Toyotismo e fabbrica integrata
(Stralci della relazione svolta al seminario della sezione Alfa Romeo del Prc, luglio 1994)
di Gigi Malabarba

Sono passati ormai dieci anni da quando ho scritto queste note sul cosiddetto postfordismo per un seminario dell'allora sezione del Prc dell'Alfa di Arese. Eravamo di fronte alle primissime applicazioni concrete del modello 'rivoluzionario' della qualità totale, importato in Fiat dal Sol levante con il celeberrimo seminario di Marentino del 1989, che avrà la sua massima realizzazione nello stabilimento Fiat-Sata di Melfi.
Molto di quanto è diventato addirittura scontato negli anni successivi nella sinistra antiliberista e in settori dello stesso sindacalismo concertativo (l'evoluzione della Fiom è degli ultimi anni, mentre in quei mesi eravamo all'apice della collaborazione di classe più sfacciata con i doppi accordi di luglio del '92 e del '93)), a quel tempo costituiva una posizione nettamente controcorrente. Rileggendolo dopo tanto tempo devo dire che i tratti fondamentali dell'analisi di allora risultano ampiamente confermati: dalla controriforma Dini sulla previdenza del '95 alla legislazione antisciopero, dal pacchetto Treu del '97 alla legge 30 in vigore oggi, per limitarsi alla politica italiana. Oppure la facile 'profezia' sulla crisi delle politiche liberiste e della globalizzazione capitalistica che oggi è per tutti una banale constatazione. Proprio del Giappone nessuno parla neppure più, dopo dieci anni di crisi ininterrotta di sovrapproduzione e palla al piede dei paesi industrializzati, e la parola Toyotismo (sinonimo di postfordismo soprattutto per la produzione industriale, ma in realtà esteso ideologicamente a tutto il mondo del lavoro e inteso financo come 'idea di società') è perfino sparita dal vocabolario politico-sociale, ancor più delle magnifiche sorti e progressive della New Economy, della cui capacità miracolistica giustamente più d'uno dubita oggi nel mondo...
Anche se prodotto con definizioni più divulgative che non rigorosamente scientifiche, di cui peraltro non sarei capace, credo che possa contribuire alla riflessione delle compagne e dei compagni, proprio perché parte dall'analisi del modello produttivo oggi dominante, con qualche idea magari anche per come contrastarlo.

Il modo di produzione capitalistico si fonda sulla produzione di merci, sulla “quantità”. In questo secolo la produzione di serie della II Rivoluzione industriale ha avuto il suo perno nel sistema taylorista-fordista: milioni di uomini e di donne sono stati strappati alle campagne e alle piccole attività artigiane per essere portati nelle fabbriche. Ford fece subire ai lavoratori la violenza della catena di montaggio raddoppiando i salari. (La Fiat, sia detto di passata, importò il fordismo negli anni ‘20 sul piano tecnico, ma senza gli alti salari, favorita dalla sconfitta operaia del biennio rosso e dall’avvento del fascismo. La sintesi avvenne con il sistema Bedaux).
Il grande salto di qualità del capitalismo nella grande produzione di massa non ridusse affatto le contraddizioni del sistema, anzi accentuò le crisi e ne accorciò i tempi tra un ciclo e l’altro.
La grande crisi storica del 1929-33 trovò anzi le borghesie totalmente impreparate e si dovette ricorrere al ruolo dello Stato come regolatore dell’economia, secondo le proposte del signor Keynes.
Anche la grande illusione di aver trovato la magica soluzione alle crisi, derivata dall’inimmaginabile boom prolungato successivo alla II guerra mondiale (della durata di un quarto di secolo), è rapidamente svanita con l’esplodere della classica crisi strutturale di sovrapproduzione nel 1973-74, mascherata dall’imbroglio - a destra come a sinistra - sulla penuria di petrolio e sull’ingordigia degli sceicchi …

