Tempi di vita e tempi di lavoro nell’era post-fordista
di Manuela Porta

1. Dualità dei tempi di vita e di lavoro nel fordismo
Andrè Gorz in Metamorfosi del lavoro descrive così il dualismo fra esperienza di vita ed esperienza di lavoro quale si instaura nell’età in cui la produzione capitalistica assume il modello organizzativo fordista:
Nell’organizzazione fordista assumono rilievo due modelli di razionalità(corsivo mio): […] quella degli individui che perseguono fini che, anche se motivano condotte funzionali, sono irrazionali in rapporto alle finalità delle organizzazioni nelle quali gli individui lavorano; e quella delle organizzazioni, che non ha alcun rapporto sensato con gli scopi che motivano gli individui. Tale scissione del sistema sociale e tale separazione tra razionalità differenti generano la dissociazione della vita stessa degli individui: vita professionale e vita privata sono dominate da norme e valori radicalmente differenti, per non dire contraddittori. [...] L’affermazione professionale esige spirito di competizione, opportunismo e compiacenza nei riguardi dei superiori e sarà ricompensata e compensata nella sfera privata da un sistema di vita confortevole, opulento, edonista; è così che il grande o piccolo quadro, dopo aver fornito una giornata di lavoro al servizio dei valori economici di competitività, rendimento ed efficienza tecnica, intende trovare, dopo il lavoro, una nicchia in cui i valori economici sono sostituiti dall’amore per i bambini, gli animali, i paesaggi, il “fai da te”, e via dicendo”1.

Secondo questa analisi il modello di industrializzazione fordista implicava una separazione abbastanza visibile tra il tempo di lavoro e il tempo di vita, lo spazio della società e lo spazio del mercato. Tale scissione, riconducibile alla capacità del capitalismo di strutturare e piegare ai suoi fini segmenti del mondo vitale e lavorativo, è all’origine di una vera e propria dissociazione tra tempo di lavoro e tempo del soddisfacimento dei desideri,sfera del lavoro e sfera ludica e genera differenti forme di rappresentazione dei valori , norme, e comportamenti, costituendo una vera e propria frattura che attraversa l’esperienza.
Per agire in questi due mondi (vita e lavoro) gli individui elaborano due tipi razionalità, una inerente alla sfera autoregolata della società civile, l’altra inerente alla sfera eteroregolata della megamacchina industriale .
È noto come Andrè Gorz, tracciando le linee della sua analisi della divisione capitalista del lavoro e delle dinamiche sociali in grado di superarla, abbia finito col rinunciare a una problematica centrata sulla liberazione nel lavoro approdando ad una prospettiva che tende essenzialmente alla liberazione dal lavoro. In Metamorfosi del lavoro afferma che, di fronte all’impossibilità di realizzare l’appropriazione di massa dei saperi, necessariamente specializzati, che la produzione sociale associa, cercare il senso dell’attuale metamorfosi del lavoro consiste in un progetto di società del tempo libero. L’automazione, per esempio, può essere sfruttata a vantaggio dell’espansione di ambiti di attività privi di necessità o di fine economico. E questo grazie alla progressiva e drastica riduzione del tempo di lavoro. Insomma, inizialmente, Gorz sembra non voler rinunciare alla visione classica dell’opposizione tra lavoro e non-lavoro.
Rispetto a questa impostazione, la sua ultima opera Miseria del presente, ricchezza del possibile introduce due innovazioni determinanti: sostiene la necessità della garanzia a vita di un reddito sufficiente e, ponendo sullo sfondo la concezione della crisi del valore lavoro, fondata essenzialmente sull’automazione, elabora una concezione che individua nell’intelligenza collettiva la principale forza produttiva, valorizzando il concetto di sapere vivo collettivamente detenuto dagli individui .
Questa sua griglia di lettura delle trasformazioni del lavoro ha determinato il suo avvicinamento alla questione di un reddito garantito sganciato dal lavoro (reddito di cittadinanza): un approdo che in Metamorfosi del lavoro solo con la fantasia il lettore potrebbe immaginare, dato che Gorz non dimentica mai l’utopia marxiana della coincidenza del lavoro funzionale e dell’attività personale, ossia dell’armonizzazione tra esperienza di vita e lavoro, dei fini sociali e di quelli privati, la concordanza dei valori personali e di quelli socialmente condivisi.
Coincidenza che, secondo Gorz, è ontologicamente irrealizzabile nella organizzazione postfordista:
“Al contrario, l’integrazione funzionale degli individui è destinata a escludere la loro integrazione sociale; la predeterminazione funzionale dei loro rapporti impedirà loro di intessere rapporti reciproci fondati sulla cooperazione in vista di fini comuni secondo criteri comuni”2

