Appunti per un’idea di città

Globalizzazione e macerie
di Rossana De Gennaro

Macerie della modernità

Il protagonista di Saimir, il film dell’esordiente Francesco Munzi, che ha ricevuto una menzione speciale al festival di Venezia 2004, è un ragazzo albanese di diciassette anni che vive un’adolescenza difficile; il rapporto col padre e la sua difficoltà di identificazione e di integrazione si intrecciano ad un’esistenza vissuta nella marginalità economica, sociale e morale di una delle tante periferie degradate di Roma.
La vicenda della sua drammatica ricerca di accoglienza e di identità si svolge tra le macerie; il suo lavoro è trasportare rottami e materiali di risulta fuori dai cantieri, assieme al padre-padrone.
Nella storia però si affacciano altre “rovine”: il degrado edilizio dei suburbi della capitale, la landa desolata in cui abitano gli zingari Rom, i soli amici di Saimir, la sopravvivenza ai margini della legalità, lo squallore delle abitazioni, insomma il Brutto, materiale, morale e sociale che si presenta con impudica evidenza e che prolifera ai margini della metropoli. I rottami, gli “scarti”, la bruttezza dei luoghi come cifra simbolica dell’esclusione sociale potrebbero costituire una chiave di lettura interessante per decifrare il paesaggio urbano non solo nelle metropoli, ma anche in città più piccole, dove i meccanismi della globalizzazione si presentano omologhi e producono il medesimo impatto sui processi ambientali, sociali e culturali.
Zygmunt Bauman, nel suo ultimo lavoro, Vite di scarto (1), interrogandosi sulla genealogia dell’esclusione sociale ed economica nell’era della globalizzazione, sostiene che è la stessa mentalità progettuale - asse paradigmatico della modernità – a comportare la selezione e l’esclusione degli aspetti non conformi alla razionalità del progetto, quando sono inutili secondo il criterio dell’efficacia degli strumenti e della accelerazione del tempo. L’esubero - di prodotti, di popolazione, di forza lavoro nelle aziende - è un concetto che assume un significato solo in relazione ad un piano di razionalità in cui vige il primato del criterio economico. La progettualità moderna intesa come proiezione verso il futuro che azzera in misura progressiva la percezione del passato, bruciato rapidamente dalla velocità dei cambiamenti, sottintende un’idea di progresso e un modello di sviluppo economico: più produzione, più occupazione, più felicità. Il progresso, misurato, nell’economia capitalistica, in termini di aumento del PIL ed espansione del benessere, calcolato con le medie statistiche, suppone però, fatalmente, un prezzo: la produzione di scarti e di rifiuti e, soprattutto, la loro rimozione. Primato della produzione, impero del mercato dove tutto tende a diventare fungibile e scambiabile, considerazione dei soggetti come consumatori di prodotti sempre nuovi e allettanti, bisogni indotti da sistemi sempre più sofisticati di gestione dell’immaginario, oggetti sempre sostituibili da nuovi simulacri del desiderio, costituiscono aspetti implicati dalla nostra idea di sviluppo. Per poter notare “i danni collaterali” di questo modello di progresso bisognerebbe usare lo “sguardo straniante” del viaggiatore, come il Marco Polo delle Città Invisibili di Italo Calvino, il quale, giunto a Leonia, la città dove tutto appare lindo e nuovo agli abitanti, la cui passione “è il godere di cose sempre nuove e diverse”, si accorge che questi ultimi non riescono a vedere le rovine e i rifiuti che si accumulano, come montagne, attorno alla città.

