La "beat generation"
di Mario Centrone

Spesso si sente parlare della beat generation per indicare quel gruppo di giovani intellettuali, insediatisi in California, che dettero origine a quel movimento di protesta e di rifiuto della società dei consumi che confluirà in seguito nei movimenti di protesta e di contestazione studentesca alla guerra del Vietnam. Fra gli esponenti del gruppo ricordiamo Kerouac, Cassady, Ginsberg, Borroughs e Gregory Corso. In Ginsberg la fuga dalla società americana, il rifiuto misto d’orrore e di sarcasmo del gretto materialismo che vi regna incontrastato si rivelano per quello che veramente sono: un’ansia metafisica di liberazione da quel carcere che é la condizione individuale nella storia. Si inserisce in questo contesto il forte richiamo che negli esponenti del gruppo esercita il viaggio, l’Oriente, tutto ciò che può rappresentare un percorso di liberazione, comprese le droghe.
Una parte fondamentale di questo sogno é, naturalmente, l’esaltazione della natura, della sua semplicità, dell’innocenza e di quell’età in cui meglio sembrano definirsi questi caratteri, cioé l’infanzia e l’adolescenza.In quel periodo il paesaggio industriale era ormai diventato una seconda natura e l’America da Nord a Sud, da Ovest a Est era sempre la stessa: la stessa Coca-cola, gli stessi country clubs, le stesse catene di negozi, la stessa isterica tristezza, la stessa disperata e spenta vitalità. Gli scrittori della beat generation evocano il tempo libero come un bisogno affinché l’uomo ritorni uomo e non ingranaggio strumentale della produzione. Quello che i beats di Kerouac in verità invocano é la liberazione da quel nodo di irrisolte contraddizioni, da quel bagaglio di pensieri e di incrostazioni linguistiche che é la propria individualità.Dietro il silenzio della parola invocano l’oblio della non vita o l’eremitaggio-zen in vita, la non partecipazione, l’esclusione e segregazione volontaria.D’altra parte, come qualcuno ha sostenuto tutta la poesia di Ginsberg e la tormentata, sensuale ricerca del divino che la caratterizza, assumono toni di un cupo, delirante medievalismo. La poesia serve non a rappresentare, ma a vivere il mondo: é, esiste nel momento stesso in cui é pronunciata, si brucia nell’attimo della comunicazione, é il rituale di un gesto di fisica identificazione, di abbraccio panico, d’amore universale per il mondo. Di qui, la musica tipica di questa poesia, il tono che le sarà connaturato e cioé più che il grido, l’urlo, la protesta veemente e assoluta dello spirito imprigionato nella carne, la sola forma esistenziale e poetica che possa adeguatamente rendere questo divorzio metafisico con se stessi e con il proprio tempo. La poesia nel religioso orrore che evoca, sembra appunto il grido non tanto di un uomo, ma di un animale ferito; essa parla cupamente di questa condizione retrocessa ai primordi della storia. Gli anni sessanta sono per gli Stati Uniti un decennio di profondo fermento. Dopo la fase da inquisizione maccartista e la guerra in Corea, si apre il periodo dell’esaltazione tecnologico-spaziale, della crisi di Cuba e dell’ipocrita e assurda situazione in Indocina (Vietnam, Cambogia, Laos) e della CIA. All’interno c’è lo strapotere dei mass medi che riescono a manipolare le notizie, ma non a far tacere le rivolte dei neri per le brutalità razziste della polizia, o a tralasciare di parlare di attentati che mettono in discussione i simboli del consumismo. Martin Luther King e Malcolm X, rivolte nei campus universitari e i primi sit-in, la nascita di organizzazioni studentesche di sinistra e l’underground.
L’underground è sicuramente l’aspetto più caratteristico del fermento pre-sessantottino; il dissenso viene espresso con le armi della non partecipazione, della rivoluzione psichedelica (cioè, basata sulla rivelazione della psiche), della liberazione dell’individuo, dell’abbandono della società, della non-violenza, del misticismo che però verso la fine della decade tenderà a confluire in associazioni radicali di palese e aggressivo attacco al sistema. Nata dall’”urlo” beat, la cultura underground abbraccia sempre più giovani nel corso degli anni sessanta, essa diventa l’ultima frontiera per il giovane deluso dall’establishment, il sistema. Da una condizione di disaffiliation si passa alla ricerca di una soluzione al di fuori della società, fatta di pratiche alternative ai suoi aspetti più disumani, ricadendo innanzitutto sulla tradizione ottocentesca: l’idealismo e l’individuo di Whitman, la libertà, la non-violenza, fuga-esilio nella natura di Thoreau, le soluzioni comunitarie in campo economico e sessuale degli Shakers e infine gli esempi di utopie socialiste come quella di R. Owen.
Altri spunti vengono ricavati poi da altre civiltà in cui sia rintracciabile un nuovo concetto dell’individuo; ecco che arriva l’Oriente, l’io-tutto dello Zen e il messaggio, frainteso dagli hippies che con esso giustificavano l’abbandono della società, dell’immersione del saggio Zen nel flusso delle cose, la povertà e la purezza dell’uomo. Quindi gli hippies si ispirano anche alle antiche civiltà maya, azteca e inca nell’idea di una comunicazione tra gli uomini non verbale, ma telepatica, spingendo tantissimi giovani ad avventurarsi nella ricerca più approfondita del proprio io attraverso l’uso di droghe naturali come il peyotl, lo yagè o i funghi sacri. Per ultimo, i riti sociali e religiosi dei pellirosse hanno avuto sicuramente il loro fascino su quei giovani così in colpa per i misfatti dei loro antenati. Inoltre confluivano sicuramente nell’underground quei bisogni pressanti di rinnovamento culturale e sociale, di anarchismo e di sfiducia totale nelle vie politiche tradizionali (parlamentarismo o rivoluzione). Era il flower power, il potere dei fiori, il facile ottimismo non-violento concretizzato nella droga, nel sesso e nelle religioni orientali. Si costituivano comuni agricole in nome del rifiuto dei mezzi agricoli e dell’autosostentamento, ma senza rendersi conto della provvisorietà di un tale tipo di soluzione e nella stessa ambiguità si cercava di rivivere culture ormai morte in contesti del tutto differenti. Tuttavia questa volontà di non accettare il laissez faire generale ebbe una serie di effetti positivi; in campo culturale l’underground ebbe la funzione di scuotere una società ormai cristallizzata fino all’osso. Attaccò il teatro, ormai grigio e squallido, il cinema commercializzato di Hollywood, la letteratura “moribonda” dei best-seller e al contempo riscoprì la musica folk, il blues e il jazz. Su tali basi abbatté ogni settorialismo mettendo insieme pittura, teatro e cinema, creando forme artistiche in cui lo spettatore si trova direttamente coinvolto nella performance sottraendolo al ruolo passivo di non-partecipazione. Attaccò i tabù borghesi dell’oscenità, del sesso, della promiscuità, della pornografia, dell’omosessualità e del lesbismo, svuotandoli del subdolo e ipocrita contenuto che la società gli “appiccicava” sopra. Tolse il sesso dalla “buia camera del sabato sera di papà e mamma”, dai cinema e riviste per soli uomini per farlo erompere con forza vulcanica nella letteratura e nel cinema privato di ogni sfumatura di peccato rendendolo nuovamente uno dei primi elementi della vita creativa: il sesso come gioco e libera espressione dell’”io” all’apice della sua totale nudità.