La dissociazione individuata da Gorz offre una prospettiva ermeneutica per cogliere la trasformazione della natura del lavoro nella fase attuale, caratterizzata da una forma di controllo totale del capitale sul lavoro, tramite l’ integrazione del capitale mentale, ossia delle cognizioni professionali specifiche e sempre più sofisticate, richieste al lavoratore dalle prestazioni funzionali al processo produttivo. All’era del capitalismo cognitivo corrisponde una nuova dimensione spazio- temporale.
Un modello come quello fordista, fondato sulla suddivisione funzionale delle mansioni, doveva necessariamente ricorrere alla “coazione” tramite tempi rigidi e fissi di lavoro se Taylor per l’organizzazione scientifica del lavoro sosteneva lo scopo di stabilire una netta separazione tra lavoro manuale e intellettuale; oggi avviene che, con la sussunzione del lavoro mentale da parte del processo di produzione usciamo dalla forma industriale complessivamente intesa - secondo alcuni entriamo in una nuova fase della rivoluzione industriale, secondo altri la rivoluzione elettronica coglie solo una parte dell’intero processo – e ciò non coinvolge solo la sfera produttiva, ma anche e soprattutto quella antropologica.
La questione sociale si trasforma poiché è la sfera psichica e cognitiva ad aver innestato e ad avere subito dei mutamenti; la correlazione tra i due piani non va mai persa di vista. Ne deriva una profonda trasformazione della percezione e rappresentazione spazio- temporale del proprio progetto di vita .Sarebbe proprio la crisi della temporalità lineare del fordismo a impedire ai soggetti, nei tempi odierni, di far emergere un senso proiettato verso il futuro. Acquistano attualità le parole di Christian Marazzi che mette in evidenza la trasformazione della stessa nozione di soggettività sottesa alla trasformazione della modalità organizzativa del lavoro del post-fordismo. Al tempo lineare della catena di montaggio si sostituisce un tempo frammentato dove è impossibile, per il lavoratore, rintracciare una coerente sequenzialità delle operazioni di lavoro non più legate nemmeno ad una idea di continuità spaziale, con la organizzazione delocalizzata della produzione:

“Il tempo fordista era un tempo newtoniano, nella astratta scansione diacronica del tempo i luoghi spazializzavano la vita attiva della comunità. Nel regime postfordista il tempo è puntiforme, è un insieme di eventi non sequenziali che creano e disfano i luoghi della comunità. Nel postfordismo il “noi” è rappreso in un tempo che despazializza, deterritorializza. Se nel fordismo era lo spazio che organizzava linearmente il tempo, nel postfordismo è il tempo, la sua velocizzazione, che costringe a ripensare lo spazio della comunità”3.

