Il cielo della notte è una losanga blu cobalto lunga e sottile che si arrampica ad una falce di luna dorata e ad una stella appuntita coi suoi raggi acuminati che squarciano le tenebre. Il cielo della notte è un’elegante forma allungata, una visione onirica e un po’ allucinata che ci incanta e ci ipnotizza in una grotta. È una linea sottile ed essenziale nella sua purezza, un’icona potente ed evocativa, carica di suggestioni, una figura elementare, quasi un disegno infantile che ci fa sognare. E può trasformarsi nella casa della luna dove tante finestre sovrapposte ed intrecciate con un effetto quasi caleidoscopico ci fanno intravedere tanti spicchi di luna in una visione notturna, fantastica e surreale. E può diventare una stella, nuvola e pioggia dove da una nuvola di latta accartocciata piovono sottili fili d’acciaio dai riflessi ramati, oppure una linea d’orizzonte in una spelonca scarsamente illuminata alla fine di un angusto e buio corridoio scavato nel tufo, che ci colpisce e ci sorprende col suo improvviso apparire. È il mondo magico e surreale di David Hare, la cui opera è in mostra ancora per un mese nelle suggestive grotte delle chiese rupestri della Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci e nelle belle sale della sede del circolo la Scaletta, nella splendida cornice dei Sassi di Matera. La mostra segue l’intero percorso artistico di Hare dal momento della ricerca sugli Indiani d’America del 1940 alle ultime fusioni in bronzo degli anni Novanta e rappresenta il primo documento a livello internazionale, dell’importante presenza dello scultore nell’ambito del surrealismo, utile per chiarire i rapporti intercorsi tra gli USA e l’Europa nel corso del XX secolo. Si tratta di 80 sculture realizzate in bronzo, acciaio, ottone, alabastro, pietra, legno, plexiglas e colore variamente assemblati, 55 opere su carta, acrilici, acquerelli, collage, inchiostri, e 24 fotografie tra cui le famose foto dei Pueblo scattate per conto dell’American Museum of Natural History di New York.
Non è la prima volta che le opere di Hare sono esposte nei Sassi di Matera. L’artista partecipò nell’estate del 1990 alla II Biennale internazionale di scultura contemporanea dedicata alla scultura in America, insieme a Louise Bourgeois, Joseph Cornell, Joel Fisher, Michael Gitlin, Ibram Lassaw, Reube Nakian e Philip Pavia. In quella circostanza l’artista, affascinato dalla struttura delle chiese rupestri, donò alla città una scultura in acciaio Mountaine Moonrise del 1986.
David Hare è una figura molto interessante nel panorama dell’arte statunitense del XX secolo. L’artista, nato a New York nel 1917, apparteneva ad una famiglia benestante dell’alta borghesia newyorchese di cultura europea. Suo padre era sostituto procuratore e sua madre, che incoraggiò e agevolò i suoi esordi in campo artistico aprendogli uno studio fotografico a Manhattan nel 1936, aveva studiato a Parigi con Brancusi, era appassionata d’arte, attiva nei circoli d’avanguardia e interessata alle questioni sociali. Sua cugina Kay Sage si impegnò nella raccolta di fondi a sostegno degli intellettuali ed artisti surrealisti parigini che lasciarono Parigi occupata dai nazisti, molti dei quali lei stessa ospitò, tra cui Yves Tanguy che sposò. Fu così che Hare conobbe e frequentò André Breton, Marcel Duchamp, Max Ernst, Sebastian Matta, André Masson, Jean Paul Sartre. Con Duchamp, Breton ed Ernst fondò e diresse per due anni la rivista surrealista VVV. Conobbe la leggendaria Peggy Guggenheim che lo impose all’attenzione della critica con diverse mostre personali nella sua celebre galleria newyorchese “Art of this Century”. Dopo la fine della guerra fu più volte a Parigi dove conobbe e frequentò Balthus, Victor Brauner, Alberto Giacometti e Pablo Picasso. In seguito a New York con William Baziotes, Robert Motherwell e Mark Rotko fondò la scuola The Subjects of the Artists. Tutti questi contatti non furono privi di conseguenze per la sua arte, che risulta essere essenzialmente la fusione di due componenti fondamentali, i miti e la tradizione degli Indiani d’America e le tendenze surreali ed anche espressioniste dell’avanguardia europea. Tuttavia egli non fu mai un succube seguace, ma un libero interprete delle più avanzate ricerche artistiche di quegli anni, testimone di una civiltà diversa da quella europea che si esprime in modo diverso pur partendo dalle stesse radici. Che si trattasse di un artista non secondario sulla scena internazionale è testimoniato dalle sue numerose partecipazioni alle più importanti rassegne d’arte contemporanea organizzate dopo la seconda guerra mondiale dal MOMA e dalla sua presenza alla mostra “Paris - New York” tenutasi al Centre Pompidou nel 1976.