“Guardati dai tipi del sistema: non hanno alcuna capacità di capire. Sappiamo che il sistema non funziona, poiché viviamo in mezzo alle sue rovine […] Essere un capo è di per sé una cosa cattiva […] Perché, poi, dovremmo cambiare un establishment per un altro establishment? Fa’ a modo tuo. Sii te stesso. Se non sai che cosa sei, scoprilo. I capi, mandali a farsi fottere”. La grande nemica dell’underground è sempre stata la seduzione dell’establishment che con la repressione o con la riprovazione morale, sfruttando la propria capacità di assorbimento, ha tagliato oppure ha lasciato cadere e marcire quei rami, per così dire, “malati”. Quasi senza accorgersene, l’underground dopo l’ottimista esplosione dei primi anni è andato lentamente spegnendosi. “Il vecchio socialismo ha perduto […] Il marxismo e l’anarchismo sono falliti […] Il marxismo era troppo meccanicistico. Si è lasciato ipnotizzare dalla macchina […] Rappresentava un’ottima teoria della società per il XIX secolo”; ora infatti troppe rivoluzioni hanno sconvolto la vita dell’uomo contemporaneo a cominciare da quella sessuale, con cui si è liberata l’energia repressa dell’individuo, e quella dell’automazione, che ha superato tutte le altre teorie economiche della storia. A tutto ciò si è risposto con la rivoluzione psichedelica, cioè basata sulla scoperta di nuovi e più profondi universi attraverso l’uso di sostanze rivelatrici della psiche, che a sua volta ha comportato un radicale cambiamento nel modo di intendere l’arte unendola inseparabilmente alla vita. “Fare l’amore, fare dei bambini e occuparvi della vostra ragazza, questa è la funzione di un uomo. Uccidere gente è per quei fantocci che non sanno quale è la loro vera funzione”. Youthquake, terremoto giovanile, è la parola giusta per qualificare ciò che è accaduto negli anni sessanta. Ma allora in che senso si può mettere in relazione la Beat Generation con il movement degli anni sessanta? La differenza è ancora di carattere generazionale. Le idee di base sono la stesse, ma si verifica una profonda evoluzione sufficiente a rendere possibile la distinzione tra i giovani degli anni cinquanta e quelli del periodo pre-sessantottino. Quindi l’età di quei giovani protagonisti era diversa, la mentalità pure e soprattutto la situazione storica e culturale non era già più quella dell’immediato dopoguerra. Ormai il ricordo del conflitto mondiale era sfumato e si era creato il temuto “equilibrio del terrore” della guerra fredda; non c’erano più i vecchi hipsters, ma invece il fenomeno beat dilagava un po’ in tutto il paese e a, dire il vero, la Beat Generation non era neanche un movimento, tutto si riduceva a un gruppo affiatato di amici, una élite di affamati di vivere. Al contrario l’underground, a partire dai gruppi urbani, si era esteso praticamente a tutta la popolazione giovanile d’America e d’Europa aumentando l’effetto della propria azione di opposizione alla politica dei conservatori - lo hippie si trasforma in yippie, cioè in aderente allo YIP, il partito internazionale della gioventù. Si creano quindi delle strutture e delle associazioni come per esempio l’underground press o il Living Theater. L’individuo passa in secondo piano e nascono le comuni che si contrappongono alla lotta personale dei Beats e alla loro spontaneità non più rintracciabile nel movement. Si potrebbe dire che l’underground nacque morto, cioè dal parziale assorbimento della Beat Generation da parte dell’establishment e di fatti si poté assistere a una grande commercializzazione portata avanti da tutti i mass media. L’underground quindi è la sottocultura delle grandi città. Le analogie tra i due movimenti si riducono all’antimilitarismo, al pacifismo, all’ambientalismo, all’uso di droghe leggere e all’importanza dell’individuo e del sesso, ma per esempio anche la musica che ascoltano è diversa; i Beats vanno in trance per le lunghe improvvisazioni del be-bop mentre gli hippies si dirigono verso Bob Dylan, che costituisce sicuramente un collegamento tra le due generazioni. Infatti prima del ’65, cioè prima di sostituire la chitarra folk con quella elettrica, egli, pur dirigendosi alla massa, è da solo con la sua genuinità ad attaccare il sistema, mentre poi si commercializza drasticamente rendendo le proprie canzoni illeggibili.

All’interno delle arti underground bisogna anche parlare del “nuovo teatro americano” che tutto sommato esula un po’ da quello circoscritto al movement, basta pensare alla notorietà di compagnie come il Living Theater, il Bread & Puppet Theater e l’Open Theater. Il carattere “scandalistico” di questo tipo di teatro l’ha reso decisamente famoso, ma in modo quasi sempre superficiale, mentre proprio grazie a tali compagnie teatrali arrivò il grande rivoluzionamento della concezione del teatro, dell’abbattimento dei canoni ormai logori e della nuova visione di questo come determinato impegno socio-politico, sia per i significati che per le strutture.
Nel nuovo teatro non si fa letteratura, ma si comunica con parole semplici arricchite con immagini e suoni; poesia e musica jazz e rock accompagnano, quando non ne sono i protagonisti, le performances; non si intravede una struttura organica, ma si mette in risalto l’espressività dei gesti, dei suoni e dei colori; la lingua è sconvolta da ripetizioni, rallentamenti e accelerazioni. Il nuovo teatro ha avuto il merito di riscoprire forme teatrali comunitarie (Commedia dell’arte), popolari (pupazzi e marionette), rituali (riti etnici tribali e folcloristici), fondendo danza, musica e parola e rendendo allo stesso tempo partecipe l’intera collettività. Altra caratteristica del movement fu la stampa underground, sotterranea più che clandestina data la sua poca notorietà, che nacque proprio a causa dell’ottusità del sistema, cioè, come in ogni regime si diffondono giornali e riviste, così si cominciarono a diffondere il Greenwich Village Voice a New York e l’Oracle e la City
Lights Books di Ferlinghetti a San Francisco. Fondamentalmente fu la propaganda contro la guerra del Vietnam a far incrementare il numero di tali giornali che nel ’67 inondarono la California. Si possono distinguere due filoni di questi giornali: quello della New Left, Nuova Sinistra, e quello dell’attivismo non-violento. Comunque in ogni caso il sesso sembra uscito dal clandestinato e al suo posto vi si getta la guerra. Fu l’Oracle ad essere il più tipico organo espressivo del momento, rivoluzionando al contempo la grafica contemporanea di tutto il mondo; infatti, attraverso l’esperienza psichedelica si intensificò l’importanza cromatica della realtà rendendola visione. I titoli sono disegnati e il testo si mischia ai disegni sfumati che si insinuano nelle pagine al posto del nero tradizionale; il giornale diventa un oggetto da guardare, un “viaggio”. Ma queste riviste già nel ’68 (avevano aperto nel ’55) con un pretesto o un altro delle autorità vengono chiuse o fatte chiudere con la forza rendendo palese il desiderio violento di non colloquiare provocando di conseguenza nuove violenze nonostante il flower power, il potere dei fiori, un misto di amore e natura, invocato dagli hippies. Di certo la proposta beat di salvare il mondo non ha preso la giusta direzione: dalla non-violenza si è passati a un fin troppo determinato attivismo. La Beat Generation è stata quindi contaminata dalla politica e, se poteva reggere il confronto coi singoli, quei giovani della nuova guardia si sono creduti troppo forti e hanno perso. Il messaggio un po’ orientaleggiante dei Beats era sicuramente valido, ma forse era fatto per restare una prerogativa di pochi non adatto a reggere una massificazione di tali dimensioni . Un’avanguardia, in quanto tale, è caratterizzata da alcuni punti che la definiscono: il dinamismo temporale secondo cui lo scrittore si colloca consapevolmente in una cultura percepita come in costante trasformazione giustificando così la propria sperimentazione artistica; l’antagonismo sociale che rende possibile e obbligato l’allontanamento dell’autore dai valori etici, estetici e spirituali della critica contemporanea; la potenzialità storica dell’arte per cui l’avanguardista presagisce un futuro idealizzato che diviene scopo della sua opera, implicando alleanze con forze rivoluzionarie o comunque progressiste; e infine, la militanza estetica, cioè l’innovazione artistica è considerata spinta trasformatrice della consapevolezza nella vita e nell’arte.