Globale e locale

Qualunque analisi, per quanto suggestiva, resta vuota se non si cala nella realtà delle cose del quotidiano. Ragioniamo delle nostre cose, della nostra città. Deve essere possibile trasporre un’ottica globale al piano locale come chiave di lettura delle dinamiche di sviluppo che attraversano la nostra città, il nostro territorio.
Se si legge l’assetto urbano in relazione con l’idea della città implicita nel modello di sviluppo imperante, si individuano delle problematiche forti che possono essere percepite come avvisaglie temibili, nella loro evoluzione, di processi già conosciuti altrove o del tutto nuovi.
Individuare i problemi di oggi significa interrogarsi sui rimedi possibili, magari usando l’immaginazione del bricoleur, (immagine che Levi Strass usava per differenziare l’approccio pratico ed induttivo dell’antropologo da quello razionale- formale-deduttivo).
Naturalmente le scelte politico istituzionali e il modo stesso di intendere la politica costituiscono una variabile importantissima su cui agire per modificare alcune situazioni. Ad esempio il fenomeno della crescita in estensione della nostra città; nuovi edifici occupano i suoli liberi ai margini o all’interno di essa; aumenta la presenza dell’edificato ma la crescita nella dimensione sembra accompagnarsi ad una intensificazione dell’effetto di degrado di alcune sue parti. Come nelle periferie, espressione di marginalità economica e sociale (quartiere Madonna dei Martiri, Palazzine di via Fontana), o nelle ‘isolÈ che costituiscono quasi dei ghetti dove vivono immigrati albanesi (quartieri Catecombe e Annunziata) o nel centro antico, dove si manifesta la difficoltà di convivere e di integrarsi socialmente di diversi strati sociali, o nel quartiere Madonna degli Angeli, recinto di chi vive ai margini della legalità, o, ancora, nell’assenza di spazi di socializzazione e di incontro, nel degrado dello spazio e delle cose pubbliche, svuotate del loro significato.
La dilatazione dello spazio edificato destinato alle abitazioni, anche in presenza della stasi o addirittura del regresso numerico della popolazione, assume l’aspetto che potremmo definire, con Colarossi e Fratini (2), una “costante morfologica” dello sviluppo della città odierna: determina i caratteri di città frammentata o sgranata, dove la dispersione, la segmentazione, la frammentazione (leggibili nella comparsa di “quartieri” senza infrastrutture, senza verde pubblico, senza aree di socializzazione, senza segni identitari riconoscibili, nell’immaginario collettivo, come elementi di coesione e di appartenenza) sono il risultato di un’assenza di vere e proprie regole insediative. È l’emergere della “città degli individui”, dove “l’individualismo, la voglia di rappresentarsi attraverso segni di agio e di ricchezza, ma anche egoismo economico e liberismo eccessivo, tendono a diffondere e a fare diventare pervasiva la città privata (…) Il godimento, e la difesa, della proprietà privata richiedono recinzioni e barriere. La città privata è una città recintata, che può fare a meno degli spazi pubblici”(3)