Non basta produrre merci, infatti, occorre venderle. I capitali rispondono con la ricerca di nuovi mercati (e allora la concorrenza, le guerre, …) e quindi con le innovazioni (le ristrutturazioni) per abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività.
La forte crescita economica degli anni precedenti aveva prodotto un grande rafforzamento della classe operaia (che ha comportato riduzioni d’orario e abolizione del sabato lavorativo, sistema previdenziale pubblico e scala mobile trimestrale, tra l’altro).
Il capitale è cioè costretto a “trattare”, cercando di dare una risposta tecnologica alla rigidità operaia. Alla Fiat (1975-80) è il periodo del Digitron, del Robogate, del Lam. A cui seguirà, con la sconfitta dell’80, il tentativo di dare una botta alla classe operaia con l’accelerazione dei processi di automazione, che risultano però fallimentari. Si vuole sostituire il massimo di lavoro vivo con lavoro morto, superando la rigidità del fattore umano.
C’è un consistente aumento di produttività; per meglio dire, c’è una enorme intensificazione del lavoro, che riduce del 40 per cento i lavoratori. In dieci anni si passa da 19 auto per addetto nel 1979 a 31,2 nell’89. Cinque anni più tardi, a Melfi, si è giunti al rapporto 1:79! Mentre le qualifiche operaie sono in caduta verticale. (…)

Il “sistema giapponese”
Nel mondo il sistema taylorista-fordista non è certo di colpo scomparso e, tra l’altro, bisogna evitare precipitose fughe sull’avvento della società post-industriale. di cui si è parlato a sproposito da almeno 15-20 anni. Certo è che se Marx ed Engels sviluppavano le loro analisi sul capitalismo in Inghilterra nell’800 e Lenin e Gramsci facevano altrettanto sull’ “americanismo” di inizio secolo, non v’è dubbio che il nostro riferimento per l’indagine debba essere oggi il sistema “giapponese”, ossia il toyotismo, che tende ad affermarsi come vero e proprio modello per il capitale. Si tratta di un nuovo salto in avanti nel sistema di produzione capitalistico, il signor Tahichi Ohno ha messo a punto una nuova organizzazione scientifica del lavoro, non inventandosela ovviamente di sana pianta, ma innestandola e sviluppandola dal taylorismo. Si passa dalla tecnologia meccanica, rigida, alla tecnologia elettronica. flessibile. Pala sintetizza bene parlando di “elevazione flessibile del taylorismo”: una doppia flessibilità delle macchine e del lavoro, a cui va aggiunta la flessibilità del salario. Sul toyotismo si è scritto moltissimo e a chi dubitava delle possibilità di trasferire fuori dal Giappone tale sistema, la realtà si è incaricata di dimostrare che non occorreva necessariamente una società da “terzo impero del sole” per imporlo ai lavoratori. Proprio Ford ha realizzato un’efficiente fabbrica toyotista in Messico, per fare un esempio assai significativo. Alcune caratteristiche di questo modello.

1. Si eliminano gli sprechi: gli scarti, le scorte di magazzino eccetera; deve arrivare tutto e solo ciò che serve al momento del suo utilizzo (just in time). È per questa ragione che si programma la produzione a ritroso, richiedendo man mano i pezzi che servono risalendo - potremmo dire - fino alla progettazione (attraverso il famoso cartellino, il Kamban, su cui c’è scritto l’esatto fabbisogno dei pezzi da lavorare).

2. Attraverso un sistema di cerchi concentrici che si irradia dall’impresa-madre, la parte a monte e a valle della produzione centrale è fortemente subordinata al nucleo principale: i fornitori subiscono veri e propri ricatti e - in alcuni casi - vengono integrati nell’area stessa dell’impresa, contribuendo a mantenere una consistente aggregazione dei lavoratori. Contemporaneamente si decentrano e si miniaturizzano una serie di attività, spesso di lavoro formalmente autonomo, di tipo nuovo: tutto è soggetto a fatturazione, e quindi è scarsa l’evasione fiscale tradizionale di questo settore, e il livello di “dipendenza” è del tutto analogo a quello esistente nei reparti dell’azienda (e con orari di lavoro e tassi di sfruttamento superiori).

3. La qualità del prodotto, che in realtà è utilizzare la sola quantità dei pezzi e delle risorse necessarie, è lo strumento di coinvolgimento dei lavoratori, che devono fornire collaborazione e suggerimenti (premiati) dentro la “comunità di interessi” rappresentata dall’impresa. Si cancella l’antagonismo di classe e il conflitto per lanciare la squadra all’assalto della competitività totale, raccogliendo insieme la sfida del mercato da cui tutto dipende.

