in salvo in precedenza.

Anche nel nostro paese, oltre i politici della destra (e nemmeno tutti) c’è chi continua ad essere convinto che “l’idea neocon di esportare la democrazia è giusta ed è un grande obiettivo” (Fassino, maggio scorso alla Fondazione Italianieuropei). Tanto grande che, per attuarlo, D’Alema (presidente del partito, DS, di cui Fassino è segretario), ritiene che non vada escluso “a priori il tema dell’uso della forza”. Al popolo italiano il grande obiettivo di esportare la democrazia con l’uso della forza è costato la vita di almeno 30 cittadini scomparsi in Iraq, e poi centinaia di migliaia di euro al giorno con fondi prelevati anche dall’otto per mille: soldi che i cittadini italiani avevano destinato ad attività umanitarie. “Mai eravamo caduti così in basso in Italia!” commenta su Mosaico di pace (numero 6-05) Alex Zanotelli.
Il 13 maggio scorso Rai News 24 ha presentato un dossier del Ministero delle attività produttive, datato 21-2-03 (quasi un mese prima dell’invasione americana dell’Iraq), secondo il quale la zona di Nassirya sarebbe dovuta essere presidiata da truppe italiane per consentirne lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio che avrebbero permesso alla nostra compagnia petrolifera di fare utili per 300 miliardi di dollari. Cioè: l’invasione americana in Iraq non era ancora cominciata che in Italia c’era già chi pensava di approfittarne.
C’entra qualcosa il petrolio con l’esportazione della democrazia? Il ministro degli esteri s’indigna per la richiesta avanzata da più parti nel nostro paese di ritirare le truppe dall’Iraq e abbandonarvi gli americani al loro destino: egli ribadisce che in quel paese i nostri soldati fungono da “pacificatori”. Ma pacificatori tra chi non è dato sapere. E’ dato sapere invece di quali considerazioni godano presso gli alleati americani gli italiani che sono al loro fianco nel grande paese medio orientale occupato.
Sempre il ministro degli esteri, a commento dell’”errore” compiuto da soldati statunitensi che hanno sparato contro una pattuglia di carabinieri, sempre in Iraq, dice: “Il colpo contro il nostro carabiniere è stato sparato per errore. E’ una cosa che può succedere, ahimè, in qualsiasi momento ed in qualsiasi parte del mondo. Montare un caso significa avere una pregiudiziale politica o un pregiudiziale atteggiamento antiamericano che la Farnesina non ha”. Non avevamo dubbi: la Farnesina ha un atteggiamento esattamente contrario.
Per riprova è più che sufficiente ricordare alcune vicende a partire dalla uccisione del funzionario del SISMI Nicola Calipari, causata da soldati americani, anche alla luce delle dichiarazioni dell’ex responsabile della Croce Rossa Italiana, Scelli, secondo il quale sarebbe stato chiaro il risentimento degli americani, anche verso Calipari, per aver gli italiani preso iniziative autonome da loro per ottenere la liberazione di Giuliana Sgrena. Alla richiesta di spiegazioni del governo italiano sull’assassinio di Calipari quello americano ha risposto evitando di scusarsi. Cosa sarebbe successo se i carabinieri avessero sparato per “errore” agli uomini del sig. Negroponte, all’epoca della morte di Calipari plenipotenziario dell’amministrazione americana in Iraq, esportatore di ben altro che la democrazia, noto in mezzo mondo per i sistemi notevolmente sbrigativi da lui patrocinati nei confronti di chi ostacolava, per esempio in America meridionale e in Asia, gli interessi americani?
Se questa tragedia non è sufficiente a mostrare l’inadeguatezza delle scelte della diplomazia italiana nei confronti di quella statunitense, possiamo ad esempio citarne un’altra: il rapimento del religioso islamico Abu Omar, di cui si è avuto notizia solo nel luglio scorso e avvenuto in Italia nel 2003 ad opera della CIA. Dopo essere stato rapito Abu Omar è stato trasferito in Egitto (altro campione di stato democratico ove le democrazie occidentali “esportano” alcuni terroristi veri o presunti perché vi si praticano, lontano da orecchie e occhi indiscreti, sistemi coercitivi di reclusione). Il governo italiano ha finto di indignarsi con quello americano per la violazione della sovranità territoriale, e per aver consentito che vi si compisse un grave atto di illegalità internazionale. Per tutta risposta il governo americano ha trattato, anche in questa circostanza, con malcelata sufficienza quello italiano.