Nel periodo del dopoguerra tali caratteristiche si sono ampiamente manifestate pur subendo i cambiamenti sociali concernenti l’immagine dell’artista, cioè sembra che la società abbia decisamente limitato l’antagonismo tipico delle vecchie avanguardie. Gli anni Cinquanta hanno espresso un vero e proprio movimento d’avanguardia proprio con la Beat Generation e infatti i Beats sono stati gli ultimi della tradizione di protesta bohemienne contro la società borghese, ma anche un tentativo di far rivivere l’immagine dell’artista come un ribelle visionario profeta. Mentre da una parte si trovano le indagini morali di J. Salinger, dall’altra si affianca la glorificazione dell’autoespressione dei Beats di cui molti atteggiamenti si possono accostare ai movimenti avanguardisti precedenti. In primo luogo l’autodefinizione degli scrittori come una minoranza all’opposizione; la certezza di un imminente emergere di una nuova figura sociale di cui essi sono dei modelli precursori; l’ampliamento della coscienza di sé attraverso l’uso di droga e alcool e anche solo attraverso esperienze sessuali o musicali; l’idealizzazione di un comportamento spontaneo e appassionato, visto come obiettivo da raggiungere; il riconoscimento in sistemi religiosi non occidentali o comunque primitivi; infine il congiungimento con gruppi sociali emarginati.
Quindi i Beats affondano le loro radici in autori del passato che a loro volta si erano posti in maniera simile in campo artistico e sociale e infatti sono stati numerosi i tentativi critici di costringere la Beat Generation entro rigidi schemi-o come espressione di altri movimenti ormai riconosciuti dalla storia. Soprattutto si è cercato di ricondurre la letteratura americana del secondo dopoguerra alla vecchia e nuova tradizione europea e sicuramente in parte è vero che i Beats leggevano e apprezzavano libri e poesie di autori del “Vecchio Continente”. Tuttavia è molto più importante sottolineare l’indipendenza di questo movimento che di fatto fu e rimase soltanto americano prendendo evidentemente spunto soltanto da Walt Whitman. Innanzitutto da William Blake accolsero l’immagine del Bardo, l’atmosfera di visione e delirio e l’antintellettualistica emancipazione dalle convenzioni; di Arthur Rimbaud colpisce il poetare collerico e visionario, che va contro la tradizione, il realismo, il misticismo e il linguaggio semplice; da C. Baudelaire mutuano l’esaltazione dell’uso di sostanze in grado di fornire una visione più profonda della realtà; da William C. Williams e da Ezra Pound si derivò la concretezza, la concisione e l’idea secondo cui la poesia si deve fondare sulla musica; per ultimo da Whitman, che deve essere considerato il grande creatore dell’american dream, sicuramente il free verse, il verso libero, lungo e irregolare, il ritmo, la ricerca continua di sé, il misticismo, la vivezza della lingua coi suoi gergalismi e termini onomatopeici e la sua non-europeità hanno influenzato gli autori della Beat Generation e in particolare modo la poesia di Allen Ginsberg. Hanno letto E. A. Poe, W. Faulkner e E. Hemingway per la loro crudezza, H. Crane per gli eco di Whitman, D. H. Lawrence per la sua franchezza riguardo il sesso e per ultimo Aldous Huxley, il grande autore esperto di droghe. E proprio il tema della droga, della visione alternativa della realtà e della liberazione dell’individuo attraverso l’uso di sostanze stupefacenti, ma soprattutto di psicodislettici - i comuni “allucinogeni” o psichedelici - costituiscono sicuramente un importante punto di partenza per i Beats e allo stesso tempo un distacco insanabile della Beat Generation con le altre generazioni “perdute” o di poeti più o meno maledetti. Infatti una grande distinzione deve essere fatta. Le consciousness-expanding drugs (=droghe che espandono la coscienza) negli anni Cinquanta hanno avuto notevole importanza per colmare il vuoto lasciato dal conflitto mondiale, esse erano un legame per sentirsi uniti. Droga=eroina=marijuana=mescalina= cocaina=hashish=LSD=anfetamina... tutte uguali per i giornali, la radio, la televisione, la gente dell’establishment. Al contrario per la Beat Generation e ancor più per il successivo underground la netta distinzione tra droghe dure, hard, e leggere, soft, è sempre stata chiarissima; le prime, gli oppiacei dell’Ottocento, danno assuefazione e creano dipendenza, mentre le seconde, di cui bisogna chiarire le origini culturali, alterano lo stato “normale” della mente inducendo vari tipi di “allucinazioni”. La definizione di tale linea di demarcazione non è basata soltanto su questioni mediche, ma soprattutto su motivazioni sociali; mentre la hard drugs allontanano l’individuo dalla realtà, chiudendolo nel proprio io, le soft drugs, come marijuana e hashish avvicinano le persone, eliminando le inibizioni e migliorando i rapporti tra i sessi e non solo. E così già Blake diceva: “Se le porte della percezione fossero sgombrate ogni cosa apparirebbe com’è, infinita”; Walter Benjamin d’accordo scriveva: “Sono convinto che certe forze dell’ebbrezza possano sostenere profondamente la ragione e la sua lotta per la libertà”; per ultimo, Aldous Huxley affermava: “Nessuna concezione dell’Universo nella sua totalità può essere definita senza prendere in considerazione queste forme di coscienza” riferendosi appunto a tali stati della mente. Infatti le droghe sperimentate nel secondo dopoguerra furono quelle che aiutavano a liberare la mente dalle “tenebre”: mescalina, funghi sacri, acido lisergico (LSD), hashish e marijuana. In molte tribù indiane la mescalina è diventata un culto religioso e il peyote, da cui questa viene estratta, è stato usato dagli stregoni per millenni a scopo divinatorio, curativo e telepatico nel corso dei tentativi di comunicazione con le forze soprannaturali o per approfondire la comunicazione nel gruppo o per migliorare la solidità sociale. I funghi sacri invece erano già utilizzati dagli Aztechi per avere visioni e allucinazioni o come sacramento in cerimonie religiose. LSD, considerato molto più potente della mescalina, provoca intense esperienze religiose e allucinazioni di carattere soprannaturale. La marijuana, una pianta psicotossica, fu largamente usata per aumentare la concentrazione nei momenti di contemplazione. Gli anni Venti segnarono una straordinaria diffusione di questa droga tra i musicisti neri di musica jazz e tra gli scrittori sperimentatori come Hermann Hesse, William Burroughs o Aldous Huxley. Lo hashish, che in arabo significa “erba sacra”, fu usato per scopi medici contro l’asma, il delirium tremens, l’isterismo e la rabbia. Il primo tentativo di reprimere l’uso di sostanze derivate dalla Cannabis risale già all’epoca di Napoleone per poi giungere al 1937, anno in cui un ex-proibizionista cominciò la repressione.