4. La fabbrica integrata è spezzettata in tante unità produttive (in Fiat, le Ute, unità tecnologiche elementari), ognuna delle quali deve rendere al massimo in base a obiettivi, riducendo i costi. Per garantire questa funzione “di squadra” la Fiat si è dotata di una nuova figura di operaio modello, ricompensato economicamente e dotato di parziali poteri (l’operatore), circondato da omologhi fedelissimi (cui hanno dato una tuta rossa), che costituiscono la punta di diamante dell’azienda: una vera cellula padronale dentro i lavoratori, con il compito di ottenere il consenso della maggioranza alla massima collaborazione. Anche la funzione del capo passa da quella di controllo e comando a quella più “politica” di conquistare il consenso dei lavoratori con bastone e carota. Per questo la Fiat ha bisogno del prato verde, di operai e capi completamente nuovi.

5. L’uso dei sistemi informatici su scala planetaria consente al capitale multinazionale di superare i vincoli di “territorialità” della fabbrica e anche quelli di “tempo”, puntando al ciclo continuo ventiquattr’ore su ventiquattro nella ricerca, produzione, amministrazione, distribuzione: questi sono i confini della nuova competitività. (…)

Le conseguenze della “qualità totale”
Se questi sono i principi della cosiddetta fabbrica integrata, snella, bisogna evitare di assolutizzare alcuni aspetti, quali quello che la produzione sarebbe effettuata su ordinazione del consumatore, che sceglie e personalizza il prodotto. L’indubbia maggior flessibilità non supera affatto l’esigenza tradizionale di effettuare produzioni con economie di scala “quantitative”.
Non c’è una consapevolezza da parte della borghesia del limite di crescita, indipendentemente dalle affermazioni di singoli suoi esponenti. Il toyotismo non è la risposta alle crisi strutturali di sovrapproduzione, ma rappresenta la necessità di dover fare i conti con un mercato poco più che stagnante. La “qualità totale” è tutta proiettata ad aumentare l’intensità e la durata del lavoro, attraverso straordinari, turni, week end lavorativi e innalzamento dell’età pensionabile. La grande forza del Giappone è che lì si lavora il 25-30 per cento di ore in più che in Europa, e questa è competitività fondata sulla classica estorsione di plusvalore assoluto. E la crisi che oggi ha cominciato a investire anche il Sol levante è legata quindi al nodo insuperabile del sistema del libero mercato capitalistico: la sovrapproduzione.
Resta più che mai fondamentale per i capitalisti intervenire sul costo del lavoro, e ciò - nella fase attuale - produce un altro pesantissimo attacco ai lavoratori delle metropoli imperialiste.
Gli spostamenti telematici di capitali e gli abbattimenti delle barriere economiche e politiche consentono una nuova divisione internazionale del lavoro e ridislocazioni delle produzioni assai più del passato nei paesi dipendenti del Sud e dell’Est, dove il costo del lavoro è drasticamente inferiore. Se mediamente il rapporto è di 1:10, nei cosiddetti “poli di sviluppo” arriva a 1:18, provocando processi di deindustrializzazione che sono in parte inarrestabili e rimandano alla capacità di resistenza e di organizzazione del proletariato e dei popoli del terzo mondo. Ma “in parte” non vuol dire inarrestabili completamente. Non si spiegherebbe altrimenti la persistente strapotenza industriale della Germania, che ha in assoluto il costo del lavoro più elevato del mondo. E, inoltre, non tutte le produzioni offrono le medesime condizioni di agevole ed economico trasferimento da una parte all’altra del pianeta.
Qui bisogna ancora una volta battere il chiodo sul fattore soggettivo, sulla direzione del movimento operaio. Prima, si opera una svolta dal tradizionale internazionalismo della classe operaia al sostegno degli “interessi nazionali”, tollerando il neocolonialismo e la rapina o al più l’abbandono del terzo mondo al suo destino, sperando di mantenere la rappresentanza dei lavoratori italiani. Adesso, quando ormai la globalizzazione dell’economia cancella i confini statali, si abbandonano anche i proletari, decretando la fine del movimento operaio in nome del pensiero unico del mercato, del liberismo senza antagonismi di classe. (…)

Non c’è affatto la scomparsa della classe operaia. Il lavoro salariato è anzi in forte crescita in tutto il mondo. Ci sono delle aree regionali di sviluppo che creano nuove polarizzazioni di classe e portano a una “modernizzazione” del conflitto in zone prima economicamente arretrate, tralasciando - in questo passaggio - gli effetti socioculturali o ambientali spesso disastrosi. E c’è una diversa composizione di classe nel “nostro” mondo del lavoro, con l’emergere di fasce più ampie di salariati nei settori secondario e terziario, sfruttati, ma spesso privi di coscienza di classe.