Nel postfordismo cambia la struttura dell’ esperienza lavorativa, e cambiano le figure sociali del lavoro poiché si può immaginare che, al di fuori degli assi principali del lavoro salariato e delle traiettorie sociali predeterminate, circola un numero crescente di individui per i quali il lavoro salariato non occupa più una funzione centrale nella vita. Questo nuovo campo sociale è in continuo mutamento e si caratterizza per nuovi ritmi di vita individuale che si incrociano fra coloro che hanno accesso al lavoro, coloro che sono ancora salariati, coloro che sono disoccupati. Volendo tracciare una cartografia del lavoro salariato, è alla sua “periferia” che si incontrano i disoccupati, i lavoratori precari in differenti forme, gli studenti. Mi immagino come studentessa fra questi, mi immagino nella periferia del lavoro salariato, tra umori diversi sui quali tanto incidono due fattori: i rapporti con le istituzioni e la capacità dei singoli di districarsi per raggiungere un’indipendenza economica. Alle frontiere di questa periferia del lavoro salariato si incontrano quelli per cui il lavoro salariato costituisce ancora un’identità, uno status sociale, e che adattano le proprie strategie in funzione di questo per non “affogare”.

2. Liberazione nel lavoro o liberazione dal lavoro?
Il non-lavoro per coloro che “credono nel salario” è vissuto come una disgrazia anche se ciò che si profila per il lavoro salariato non è necessariamente entusiasmante per la perdita costante di tutele e diritti. Per via del mio tempo libero da studentessa, mi piace immaginarmi nel “centro” della periferia del lavoro salariato con una modalità di esistenza che coscientemente o proprio perché spinta da queste mutazioni delle forme di lavoro, scopre l’attrattiva e l’interesse del “tempo a sé /tempo per sé”. Per rimanere nel “centro” della periferia del lavoro salariato non bisogna mai dimenticare e darsi continuamente la prova (con l’impegno sociale e multiattività che ci facciano perdere l’idea della centralità del lavoro) che si ha la capacità di produrre “altrove o altrimenti”, individualmente o collettivamente, in processi di cooperazione, di resistenza, di autonomia e valorizzazione sociale. La disoccupazione non deve essere sinonimo di ricerca a ogni costo di un reinserimento nel modello ufficiale, deve diventare uno spazio di socializzazione in quanto tale.
A partire dalla comprensione della metamorfosi del lavoro, la disoccupazione e il tempo libero non vanno vissuti come una parentesi, ma come il Tempo di realizzazione prolungato o addirittura permanente che disegna un movimento di fondo, una pratica sociale.
Ciò che manca non è “il lavoro” ma la distribuzione delle ricchezze per la cui produzione il capitale impiega un numero sempre più ridotto di lavoratori. Il rimedio non sarebbe, ed è evidente, quello di “creare lavoro” ma di ripartire al meglio tutto il lavoro socialmente necessario e tutta la ricchezza socialmente prodotta. In questo Tempo si esplica il bisogno di agire, di operare ed essere apprezzati dagli altri che non ha più la forma di un lavoro comandato e pagato. Com’è evidente dall’alto tasso di disoccupazione, il lavoro occuperà sempre meno spazio nella vita della società e di conseguenza, nella vita di ognuno. Il tempo di lavoro cesserà di essere il tempo sociale dominante se il “lavoro” perderà la sua centralità anche nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione. Al di fuori della società salariale precari, studenti e disoccupati hanno da organizzare una vita “multiattiva” in seno alla quale, afferma Gorz:

“Ognuno possa dare al lavoro il suo posto invece di assegnare alla vita il posto che le lasciano le costrizioni del “lavoro”. Ma ciò suppone una rottura politica all’altezza della rottura ideologica che le mutazioni culturali riflettono confusamente, ciò suppone in una parola, la fine della confusione sulla quale il capitale fonda la sua influenza ideologica e il suo potere.[...]In breve, riconquistare il potere delle attività vive sull’apparato e sul processo sociale di produzione o asservire sempre più completamente quelle a questo. Attraverso il potere sul tempo, è il potere puro e semplice ad essere in gioco: la sua distribuzione nella società, il divenire di questa. Il diritto sul tempo, sui tempi dell’attività, è la posta in gioco di un conflitto culturale che straripa inevitabilmente in un conflitto politico”4.