I suoi esordi artistici sono in ambito fotografico. Le sue prime foto furono per una agenzia di pubblicità, in seguito sua madre lo aiutò nella sua crescita professionale e avvalendosi delle sue numerose e prestigiose conoscenze riuscì a fargli ritrarre politici ed artisti suoi amici tra cui il Presidente Franklin Roosevelt. Molte sue foto degli esordi sono vagamente ispirate a quelle di Man Ray e Roul Ubac. In seguito sperimentò la riproduzione fotomeccanica, il colore e diversi processi chimici, il fuoco sulla pellicola, ottenendo come risultato immagini visionarie e surreali. Ma le foto più famose e significative sono quelle che Hare scattò per incarico dell’American Museum of Natural History di New York. Ritratti degli Indiani d’America Pueblo dalle espressioni malinconiche, volti e corpi di antichi guerrieri mortificati.
Dopo questa esperienza, sotto la suggestione delle opere degli artisti europei appena conosciuti, ma soprattutto dietro suggerimento della sua seconda moglie, Jacqueline Lamba, già moglie del suo amico André Breton, Hare si accostò alla scultura che divenne la tecnica artistica da lui preferita e in cui riconobbe la sua vera vocazione. In più occasioni egli definì la scultura l’arte più primitiva, più complessa, più irruente. Prima sperimentò il gesso, la cera, il cemento, la terracotta, e poi via via il bronzo, l’acciaio, la pietra, il legno, il plexiglas, usati da soli, ma più spesso assemblati tra loro, nella ricerca spasmodica della forza primitiva della materia, per estrarne l’idea archetipica delle forme. Assimilata la lezione surrealista dell’automatismo, Hare con un segno nervoso e guizzante creò un mondo di immagini, di figure immaginarie che non sono propriamente astratte, e neanche rappresentative, un groviglio di linee complesse ed elaborate, pressate dall’emozione. Elementi fantastici accostati ad elementi strutturali ed organici. Il suo mondo fantastico ed immaginario, popolato da animali, figure, paesaggi, oggetti sognati, figure in movimento, corpi celesti, Leda e il cigno, antichi carri, la Sfinge, l’elefante, galleggianti in uno spazio permeabile e trasparente, spesso accostati in modo apparentemente casuale, pescano nella realtà e nella narrazione mitologica, ma la trascendono e la trasfigurano. Tutto è sottoposto ad un continuo processo di metamorfosi, che sconfina nel terreno del sogno, della fantasia e dell’inconscio. Le opere migliori sono quelle realizzate a partire dagli anni Cinquanta, quando cominciò ad abbandonare l’uso del solo bronzo a favore degli assemblaggi di materiali diversi in cui Hare cercò forme nascoste nella loro stessa natura, nella loro consistenza originaria. Dall’aggregarsi quasi casuale del filo di ferro o dell’acciaio con la pietra e il legno nascono forme che sembrano evocare l’idea di figura, secondo Gabriella Drudi, al fondo della ricerca di Hare annidata dentro la grammatica astratta del fare tipica dell’arte americana di quegli anni.
Ripercorro a ritroso le grotte per avviarmi all’uscita, avvolta dal buio e dalla fredda umidità, in un’atmosfera irreale e senza tempo. Gli occhi vagano da una larva d’icona affrescata ad una figura accartocciata, da una Madonna ad una luna d’acciaio, senza un nesso, senza un legame logico. Un ultimo sguardo alle opere di fronte alla biglietteria. Fuori c’è sole, l’aria è limpida e tersa, ieri ha grandinato, davanti ai miei occhi si staglia nitido il paesaggio aspro della gravina, e la magia continua….