Con questi discorsi mistico religiosi la droga comunemente intesa ha ben poco a che fare. Come nel primo dopoguerra molti “scimmiottatori” si misero a bere solo per rischio, vanto o moda, gli imitatori degli anni Cinquanta fumarono marijuana solo per il gusto di trasgredire una proibizione e la propaganda del sistema si basò e si basa soprattutto su questi sfortunati che il più delle volte finirono per cadere nuovamente negli oppiacei. La direzione costante fin dall’inizio era l’attacco al modo di vivere e pensare dei borghesi, il mondo square, con la loro manipolazione compiaciuta e assurda dei mass media e del sistema e con tutte le inibizioni sessuali e non solo dell’individuo, ormai ridotto a una macchina un po’ vecchia e non più competitiva. Criticano il mondo americano di Eisenhower col suo falso moralismo puritano e le illusioni ancora positivistiche. Ma non si limitano alla pura e semplice critica, i Beats propongono e non risparmiano nulla nel nome di una forma possibile di salvezza: il Buddismo Zen.

“Nel Buddismo non c’è posto per gli sforzi. Basta essere normale e niente di speciale. Mangia il tuo cibo, svuotati le budella, libera la vescica, e quando sei stanco vatti a stendere. L’ignorante riderà di me, ma il saggio capirà” e poi “lo Zen è soprattutto la liberazione della mente dal pensiero convenzionale, cioè qualcosa di assolutamente diverso dalla ribellione contro tutte le convenzioni come dall’adozione di convenzioni estranee”: “Nel paesaggio primaverile non c’è meglio né peggio; i rami in fiore crescono naturalmente, lunghi alcuni, altri corti.”
Propongono una vita spirituale e non materialistica, solo l’indispensabile viene ottenuto momento per momento e ricercano disperatamente il proprio “io” e la comunicazione con gli altri individui. E allora entrano in gioco il sesso, massimo tabù per gli anni Cinquanta, e le droghe, punto di partenza per abbattere inibizioni e per vedere una realtà in cui non ci sono tanti individui chiusi ognuno in sé, ma una “tribù” multietnica. Basta con gli egoismi e i conflitti, ma amore, pace e solidarietà. La morte è sempre presente e in un modo o nell’altro tutti gli individui devono affrontarla e i Beats rispondono a modo loro.
Di certo la Beat Generation deve essere considerata un fenomeno esclusivamente americano, come pure si è detto parlando delle “terre” in cui essa affonda le proprie radici.
E’ l’America con i suoi sterminati spazi e la sua gente così legata allo spirito pionieristico che ha fatto la Beat Generation; no, non ci sono argomenti che reggano, è impossibile riscontrare un’”amicizia” simile al di fuori dell’ambito statunitense. Forse i beatniks, gli imitatori senza scrupoli e senza reale interesse alla vita beat, possono essere ritrovati anche in Europa, ma i Beats no di certo; erano già pochi in America figurarsi se li si poteva trovare fuori dal proprio “ambiente”, in altri paesi meno industrializzati, meno maccartisti, meno nucleari, meno imperialisti, meno aperti al sincretismo religioso, meno in crisi per i propri tabù, impossibile. Però i “figli dei fiori” si, certo loro erano di più, erano più commerciali e facilmente assimilabili, erano gli hippies e forse ancor più gli yippies, con la loro “ politica dei fiori”, e non sapevano che li avrebbe inghiottiti così facilmente, già perché l’establishment è spietato e non dà tregua, ma loro erano un po’ stanchi e forse neppure tanto convinti di se stessi che si sono lasciati andare alla contemplazione eremitica oppure all’attivismo corrompente del mondo occidentale. Hanno perso, ecco perché se ne possono trovare tanti ancor oggi che si fingono fedeli alla loro vecchia ideologia oppure che si riducono a vagare senza una meta spirituale effettiva. Hair, titolo che fa riferimento all’aggettivo hairy, cioè capellone, il famos musical prodotto da Broadway in opposizione al Living Theatre è proprio il simbolo della commercializzazione dell’underground, un miscuglio di divulgazione e di strumentalizzazione del costume. Gente abbigliata con abiti strani fuori moda, con i capelli lunghi gli uomini e con i jeans le donne – in segno di uguaglianza dicono -, sandali alla Ginsberg ai piedi e nastrino all’indiana sulla fronte, marce per la pace in Vietnam, roghi di cartoline precetto di leva e meditazione psichedelica a base di LSD riprodotta con luci coloratissime, bolle di sapone e immagini convulse – da notare il Magic Mistery Tour dei Beatles, altrettanto triste e commerciale -. Questo è quanto è accaduto, l’underground si è diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo occidentale sviluppato, a partire da Londra, Parigi e Amsterdam, ha fatto il ’68 ed è stato più monopolizzato di quanto se ne sia accorto.
In Italia - come al solito qui tutto arriva marginalmente - dopo il ’68 non c’è stato più un grande interesse per il fenomeno contestatario giovanile; sono stati molti i giovani che hanno abbandonato tutto per fare lunghi viaggi in India e sul Tibet ed è vero che molti di loro, figli ricchi di industriali, lo facevano solo per provare nuove esperienze psichedeliche con le droghe o per trovare un po’ di tempo in più per non dover entrare nel mondo del lavoro, ma è altrettanto reale l’effettivo interesse di molti studenti universitari del corso di lingue che hanno steso innumerevoli tesi di laurea sulla Beat Generation. Il materiale è difficile da trovare nonostante che spesso molti Beats siano venuti proprio nella nostra penisola o invitati a qualche festival (Spoleto Festival, 1965), a cominciare da Ginsberg e Corso, oppure alla ricerca delle proprie radici, come Ferlinghetti che scrive Scene italiane, viaggio di versi nelle nostre terre. In Italia la più grande esperta di Beat Generation è l’americanista Fernanda Pivano che ha curato e scritto molte introduzioni e prefazioni di libri beat e molti testi di critica a riguardo e che soprattutto è loro amica. Oltre che su testi letterari la Beat Generation può essere conosciuta anche su disco o pellicola cinematografica anche se in Italia si trova ben poco. E’ reperibile Pull My Daisy (1959) di R. Frank e A. Leslie, la cui sceneggiatura è stata scritta da Jack Kerouac e che è stato interpretato da Orlovsky, Ginsberg e Corso; La nostra vita comincia di notte (1960) di R. McDougall, trasposizione cinematografica de I sotterranei; The Beat Generation: An American Dream (1987),con Burroughs, Cassady, Corso, Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti; infine più facile da trovare è Il pasto Nudo (1991) di D. Cronenberg, tratto dall’omonimo romanzo di Burroughs.