In questo diffuso senso generale di disoccupazione non bisogna smettere di occuparsi, la multiattività ha un significato politico poichè concepisce una scelta di società: impresa e lavoro a scopo solo economico saranno subordinati all’autonomia individuale e collettiva.

Non è un caso che la polivalenza, la multiattività o pluriattività sia stata ben compresa dai nuovi processi di ristrutturazione (l’esempio del modello Toyota ricalca l’immagine di un lavoratore tutto fare, dialogante e polivalente)ma bisogna fare in modo che l’autonomia delle persone non venga inquadrata come un mezzo per accrescere la flessibilità e la produttività del loro lavoro.
Quanto la flessibilità e la mobilità come cambiamenti evidenti della trasformazione nel lavoro e nelle biografie da “posto fisso” possono convertire il lavoro in qualcosa di meno centrale nelle vite?
Si può riportare quanto Richard Sennett afferma in un’intervista per rendere l’idea di quanto varie siano le opinioni in merito alla chiusura della società salariale e alla perdita della centralità del lavoro che ne deriva:

“Penso che ci sia qualcosa di sbagliato in questa impostazione, perché empiricamente, attualmente succede che in queste aziende flessibilizzate si lavora per molte più ore e sotto una pressione maggiore. L’idea di lavorare due o tre ore al giorno o di riservarsi la libertà di scegliere l’orario di lavoro è forse un caso di un’èlite, ma per la maggioranza è una semplice fantasia. La realtà, che ci mostra la maggioranza dei dati sui cambiamenti istituzionali relativi al tempo di lavoro, è che si deve lavorare per più ore, che la media degli orari lavorativi si è radicalmente incrementata… In certi casi il lavoro non si misura con il numero di ore, ma secondo gli obiettivi da realizzare e allora la competizione è tanto intensa che le pressioni sono diventate sempre più forti”5.

Secondo Sennett la flessibilità sarebbe uno strumento del potere, ma secondo alcuni pensatori critici italiani come Lazzarato e Toni Negri in questi aspetti “immateriali” e “flessibili” dell’economia si intravede per i lavoratori la possibilità di raggiungere una maggiore autonomia, di fare della condizione flessibile del lavoro un’altra cosa, un’organizzazione politica nuova. Ovvio che si tratta di una forma che va al di là delle organizzazioni tradizionali del lavoro - partiti, sindacati e classi sono soggetti ormai depotenziati - in cui non deve spaventare il lavorare dentro l’indistinto della moltitudine creando i luoghi multipli dell’autorganizzazione. La nuova soggettività sarà costituita da soggetti sociali, indipendenti e autonomi, sarà un’ “intellettualità di massa” che si costituisce senza aver bisogno di passare attraverso la “maledizione del lavoro salariato”. Questi autori dimostrano che questa nuova forza-lavoro ( non più definita all’interno di un rapporto dialettico col capitale ma all’interno di un rapporto antagonistico radicale poiché è alternativo, cioè costitutivo di una realtà differente) dà origine ad una nuova composizione di classe , visibile già nella capacità del movimento studentesco di rappresentare l’interesse generale della società nella convergenza delle lotte di operai e studenti del ’68 :

“Perché, a partire dal ’68, gli studenti tendono a rappresentare in maniera permanente e in modo sempre più vasto l’ “interesse generale” della società? Perché i movimenti operai e i sindacati irrompono spesso nelle brecce aperte da questi movimenti? Perché queste lotte, benché brevi e disorganizzate, pervengono “immediatamente” a livello politico? Per rispondere a queste domande occorre certamente prendere in considerazione il fatto che la “verità” della nuova composizione di classe appare più chiaramente presso gli studenti – verità immediata, cioè al suo “stato nascente”, data in modo tale che il suo sviluppo soggettivo non è ancora preso nelle articolazioni del potere. L’autonomia relativa del capitale determina negli studenti, intesi come gruppo sociale che rappresenta il lavoro vivo allo stadio virtuale, la capacità di designare il nuovo terreno dell’antagonismo”6

In effetti i vecchi sindacati tendono a essere abbastanza rigidi, proteggono interessi costituiti e, non riconoscendo tali questioni, non sanno leggere una realtà che profila diversi tipi di lavoratori; ma forse nella loro matrice c’è già un’indifferenza alla diversità (ora più fluida e composita): verso il genere e la differenza di genere i sindacati sono indifferenti e ciò la dice lunga sulla loro possibilità d’approccio a una soggettività cosi varia del non-lavoro e della multiattività.