Privi non significa immuni: per rendersene conto basti pensare alla radicalità delle lotte degli aeroportuali o della sanità in Francia, che hanno contenuti e anche metodi di mobilitazione paragonabili a quelli operai classici, imparati in assai poco tempo. (…)

Le mistificazioni sulla flessibilità
La flessibilità della forza-lavoro sarebbe indotta dalle esigenze di flessibilità del nuovo sistema. Qui la devastazione ideologica di coloro che un tempo si definivano il movimento operaio e la sinistra è totale.
Il capitale da sempre esige una forza-lavoro docile al suo comando: e cosa c’è di meglio della precarietà, dell’insicurezza, del ricatto per ottenere qualsiasi cosa? È la rigidità dei diritti e degli interessi dei lavoratori che vogliono spazzar via! Che c’entra con la fungibilità del lavoratore su più mansioni o con la richiesta di disponibilità ad acquisire nuova professionalità il tentativo padronale di imporre la piena libertà di assunzione e di licenziamento? Questa “elasticità professionale” del lavoratore, anzi, potrebbe anche essere messa a frutto dal movimento operaio per una maggiore valorizzazione della forza-lavoro, dentro un sistema generale di garanzie contrattate (e pagate dal padrone). I gruppi di produzione all’Alfa Romeo nei primi anni ‘80, si avvicinavano in modo significativo alla nuova organizzazione scientifica del lavoro. Furono cancellati dalla Fiat al momento del suo ingresso ad Arese nel 1987, perché rappresentavano nei fatti un compromesso tra le esigenze di recupero di produttività da parte dell’impresa e l’esistenza di un controllo operaio presente e attivo nella fabbrica. Dati i rapporti di forza in quell’epoca, fummo noi a criticare le concessioni sulla produttività imposteci dalle Confederazioni. (…) È proprio la sinistra politica e sindacale che da anni si fa veicolo dell’ ineluttabilità” della precarizzazione, che nella vita bisogna cambiare sette-otto posti di lavoro, eccetera. Vi ricordate dell’uso spregiudicato da parte del sindacato dell’insofferenza dei giovani verso la fabbrica, per introdurre l’idea che il posto fisso era rifiutato dai giovani, che non era solo un’idea padronale, che ai giovani piace cambiare? Sembrava la réclame della Simmenthal...
Oggi, lavoro interinale, precario o di coppia sono spacciati a sinistra meno come esigenze e più come necessità per creare nuova occupazione. Mentre la totale deregolazione del mercato del lavoro e l’eliminazione di ogni “rigidità” permette di occupare tutti gli interstizi di attività con l’uso di un minor numero di occupati.
Che c’entra poi con le nuove esigenze tecnologiche l’attacco al sistema di sicurezza sociale, la cui liquidazione totale o parziale viene anch’essa data per inevitabile? È ovvio che se, come abbiamo detto, non occorre una società come quella giapponese per imporre il toyotismo, è altrettanto vero che la fabbrica integrata spinge verso una società a essa funzionale; che c’è il tentativo padronale di appropriazione di funzioni pubbliche (mutue, fondi pensione, assistenza, eccetera). È la privatizzazione di tutto quanto, la sussunzione diretta del capitale di attività affidate finora allo Stato. È logico, è “coerente” col toyotismo, rende ulteriormente precaria la condizione del proletariato. Ma non è affatto ineluttabile. E non dobbiamo cedere noi sul piano più propriamente ideologico nella difesa del sistema di sicurezza sociale, del pubblico contro le privatizzazioni, fondato sul controllo diretto popolare e dei lavoratori e non certo sugli apparati burocratici di Stato. La borghesia fa la sua battaglia ideologica, eccome, per cancellare qualsiasi resistenza di classe, per aver mano libera nella sua destrutturazione. Nelle fabbriche, ossia il luogo principe della competitività totale, il toyotismo esige l’integrazione della classe operaia e l’abolizione della conflittualità (e quindi del sindacato conflittuale): non esiste più così classe antagonista, ma individui atomizzati, prestatori d’opera autonomi in lotta con le proprie competenze professionali, venditori di cervello al proprio dirigente. Nella società si fa strada un altro mercato del lavoro, ancor più precario, nomade, “free lance operaio” o “libero professionista proletario”, per dirla con Ingrao. Tutta l’offensiva ideologica borghese mira a introdurre su larga scala la nuova organizzazione del lavoro giapponese e la flessibilità, con i suoi riflessi sulla società trasformata in sistema neocorporativo, creando un’illusione ottica - complice la sinistra liberaldemocratica - sul definitivo superamento delle contraddizioni del capitalismo, in un “normale” regime di collaborazione e di alternanza. Si maschera, invece, in questo modo, la crisi profonda del sistema capitalistico, la cui vulnerabilità può essere protetta solo dal disarmo a priori dell’avversario di classe.