J.Kerouac on the road

“Ho avuto una bellissima fanciullezza, mio padre era un tipografo a Lowell, Massachusetts, trascorsa correndo giorno e notte per i campi e lungo le banchine dei fiumi, ho scritto dei brevi racconti in camera mia, il primo lo scrissi all’età di 11 anni, ho tenuto lunghi diari e ho redatto giornali dove pubblicavo dei resoconti, inventati completamente da me, di corse di cavalli, di incontri di baseball e di football (come è ricordato nel romanzo Il Dottor Sax).- Ho ricevuto una buona istruzione elementare dai Gesuiti della Scuola Parrocchiale di St. Joseph a Lowell, che mi permise di guadagnare degli anni nell’ammissione alla scuola pubblica […] Ho fatto della lunghissime passeggiate notturne sotto i vecchi alberi del New England con mia madre e mia zia. Ascoltavo attentamente le loro chiacchiere. Ho deciso di diventare uno scrittore a 17 anni, sotto l’influenza di Sebastian Sampas, un giovane poeta locale che più tardi morì nello sbarco di Anzio. A 18 anni ho letto la vita di Jack London e ho deciso di diventare un avventuriero, un viaggiatore solitario; prime influenze letterarie Saroyan e Hemingway; in seguito Wolfe (lessi Tom Wolfe dopo essermi rotto una gamba in un incontro di football tra matricole alla Columbia e andai nella sua New York sulle stampelle).- Influenzato dal fratello più vecchio Gerard Kerouac, morto all’età di 9 anni nel 1926 quando io ne avevo 4, era un grande pittore e nella sua fanciullezza dipingeva – (ricordato nel quarto romanzo Visions of Gerard).- Mio padre era un uomo veramente onesto e pieno di allegria, trascorse gli ultimi anni nel periodo della presidenza Roosvelt e della Seconda Guerra Mondiale e morì di cancro alla milza.- Mia madre è ancora viva, conduco con lei un tipo di vita quasi monastico che mi ha permesso di scrivere tanto.- Ma ho scritto anche sulla strada, come vagabondo, viaggiatore ferroviario, esule messicano, viaggiatore in Europa (come si può vedere in viaggiatore Solitario).- La mia unica sorella, ora sposata a Paul E. Blake Jr. di Handerson, N.C., un tecnico governativo dei sistemi antimissile – ha un figlio solo, Paul Jr., mio nipote, che mi chiama zio Jack e mi adora.- Il nome di mia madre è Gabrielle ed io ho appreso da lei il modo naturale di raccontare lunghe storie su Montreal o il New Hampshire.- La mia famiglia è di origine bretone, il mio avo nordamericano, il Barone Alexandre Louis Lebris de Kerouac di Cornwall, Bretagna, 1750 o giù di lì, ebbe in concessione una terra lungo la Rivière du Loup dopo la vittoria di Wolfe su Moncalm; i suoi discendenti si sposarono con gli Indiani (Mohawk e Caughnawaga) e diventarono coltivatori di patate; il primo discendente statunitense fu mio nonno Jean-Baptiste Kèrouac, carpentiere, di Nashua, N.H. – Mia nonna era una Bernier imparentata con l’esploratore Bernier – tutti Bretoni nel ramo paterno – Mia madre ha un nome normanno, L’Evesque. […] Ho letto e studiato tutta la vita. Al Columbia College ho battuto i records nel marinare i corsi per restare in camera a scrivere un racconto al giorno e a leggere Louis Fernande Celine, invece dei ‘classici’ che ci facevano studiare nel corso. […] I miei piani: vivere in solitudine nei boschi, tranquilla scrittura della vecchiaia, dolci speranze di Paradiso (che in ogni caso arriva per tutti…)”.
Nacque a Lowell il 12 marzo del 1922 ed ebbe una rigida istruzione cattolica i cui effetti si manifestarono nelle profonde aspirazioni religiose, nonostante una vita dissipata e vagabonda. Cominciò a frequentare l’università fino all’imbarco in marina come cuoco nel conflitto mondiale. Fu congedato perché nevrotico e in patria riprese a studiare fino a che non si dedicò ai viaggi. Conosce Allen Ginsberg, William Burroughs e Neal Cassady, grande esempio di vita.
Lavora casualmente e muore nel 1967 alcolizzato, accompagnato da difficili vicende come due divorzi, avere una madre invalida e vedere la propria vena creativa esaurirsi troppo velocemente. Fortemente influenzato all’inizio da Thomas Wolfe, Kerouac scrisse il suo primo romanzo The Town and the City (La città e la metropoli, 1949), inspirandosi ai ricordi dell’infanzia. Opera monumentale di mille e più pagine scritta di getto, fu poi ridimensionato, non alterando però la facoltà dell’autore di rappresentare con fotografica precisione i dettagli della vita quotidiana, colta nella sua meravigliosa semplicità. Inoltre, nonostante la prolissità dovuta evidentemente all’ispirazione autobiografica, il romanzo segna un deciso tentativo di gettare le basi di un nuovo tipo di prosa, “spontanea” (come l’ha definita egli stesso), più parlata, senza regole sintattiche, paratattica; sostituisce alle virgole (quasi sempre inutili) e ai punti trattini e parentesi che ricordano gli staccati improvvisati del jazz, quindi senza un apparente filo logico. Questo sperimentalismo, che in un certo senso oltre a essere la caratteristica principale di Kerouac è anche il suo limite, viene giustificato dall’autore come ricerca di una verità misteriosa attraverso la scrittura. Solo nel romanzo successivo On the road (Sulla strada, 1957) egli riesce a controllare il suo flusso vulcanico di materiale e a conferirgli un certo ordine narrativo. Il motivo fondamentale del viaggio, dominante nella letteratura americana, con il gusto per l’avventura, i paesaggi e i tipi strani, crea unità in un romanzo dove si passa dal febbrile all’estatico: “Fai ciò che vuoi, esplora tutti i sentieri per l’autorealizzazione e l’autogratificazione, impara ad essere innocente e libero e spontaneo”. Ma allo stesso tempo On the Road forse può rappresentare anche una fuga da tutte le responsabilità rivolta ai paradisi “artificiali” del sesso, droga e alcool. Descrivendo le esperienze di un gruppo di giovani amici ribelli, che reagiscono all’establishment, egli, non sottraendosi in parte ai miti della velocità, del jazz e delle orge promiscue, mostra più che un desiderio di rivolta uno di nostalgia di emozioni represse, che si manifesta nella travolgenza dell’attimo. I frenetici viaggi da Est a Ovest e da Nord a Sud si costruiscono un po’ su quelle vecchie piste seguite dai pionieri alla ricerca del mito; in realtà i protagonisti sanno che oltre le coste c’è il mare e non più terra dove andare, cioè percepiscono forse che la beatitudine si chiude nella ricerca continua di forti emozioni e che non è possibile andare oltre. Questa ricerca rivela quindi un tentativo di contrapporre la sensazione-certezza di essere vivo alla presenza indistruttibile della morte. Il personaggio fondamentale di On the Road, che rappresenta l’alter ego dell’autore, è Dean Moriarty, Neal Cassady nella realtà, l’ispiratore di Kerouac e un po’ di tutta la Beat Generation. Un carcerato, ex-studente universitario, vagabondo, guidatore spericolato, amatore frenetico, occasionalmente ladro di automobili, inguaiato continuamente in divorzi e nuove mogli e un beat che alterna periodi di lavoro folle con altri passati interamente “on the road” da San Francisco a New York. Espressione di energia allo stato puro, di una forza primitiva soppressa, Dean è l’anima selvaggia dell’uomo che rifiuta la respectibility (=rispettabilità) della società contemporanea: “un ragazzo tremendamente eccitato di vita”. Per Kerouac, Salvatore Paradiso nel romanzo, Dean è come un fratello perduto, un parte di sé fatta di spontaneità e freschezza rispetto al mondo freddo dei discendenti dello homo americanus; egli diviene simbolo “di tutti gli ‘innocenti, gli idioti’, gli ‘umiliati e offesi’ d’America: ‘L’intelligenza di Dean era in ogni sua parte altrettanto formale e luminosa e completa, ma priva di noioso intellettualismo. E la sua criminalità era qualcosa di risentito e di beffardo; era lo scoppio sfrenato, pieno di assensi e di americana gioia; era il West, era il vento del West, un’ode di praterie, qualcosa di nuovo, da lungo profetizzato, da lungo atteso […] Dean semplicemente correva attraverso la società, avido di pane e di amore’”.