Certi aspetti, comuni a Molfetta come ad altre città del Sud, la grande dimensione in estensione, la monotonia, la ripetizione, l’omologazione, producono un paesaggio urbano indifferenziato, una immagine della città ridotta, povera, confusa, difficile da articolare nella percezione, dove è difficile orientarsi. Dove ogni luogo tende ad assomigliare ad un altro e tende a scomparire il concetto stesso di “luogo”.
Uno dei sintomi più allarmanti della possibile morte della città è la proliferazione di quelli che Marc Augé chiama i nonluoghi (4), spazi architettonici dello standard dove nulla è lasciato al caso, dove si è concretizzato il sogno della macchina per abitare, cioè della ergonomia, della efficienza e del comfort; posti anonimi come gli ipermercati, o vere e proprie città-mercato come la Città della moda, di prossima apertura, dove l’unico ruolo sociale possibile è quello del consumatore, dove anche il tempo libero è assoggettato ad una previdente e capillare organizzazione che lo restituisce in pacchetti preconfezionati di svago e divertimento da consumare. Rimandiamo al futuro la possibilità di verificare se questo nuovo tempio del consumo produrrà indotto ed occupazione. Per ora mi fa venire in mente la città delle regole speciali in cui “i crateri del consumo, forse a causa della loro alta frequentazione, attraggono nei loro recinti anche i luoghi di socializzazione. Le pratiche, o comunque le più numerose occasioni di incontro e di socializzazione si stanno trasferendo in modo rilevante nei luoghi del consumo (…) nei quali vengono costruite vere e proprie piazze e strade coperte, e dove si assiste all’equazione riduttiva socializzazione uguale acquisti di merci, di cultura e di divertimento”(5)
Sono strutture speciali, pensate non per l’uomo specifico ma per l’individuo generico, identificato attraverso il numero di un documento di credito. Luoghi soggetti a regole di accesso precise, recinti funzionali, che rafforzano l’esclusione, selezionano coloro che vi hanno accesso in base alla loro capacità di acquisto. All’interno di un modello di società in cui la propensione al consumo si esprime con la produzione di una quantità enorme di rifiuti sempre più difficili da riciclare, anche la marginalità sociale cresce in funzione della esclusione dalla possibilità di accedere al mercato.
Interrogarsi sul modello di sviluppo (non solo economico, ma anche sociale e culturale) che orienta le scelte economiche e politiche anche a livello di amministrazione locale significa analizzare le scelte di investimento che privilegiano la creazione di grandi aree di insediamento industriale (zona ASI e zona PIP) - senza creare, d’altra parte, le condizioni per la formazione di un’autoimprenditorialità locale - piuttosto che valorizzare il patrimonio ambientale e le risorse naturali che potrebbero fare del territorio un polo di attrazione turistica, ad esempio risanando e rendendo fruibile la costa. Verificare attentamente le possibilità di una strategia di sviluppo che si concentra sull’obiettivo di fare di Molfetta un grande polo commerciale, accettando gli imponenti lavori di ampliamento del porto, solo se è rispettata la valutazione dell’impatto ambientale di queste opere. Demistificare l’immagine della “città in crescita” dove la richiesta di alloggi è perennemente inevasa per chi ne ha davvero bisogno a causa della vertiginosa crescita dei prezzi determinata dalla speculazione edilizia e da una politica che asseconda i privilegi.