Che dire poi del visto negato dalla Farnesina ad alcuni iracheni, tra cui Al Kubaisi, componente il Consiglio degli Ulema, invitati nel nostro paese per raccogliere fondi a favore della resistenza irachena. Visto negato dopo che 44 parlamentari statunitensi, incuranti del principio di non ingerenza, hanno sollecitato per iscritto il governo italiano a non fare entrare nel nostro paese dei “terroristi”?
Dopo queste ed altre vicende è ipotizzabile pensare ad atteggiamenti antiamericani da parte della Farnesina? O sarebbe auspicabile che, finalmente, gli americani vengano trattati come meritano, nel bene come nel male? Ad esempio che venissero prese in considerazione le proposte dell’ambasciatore Sergio Romano che ha sollecitato a riconsiderare la presenza delle basi americane nel nostro paese, visto che la guerra fredda è ormai lontana e che “esiste anche e soprattutto il problema dell’uso che gli americani, dopo il crollo dell’URSS, fanno di queste basi… Possiamo accettare che gli americani abbiano sul nostro territorio e nelle nostre acque armi nucleari, sottomarini nucleari, strumentazione elettronica e basi di appoggio per le loro eventuali operazione di commando in altri paesi?”.
Il 13 luglio scorso il ministro della difesa Antonio Martino ha ammesso in parlamento la “presenza di 50 bombe atomiche tattiche B61 ad Aviano e 40 a Ghedi, alcune delle quali con potenza 13 volte maggiore della bomba di Hiroshima” (Liberazione 14-7-05); bombe atomiche americane. In violazione del Trattato di non proliferazione nucleare. Altro che Corea del Nord e Iran! Ha ragione l’ambasciatore Romano? Basta chiederlo, ad esempio, al presidente della giunta regionale sarda Renato Soru, per il quale la presenza degli americani nell’isola di La Maddalena non è più sopportabile, come sono intollerabili le numerose servitù militari di cui è costellata l’isola. Per non parlare dell’avversione che circonda le basi militari americane e NATO sparse per la penisola.
Dopo gli attacchi del 7 luglio alla metropolitana di Londra che hanno causato la morte di 52 persone, il primo ministro britannico ha dichiarato che “le regole del gioco sono cambiate” ed ha fatto prendere dal suo governo una serie di provvedimenti in funzione antiterroristica, che dovrebbero servire a tutelare meglio la società britannica, anche se alcuni di questi provvedimenti comportano la violazione di diritti umani. Il premier inglese ne è consapevole, ma fa capire che intende fare di necessità virtù. Soprattutto se la cosa riguarda una fascia particolare della società britannica: la comunità islamica. Sulla scia di quello inglese si sono mossi altri governi europei, compresa l’Italia. E così ci troviamo di fronte ad un (apparente) paradosso e ad un bel risultato: esportatori della democrazia hanno importato nei propri paesi, a causa della cosiddetta emergenza antiterrorismo, oltre alle violazioni alle costituzioni del proprio paese (in Italia l’articolo 11), una serie di provvedimenti restrittivi della libertà dei cittadini. Aveva iniziato il presidente americano col “Patriot Act”, siamo arrivati all’esame della saliva, imposta per legge su proposta dei ministri leghisti, dal governo del nostro paese.
Il problema è che dalla difficile situazione diplomatica, in cui l’attuale governo ha cacciato il nostro paese (gaffe a ripetizione del presidente del consiglio con capi di stato, di governo e parlamentari europei, frizione con la Germania per il seggio all’ONU, ripetute divergenze con la Francia, alleanza militare con Israele in funzione inevitabilmente anti-araba, guerra in Iraq, ecc…), si deve uscire prima possibile, abbandonando l’idea d’essere una media potenza militare che agisce per “esportare la democrazia” (una maniera elegante per dire che si vogliono fare affari con – e per – le armi) e riprendendo seriamente ad esercitare un ruolo positivo e propositivo nel Mediterraneo tra Unione Europea e paesi dell’Africa e del Medio e Vicino Oriente.

settembre 2005