Da Detroit a Los Angeles, da Chicago a San Francisco, da New York a New Orleans, e poi oltre verso il Messico, nuova terra da scoprire, dagli spaccati futuristici delle grandi megalopoli ai bassi fondi dei ghetti, ai vagabondi della stazioni degli autobus e agli straccioni e delinquenti della hopeless night, la notte senza speranza, d’America. Eppure anche Kerouac si ferma e si interroga e “tra momenti di estasi e abissi di sgomento, euforia e disperazione, sembra approdare ad un interrogativo senza risposta sul significato ultimo di tutto l’andirivieni e l’agitarsi del mondo americano: ‘Non si può andare avanti continuamente […] tutta questa frenesia e questo saltare qua e là. Dobbiamo arrivare in qualche punto, trovare qualcosa’”. On the road fu scritto in soli tre mesi nel 1951, ma prima di poter essere pubblicato dovette attendere sei anni; alla sua uscita divenne subito un “manifesto” ufficiale e in esso molti si riconobbero per il nomadismo, il jazz e le nuove esperienze. In realtà Kerouac voleva esprimere il suo senso di alienazione dalla società tecnocratica degli anni Cinquanta e il profondo desiderio di ritrovare una energia vitale apparentemente perduta; infatti la politica non entra mai nel romanzo, se non per come questa possa rientrare in un dialogo tra amici sull’andare in qualche posto, e il disimpegno ideologico è assoluto. Non è una protesta, ma è la ricerca e la proposta di una vita spirituale, è l’innocenza dell’uomo. In una intervista in cui gli fu chiesto se la Beat Generation fosse alla ricerca di qualcosa egli rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. La religione quindi è sicuramente un filo conduttore di tutta l’opera di Kerouac, e di un po’ tutti i Beats in generale, e la sua proclamazione ufficiale di essere discepolo del Buddismo Zen la troviamo in The Dharma Bums (I vagabondi del Dharma, 1958). Egli si dichiara di non essere un buddista Zen square, cioè di non passare il proprio tempo in meditazione in monasteri, ma di essere seguace di un Buddismo Zen a modo proprio, cioè beat, che si esplica nella concentrazione sulla vita a contatto con essa. Effettivamente però già il suo terzo romanzo mostra i segni di una successiva involuzione; infatti non è sempre ben distinguibile la differenza tra esaltazione religiosa e intossicazione da alcolici e stupefacenti. Si narrano le vicende di un periodo vissuto sulle montagne del Nord Pacifico, il “Desolazione” (dalle parti del monte Baker trascorso a fare la guardia forestale per un’estate intera completamente isolato dal resto del mondo.
Con The Subterraneans (I sotterranei, 1958), scritto in sole tre notti, si intravede una certa freschezza e la possibilità di una rinascita; in esso è narrato l’amore per una ragazza negra di San Francisco. Doctor Sax (Il dottor Sax,1959) invece rievoca l’infanzia a Lowell e mescola ricordi di persone vere con personaggi dei fumetti. La sua prosa sperimentale qui diventa veramente incomprensibile a causa di associazioni illogiche e discontinue, passando da un pensiero a un altro. La narrativa del viaggio che non viene quasi mai abbandonata viene spiccatamente ripresa in Desolation Angels (Angeli di desolazione, 1965), in cui si seguono i movimenti più recenti dei Beats verso il Messico, Tangeri, capitanati da W. Burroughs, e a Londra. In Satori in Paris (1966) troviamo l’autore a Parigi alla ricerca delle proprie origini francesi ed europee, nella vita personale e nella meditazione spirituale, ma senza ottenere successo. Big Sur (1967) è ambientato in un periodo in cui la nuova guardia ha già spodestato la vecchia; troviamo un autore che rifugge dai beatniks, dal successo che la società protestataria dell’underground gli sta portando, e così il romanzo è un praticamente un diario di un periodo trascorso in quasi isolamento in una capanna di L. Ferlinghetti a Big Sur appunto. Vanità di Duluoz (1968) è invece un’aperta confessione di ricordi ed esperienze giovanili, ma elaborate in associazioni quasi psichedeliche; inoltre si mette in luce la profonda delusione verso quelle manifestazioni underground, di cui era stato il precursore, ormai commercializzate all’estremo e perfettamente assorbite dall’establishment. Postumo fu pubblicato nel 1971 Pic, in cui si descrive il viaggio di un ragazzo nero fratello di un suonatore di jazz per raggiungerlo ad Harlem, e Vision of Cody (Visioni di Cody, 1972) che riporta aneddoti e stati d’animo del tempo passato con Neal Cassady - non voluto pubblicare dagli editori ma facente parte di On the Road.
Kerouac, il nuovo Buddha per Allen Ginsberg, deve essere considerato come l’autore di un unico grande libro, La leggenda di Duluoz, di Jack Duluoz, ovvero Jack Kerouac, un uomo che ha scritto e vissuto la sua vita, seguendo e inseguendosi, non lasciando posto alle vanità, ma andando diritto al concreto. Non è vero che i suoi romanzi sono tutti un’aggiunta o una dilatazione di On the Road o che egli fu soltanto un fenomeno di costume e moda; la sua opera, di matrice autobiografica, è vita, e sarà anche vero che il periodo a cavallo tra il 1947 e il 1955, cioè tra Sulla strada e I vagabondi del Dharma, è più interessante degli altri, ma è vita e anche se manca spesso unità narrativa, il fascino della prosa spontanea e dello scorrere fluido e frenetico del vivere, spesso gettato nella disperazione e nel delirio, attrae inevitabilmente ed è difficile non “divorare” quelle pagine che si vorrebbe non finissero mai.
“Quando arrivi in cima alla montagna, continua a salire” (Massima Zen)

Allen Ginsberg, the fall of America. Il misticismo
volto a restituire l’interezza dell’uomo.