Restano le contraddizioni di fondo
(…) Come può affrontare questo sistema il problema della disoccupazione? Se ci sarà ripresa economica, e c’è già, non ci sarà comunque creazione di nuovi posti di lavoro. In Europa ci sono 22 milioni di disoccupati (35 milioni nei paesi dell’Ocse) e 50 milioni di poveri. Un’intera generazione rischia nella sua maggioranza di non conoscere il lavoro, mentre si accumulano i bisogni sociali insoddisfatti. In un mondo dove due miliardi di uomini e di donne non hanno letteralmente futuro e sono privati dell’idea stessa di poter accedere al mercato. Allora dobbiamo ricordare a Lorsignori che il nodo sta nell’esistenza di un’economia che si fonda sulle esigenze di 400 multinazionali, che controllano i centri economici e finanziari imperialistici, che hanno da tempo superato lo Stato nazionale come ambito di attività e anche sede di mediazione sociale. E che si disputano un mercato di non più di 800 milioni di persone, cosiddette “occidentali”. La loro economia si basa su questo, e al di fuori di questo non sono in grado di proporre niente, figurarsi di realizzare una pianificazione. L’estensione del toyotismo, che ridurrà ancor più il lavoro socialmente necessario e allungherà il monte ore lavorate procapite per chi già lavora, in presenza di un mercato stagnante può solo offrire un’esplosività sempre più dirompente del problema in tutto il mondo. (…) Ma è vero che la fabbrica integrata limita e persino impedisce sul serio la conflittualità? In realtà, è vero quasi l’esatto contrario. Ossia il sistema può funzionare solo con la cancellazione dell’antagonismo di classe, perché anzi la fabbrica toyotista è particolarmente fragile. L’eliminazione del capo con funzioni “militari” per ottenere consenso senza repressione, da esercitarsi solo quando condivisa dalla maggioranza, si scontra con la presenza dell’organizzazione operaia e del delegato conflittuale, al punto che bisogna ricostruire le fabbriche da zero, dal prato verde. La più o meno rapida trasmissione di esperienze sindacali a quel nuovo segmento di classe operaia determina i tempi più o meno rapidi della ripresa dell’antagonismo. Ma è proprio il just in time, l’eliminazione dei magazzini e delle polmonature a permettere a un numero anche ridotto di lavoratori di poter inceppare l’intero sistema. Se blocchi in cinquanta le portinerie dell’Alfa per due-tre ore, blocchi tutto quanto. Così come uno sciopero di una catena può paralizzare mezza fabbrica, o, a volte, uno sciopero di camionisti o semplicemente il traffico più intenso fa saltare gli approvvigionamenti dai fornitori. Di qui i pesanti attacchi ovunque al diritto di sciopero per contenere l’iniziativa operaia e sindacale. O i ricatti più clamorosi: se rifiuti di fare lo straordinario, ritiro tutta la produzione e la trasferisco dove accettano l’imposizione. Ma rivelano nei fatti l’intrinseca debolezza del sistema.

Gianfranco Pala, parlando più in generale, riassume bene questo dato. “ “L’intero sistema - oltre che causa di conflitti tra capitali - è intrinsecamente fragile, proprio per la flessibilità imposta al lavoro con l’alibi di una millantata garanzia data da macchine vulnerabili. Dietro il volto accattivante della “qualità totale” - capace di estorcere masse crescenti di pluslavoro non pagato, appunto nella “quantità totale” di plusvalore che rimpiazza la falsa qualità - sta in agguato quella contraddizione che è possibile svelare” .(…)
Le mistificazioni del toyotismo devono essere smascherate; una nuova direzione del movimento operaio e sindacale è più che mai all’ordine del giorno: i tempi urgono.
Non possiamo aspettare che i lavoratori di Melfi imparino a loro e a nostre spese quali sono le conseguenze della qualità totale, non possiamo permettere che smantellino nel frattempo i centri organizzativi nevralgici della classe operaia italiana, non possiamo non ricostruire una nuova confederalità di classe, una nuova intercategorialità, dopo la fine delle confederazioni con la loro subordinazione alle esigenze di competitività aziendalistica! (…).

giugno 2005