La città della socializzazione

Proviamo ad intendere la città non più come città degli individui ma come città della socializzazione che possa permettere a tutti l’espressione dei bisogni, dei desideri, dell’immaginario, e la libertà di poterli realizzare e soddisfare piuttosto che rafforzare la solitudine, l’insicurezza e la esclusione. Ciò suppone prestare qualche attenzione ad esperienze già in via di elaborazione e sperimentazione nella amministrazione di alcune piccole città del centro Italia che costituiscono dei veri e propri laboratori di democrazia partecipativa, dove si sperimentano nuovi strumenti e forme di autogoverno locale che consentono di attuare il bilancio partecipativo (6).
Si tratta, come suggerisce la Carta d’intenti della Rete del Nuovo Municipio, elaborata da alcuni laboratori universitari italiani nel solco di uno dei workshops del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre svoltosi nel Gennaio 2002 (7), di pensare e praticare un nuovo ruolo degli enti locali nella lotta al liberismo come pensiero unico, grazie ad un processo di riappropriazione dal basso nelle dinamiche di produzione delle decisioni, tramite nuove forme di autogoverno locale e nuovi istituti di decisione che affiancano gli istituti di democrazia delegata, allargati al maggior numero di attori rappresentativi di un contesto sociale ed economico per la promozione di disegni di futuro localmente condivisi (rappresentanze delle circoscrizioni o assemblee di quartiere, delle associazioni di categoria, dei movimenti, delle associazioni con finalità culturali, sociali, di difesa dell’ambiente). Al dominio del mercato globale in cui il territorio e le sue qualità specifiche (le diversità ambientali, di cultura, di capitale sociale) sono messi al lavoro in un processo globale che spesso li consuma senza riprodurli, toglie loro valore innescando processi di distruzione delle risorse e delle differenze locali, si può opporre un progetto politico che valorizzi le risorse e le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto della eterodirezione del mercato unico. Sarebbe possibile proporre criteri di valutazione delle politiche e dei progetti che, semplificando e innovando i meccanismi tradizionali, tecnocratico-tecnicistici, introducano nuovi indicatori di benessere che sono quelli relativi “..al grado e alla forma, assunta, nei processi decisionali, dalla partecipazione dei cittadini, (…) alla qualità ambientale, territoriale, sociale - che ridimensionino drasticamente il Pil come unico criterio - (…) al riconoscimento delle diversità e delle culture, (…) al livello e alle modalità di riconoscimento del patrimonio di base per la produzione di ricchezza durevole”.
Se la crescita della città non interessa alle forze politiche solo nella prospettiva dell’aumento di consenso elettorale occorre riferirsi ad un’idea diversa di “sviluppo” che, come dice Francesco Gesualdi (8), non equivale alla moltiplicazione delle imprese pronte a soddisfare, con i loro prodotti e servizi, la pluralità dei bisogni del consumatore, ma a favorire le condizioni, anche sul piano locale, per costruire un’economia che garantisca a tutti una vita dignitosa, ridimensionando il ruolo del mercato e sottraendo alla privatizzazione quei beni l’accesso ai quali è garanzia di dignità e qualità minima della vita: la sanità, l’istruzione, l’assistenza, l’alloggio.
In questo scenario crescita significa anzitutto destinare una parte della ricchezza ai bisogni sociali, e rafforzare i legami di solidarietà all’interno di una società che attizza l’individualismo e lascia completamente soli di fronte alla malattia, alla vecchiaia, all’invalidità, alla fame, al freddo, alla disperazione. Integrare i punti di vista diversi e solitamente esclusi nei processi progettuali e decisionali che riguardano il territorio, operando una trasformazione dell’ente locale da luogo di amministrazione burocratica a laboratorio di autogoverno.
La città dove si esprime la partecipazione potrebbe essere anche una città della socializzazione, senza recinti, il luogo dove si esprimono, anche nelle forme fisiche e nell’assetto urbano, i valori che sono apprezzati e riconosciuti dalla comunità, dove il valore che la comunità attribuisce alla città si esprime anche attraverso la costruzione di luoghi collettivi e tramite la loro cura e manutenzione; parchi e giardini, luoghi attrezzati per lo sport, supporti fisici della socializzazione.
Una città in prevalenza di uso pedonale; fatta di luoghi agevoli, sicuri e belli, perché la bellezza di una città, se è una ricchezza materiale e spirituale per i cittadini, è un diritto per tutti. Una città dove siano curate la qualità dell’acqua e dell’aria, dove sia sotto controllo l’inquinamento acustico. Sostenibilità dell’ambiente urbano e bellezza non sono valori diversi. La democrazia partecipativa, il lavoro, i trasporti, i servizi, la casa, i luoghi di socializzazione, il verde pubblico; nodi attraverso cui ripensare la città guardando ad un altro modello di sviluppo dove il massimo della libertà non è la competizione per l’arricchimento e l’esibizione sfacciata dei segni della ricchezza ma significa disponibilità e accessibilità di tutto per tutti.


1. Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Laterza, Bari 2005
2. Paolo Colarossi e Fabiola Fratini, Sette idee di città: prospettive per un assetto urbano, in AAVV, Il futuro della città: idee a confronto, ed. CUEN, Napoli1997
3. Ivi, p.122
4. Marc Augè, Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano1993
5. Paolo Colarossi e Fabiola Fratini, op. cit., p.134
6.Raul Pont, La democrazia partecipativa , Ed. Alegre , Roma 2005
7.Carta del nuovo municipio, in WWW.Nuovo municipio.org/documenti/Carta
La Carta d’intenti è nata all’interno del workshop promosso dal LaPEI: Sviluppo locale autosostenibile: ruolo e compiti dei nuovi municipi e valorizzazione delle reti sociali di attori locali per una globalizzazione dal basso. All’interno di esso, poi fusosi con quello dell’associazione Démocratiser Radicalement la Démocratie è stata proposta l’idea di una “Carta del nuovo municipio”, successivamente sottoposta alla discussione e approvazione del Forum e approvata nell’incontro costituente di Empoli nel 2003.
8. Francesco Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, Milano 2005.

settembre 2005