Il 3 giugno 1926 nasce a Newark, New Jersey, figlio primogenito di una coppia borghese di ebrei. Il padre è insegnante in una high school ed è anche poeta, mentre la madre, di origine russa, è un’attivista filocomunista. Allen è molto attaccato alla madre che però ben presto comincia a dare segni di chiaro squilibrio mentale, fino ad essere poi internata; con essa il poeta rifiuterà tutte le altre donne e la sessualità femminile. L’influenza politica su Ginsberg è molto forte e già da bambino comincia a scrivere lettere di protesta ai giornali mentre si propone di diventare un brillante avvocato per battersi a favore degli operai. Nel 1943, entra alla Columbia University dove conosce Kerouac, che gli fa incontrare il jazz e le droghe, e insieme a quest’ultimo inizia a frequentare Burroughs che li introduce al mondo della letteratura. Legge Celine, Kafka, Vico e Spengler, ma le fonti sono Blake, Williams, Pound, Thoreau e soprattutto Whitman. Come quest’ultimo infatti si sente solo, ama cosmicamente tutti gli esseri umani, si forma su esperienze mistiche, ha ambiguità sessuale, usa lo stesso tono profetico, denuncia l’ipocrisia e il materialismo e non ha la freddezza tipica delle accademie: “Una parola sulle accademie: la poesia è stata attaccata da un mucchio di rompiscatole ignoranti e spaventati che non capiscono […] Il guaio con questi fottuti è che non riconoscerebbero la poesia neanche se spuntasse e glielo mettesse in culo in pieno giorno”. Per una bravata viene espulso per un anno, anno in cui comincia a frequentare locali per omosessuali, accettando la propria condizione, e gli spacciatori di Times Square, gli hipsters. In una visione sente Blake che gli parla ed egli così si convince di essere portavoce del divino nella vita. Per non dover scontare una pena con la giustizia si fa internare incontrando così il poeta Carl Solomon, che gli suggerisce la lettura dei surrealisti e proprio a lui viene dedicato Howl. Nel 1949 si laurea e abbandona New York per viaggiare in autostop e incontrare Neal Cassady, di cui si innamora però senza successo. Sente di appartenere al mondo dei Beats e trova in questi quel misticismo volto a ricostruire l’interezza dell’uomo; in tal modo riunisce il profetismo ebraico a quello whitmaniano e blakeiano. Le poesie scritte a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, raccolte in Empty Mirror, mostrano un’estrema insicurezza formale e personale; i versi brevi scritti sulle orme di Williams e di Blake rivelano le sue ansie fondamentali, come la ricerca di un contatto con l’universale e l’adesione a forme americane, che però non si fondono sovrapponendosi soltanto. La droga, marijuana, fungo sacro e LSD, è per lui lo strumento fondamentale della ricerca di consapevolezza. I viaggi in Messico e in Amazzonia, tra il ’52 e il ’53, per sperimentare preparati di stregoni e curatori, lo condussero a vedere più volte la morte, la distruzione fisica, il confronto con una parte di sé che egli rifuggiva, il rapporto con la madre e con la sua sessualità. Nel ’54 conosce a Berkeley Peter Orlovsky, da allora suo compagno, Kenneth Rexroth, Robert Duncan, Lawrence Ferlinghetti e Gary Snyder che lo introduce in modo più approfondito al Buddismo.
Nel frattempo i suoi versi cominciano a circolare sull’onda del successo del famoso reading del ’56 alla Six Gallery (SF) di Howl. In Howl infatti egli aveva finalmente trovato il suo ritmo nei lunghi versi liberi dirigendosi verso il suo tipico tono profetico.
Diviene una delle più importanti figure dell’avanguardia americana e, con Peter Orlovsky, comincia a fare lunghi viaggi per tutto il mondo, provando altri innumerevoli tipi di droghe psichedeliche. Il viaggio in India segna la massima crisi di identità dell’autore, che mette in dubbio i risultati raggiunti in passato, e da qui si pone fine alla parabola iniziata con la visione di Blake; rinuncia alla consapevolezza, per accettare di vivere col proprio corpo, nel proprio tempo e di venire a patti con la morte e con la propria femminilità. Ormai divenuto il portavoce della Beat Generation, all’inizio degli anni Sessanta è già un modello da imitare; si batte contro la guerra in Vietnam partecipando alle innumerevoli manifestazioni, tra cui quella di Chicago ’68, e si pone accanto a Bob Dylan, nell’esprimere il dissenso producendo The Fall of America (La caduta dell’America, 1973), per cui riceve il National Award For Poetry, in cui tuttavia registra l’inefficienza della semplice protesta. Ma ora la Beat Generation si sta spegnendo ed egli fonda la Jack Kerouac School of Disembodied Poetics, dove lavora come insegnante per diverso tempo. Successivamente viaggia ancora e approfondisce le tecniche di meditazione buddista, dopo aver preso i voti di bodhisattva nel 1972, e scrive Mind Breaths (1977), in cui si tratta di meditazione e concentrazione. La sua opera si apre con l’espressione della profonda delusione del fallimento dell’American Dream, con la perdita di identità e l’alienazione dell’individuo. Il linguaggio, rifiutata ogni forma di letterarietà, ritorna alla forma del parlato e il soggetto-autore mostra il suo subconscio. Howl, che insieme a Kaddish ha segnato una svolta nella poesia contemporanea, è un viaggio nella profondità della mente del poeta e nella visione dei sotterranei in cui vivono gli emarginati della società. E’ l’urlo del nuovo profeta americano che raccoglie e proietta nel futuro la voce e i pensieri di coloro che hanno denunciato la caduta dell’uomo, la perdita del contatto con Dio e con gli altri uomini e la chiusura in una razionalità alienante e distruttiva. Howl è fatto di versi nuovi, il ritmo del respiro è preso come unità di pensiero ed espressione, la cadenza è biblica, come per Whitman, le visioni ricordano Blake, Rimbaud e i surrealisti. Il poema è diviso in tre parti: “Parte Prima, lamento per l’Agnello d’America con esempi di notevoli giovani agnelli; Parte Seconda, descrizione del mostro della coscienza mentale che depreda l’Agnello; Parte Terza piramidale, con una risposta gradatamente più lunga alla base fissa”. “I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked” (=Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude). Così comincia la prima e la più lunga parte della poesia che regge tutti i versi successivi introdotti da “who” (=che), cioè “che”, come una performance jazz in cui si ritorna sempre sulla stessa nota, ma per poi prendere una strada improvvisata sempre differente. Sono tutte frasi parallele e paratattiche che incalzano, come se non volessero finire mai, per rappresentare l’insieme delle esperienze vissute. Si comincia con esprimere il desiderio di rievocare fatti passati e si procede con l’allitterazione di minds, my e madness che mette in stretta relazione le “menti migliori” con la “pazzia” che è vista come prevaricazione totale dell’inconscio sulla coscienza, ma che è anche divenuta necessaria per uscire dall’anonimato, dalla perdita di identità della società di massa. “Affamate nude isteriche”, sintetizza invece le forme di questa pazzia, prodotta dalla droga, dalla fame, dalla povertà. Quindi si passa ad esplorare gli ambienti suburbani delle grandi metropoli, New York, e i loro personaggi più caratteristici per poi allargarsi fino a diventare viaggio in luoghi lontani al di fuori della cultura americana. Come in On the Road, il viaggio coincide con l’ascesi, la conoscenza interiore, secondo le norme del Buddismo Zen. La sessualità, sia etero che omosessuale è presa come simbolo di una espressione fisica libera riconquistata che si manifesta appunto nel rapporto-contatto umano. L’amore quindi è quella umanità che deve essere opposta al freddo razionalismo e materialismo del mondo moderno; Neal Cassady è il simbolo anche per Ginsberg, come per Kerouac, del massimo della potenza sessuale e vitale. La prima parte si conclude con l’affermazione del potere salvifico della poesia e del poeta con la loro forza propulsiva e attiva nella realtà.
Nella parte successiva Moloch, dio del capitalismo, viene evocato ed esorcizzato mentre nell’ultima si afferma la solidarietà tra gli uomini che precede la santificazione dei Beats delle “Note a Howl”. Howl fu sequestrato per oscenità, ma alla fine grazie all’intervento di molti autorevoli letterati si riuscì a far comprendere che l’uso di termini “volgari” non ha nulla a che vedere con la pornografia. “Howl è un’opera importante nella poesia americana, che trae spirito e forma dalle Leaves of Grass di Walt Whitman, dagli scritti religiosi ebraici […] E’ rapsodica, altamente idealistica e ispirata nella motivazione e nei propositi. Come altri poeti ispirati, Ginsberg lotta per includervi tutto della vita, soprattutto gli elementi della sofferenza e dello sgomento dai quali si leva la voce del desiderio. Solo la mancata comprensione di queste tormentate grida di protesta in favore di una comprensione sessuale e spirituale può portarle a considerarle lascive.
Il poeta ci fornisce i dettagli più dolorosi; ci porta a ratificare un’esperienza che è provocatoria e in definitiva nobile”, così scrisse Robert Duncan al giudice Horn quando si trattò di emettere le sentenza e come lui fecero Kenneth Rexroth, Kenneth Patchen e altri ancora. Horn espresse il proprio parere e il proprio consenso dicendo (e diventando famoso): “Non ritengo che Howl non abbia la minima ‘importanza sociale che lo riscatti’. La prima parte di Howl presenta l’immagine di un mondo da incubo; la seconda parte è un atto di accusa nei confronti di quegli elementi della società che distruggono le qualità migliori della natura umana […] La terza parte presenta l’immagine di un individuo che è la tipica rappresentazione di ciò che l’autore vede come una condizione generale […] Le ‘Note a Howl’ sembrano declamare che ogni cosa al mondo è sacra, compresa ogni singola parte del corpo. Si conclude con una supplica per una vita sacra”. Kaddish, l’altra famosa poesia di Ginsberg, fu scritta per la morte della madre, Naomi, ed è un percorso attraverso la vita del poeta segnata profondamente dalla follia materna; è un tentativo di riconciliarsi con le donne e con la morte. E’ costituita da cinque parti e si apre con un lento incedere, misurato e prolungato. Ciò è derivato dalla musica di Ray Charles, ma più direttamente dalla preghiera ebrea funebre, kaddish appunto. Le immagini della vita di Naomi e le reazioni del figlio scorrono come flash-backs e tutto appare come un film. “She wrote – ‘The key is in the window, the key is in the sunlight at the window – I have the key – Get married Allen don’t take drugs – the key is in the bars, in the sunlight in the window’” (=Lei scrisse - La chiave è nella finestra, la chiave è alla luce del sole nella finestra - Ho la chiave - Sposati Allen e non prendere droghe - la chiave è nelle barre, alla luce del sole nella finestra). La chiave, la finestra, il sole che illumina indicano chiaramente la prevista liberazione di lei, la morte, e per lui l’accettazione della morte della madre e il superamento del rifiuto radicato in lui. Di certo l’esperienza religiosa ebrea della famiglia, il misticismo individuale e ancor più il Buddismo Zen di Snyder e Kerouac, hanno influito molto sulla produzione e il pensiero di Ginsberg. Fin dall’inizio egli accolse quasi indifferentemente riti le tecniche di meditazione dell’induismo, del Buddismo Zen e Tibetano, cogliendo evidentemente l’unità concettuale che vi si trova in fondo; infatti il punto cruciale della sua maturazione religiosa sta proprio nel rifiuto del pensiero logico-discorsivo occidentale in favore della rinascita dell’uomo professata dalla cultura orientale. Dallo Zen Ginsberg deriva in primo luogo la rivalutazione della completezza dell’uomo e il rifiuto della razionalità come elemento distruttore del rapporto individuo-natura, comportando la conseguente svalutazione del linguaggio in favore dell’istintività. Dal tantrismo invece, in cui l’unione sessuale è il simbolo dell’atto creativo e dell’unità di fondo tra cosmo e uomo, riprende il concetto di identificazione del sesso con la creatività del poeta e della poesia. Infine l’induismo lo conduce a rivalutare l’importanza del suono e del ritmo nella creazione poetica e non. La prima accusa che egli rivolgerà all’America e all’Occidente sarà di aver svuotato il linguaggio di senso nel suo rapporto con la realtà, trasformandosi in un mezzo a servizio di chi gestisce il potere e non più di tutti gli uomini. Quindi passa ad attaccare i principi che lo costituiscono; cerca di riunificare la parola con la realtà e distrugge la logicità in favore di frasi nominali in cui la molteplicità si trasporta nella contemporaneità. “La poesia è ‘language as pure prayer-meditation’” (=linguaggio come pura preghiera-meditazione), cioè uno strumento di meditazione e di conoscenza. Influenzato dai mantra, suoni mistici e formule rituali, conferisce al suono una potenza ancor superiore a quella delle immagini. L’immagine dell’oggetto acquista una posizione secondaria e, entrata in crisi la riproducibilità dell’oggetto, l’immagine non sarà più descrizione ma creazione vera e propria; non più riproduzione fotografica ma proiezione della parola e il poeta creando la parola creerà questo mondo. La poesia per Ginsberg è quindi ritmo ammaliante e combinazione armoniosa di vocali e consonanti, che rivelano l’emozione del poeta di fronte al mondo. Questa valutazione del potere della poesia lo porterà a orientare la propria produzione verso la musica e a comprendere meglio la tradizione di Whitman, Pound e Williams, adottando come ritmo quello del parlato, del corpo, la sua stessa voce. Così, data l’irripetibilità delle sensazioni e delle associazioni, la poesia deve essere “registrata” nell’istante in cui viene creata e difatti ben presto sostituirà alla macchina da scrivere un registratore audio. Il nuovo poeta allora è colui che, una volta constato il divario tra rappresentazione e realtà nel mondo occidentale, assume il compito di ricostituire tale unità configurandosi come un mago: “L’artista è colui che partecipa dell’inconscio e che quindi coglie la totalità dell’essere e del mondo manifestandoli attraverso parole e ritmi magici”. Come per Whitman, il poeta diventa salvatore, l’illuminato, e la sua poesia diventa rito e preghiera.

Neal Cassady, messaggero dell’amore
e della schiettezza.

Neal Cassady è il driver, la guida, della Beat Generation. Nasce a Salt Lake City, l’8 febbraio del 1926, e passa l’infanzia e l’adolescenza a Denver dopo aver visto morire la madre quando aveva ancora dieci anni. Fa un gran numero di mestieri - dal parcheggiatore al frenatore di treni - fino allo scoppio della guerra, che in seguito riuscì ad evitare con un certificato falso di licenza liceale. Rubò circa 500 macchine solo per il gusto di farci un giro e mai ne rivendette una; tuttavia, fu evidentemente ricercato, arrestato e mandato in riformatorio fino a diciassette anni. Quindi frequentò per un po’ la Columbia University dove conobbe Kerouac, Ginsberg e Burroughs. La sua vita è praticamente narrata interamente in On the Road, anche se il suo nome è mutato in Dean Moriarty, ed è fatta di interminabili viaggi coast-to-coast, di mogli, avventure e figli. E’ una specie di messaggero dell’amore e della schiettezza, un “campione di vitalità”; parla ansiosamente con ardenti immagini ed è quasi sempre a corto di respiro. Così facendo si crea un’atmosfera di fascino che lo circonda e lo rende inneggiato simbolo di libertà, spontaneità e felicità. Comincia a scrivere numerose lettere appena lasciata New York per la prima volta e si tiene così in contatto con gli altri Beats, in particolar modo con Kerouac e vede proprio nel suo modo di esprimersi la nuova prosa libera d’America. Infatti On the Road verrà proprio risistemato dall’autore dopo una prima stesura piuttosto convenzionale.
Il suo unico romanzo è autobiografico, The First Third (I vagabondi, 1971), della vita naturalmente; in esso sono raccolte esperienze di un Cassady trentenne che di fatto non riuscirà ad andare molto oltre questa prima tappa. Nell’estate del ’67 si reca solo e senza soldi in Messico; una sera prende troppi sonniferi e comincia a camminare nel deserto dove lo trovano il mattino seguente: “Nella mattina di domenica 4 febbraio 1968 è morto Neal Cassady, a 36 anni, solo sotto la pioggia nel deserto messicano”.

settembre 2005