Ci sono situazioni in cui le donne lavoratrici sono soggette a un regime che fa loro soffrire sacrifici incredibili e emerge anche una tendenza alla “femminilizzazione del lavoro” intesa sia come crescita dell’occupazione femminile, ma anche nel senso di un peggioramento delle condizioni di lavoro (in termini salariali e di possibilità di accedere a nuovi impieghi una volta perso quello precedente) .
L’inserimento di un numero cospicuo di donne nell’organizzazione post-fordista sarebbe legata al processo di precarizzazione e frammentazione dell’esperienza lavorativa , sempre più invasiva del tempo di vita – si pensi al lavoro telematico ma anche alle forme del lavoro interinale, ai contratti a
Termine, al lavoro a “chiamata”; l’attività lavorativa struttura interamente il tempo di vita , lo sussume e lo condiziona . A tale proposito Marco Revelli individua nella femminilizzazione del lavoro un carattere peculiare del postfordismo:

“Nel postfordismo, in sostanza il lavoro si “femminilizza”: non solo perché quantità crescenti di donne entrano nel mercato del lavoro, ma perché l’attività lavorativa prevalente assume i caratteri mobili, frastagliati, irregolari e insieme iper-soggettivizzati, intrisi di personalizzazione, emotivamente non neutralizzati né neutralizzabili che avevano fatto, appunto, della forza lavoro femminile un segmento non perfettamente assimilabile nel sistema razionalizzato fordista”7

Il panorama sociale che si prospetta oggi tende alla scissione non fra tempi di vita e tempi di lavoro in una maniera organizzata e seppur regolarizzata dall’esterno, come nel fordismo, ma ad un’altra scissione ben più grave di cui è causa la ripartizione ineguale delle economie di tempo di lavoro, la divisione tra una èlite che possiede conoscenze ad alto contenuto professionale, che riveste uno status economico e sociale privilegiato ed una massa di lavoratori che svolgono attività da servitore poiché libereranno il tempo delle èlite:

“Gli uni, sempre più numerosi, continueranno a essere espulsi dal campo delle attività economiche o ne saranno tenuti ai margini; gli altri, al contrario, lavoreranno altrettanto, o anche più di oggi e, in ragione delle loro prestazioni e delle loro attitudini, disporranno di redditi e di poteri economici crescenti. Per nulla disposta a privarsi di una parte del lavoro e delle prerogative e dei poteri legati al suo impiego, questa èlite professionale può accrescere il proprio tempo libero soltanto servendosi di tecniche le procurino tempo disponibile. Essa chiederà a terzi di fare in sua vece tutto ciò che può esser fatto da chiunque”8.

Questa èlite acquisterà tempo a un prezzo molto inferiore a quello al quale può venderlo; per gli altri espulsi dalla sfera dell’economia, i posti di lavoro saranno, anzi già lo sono, per lo più precari e mal pagati a una parte delle masse. A fronte dei professionals, dei pochi lavoratori veramente autonomi che possono spendere sul mercato competenze e capacità veramente non comuni (e spesso costose da acquisire) ci sono i jobber, i lavoratori che subiscono la flessibilità, che svolgono mansioni a bassa qualifica e alta intensità di lavoro o che ricoprono funzioni ripetitive e dequalificanti anche se utilizzano tecnologie informatiche o fanno lavori di relazione (chi inserisce dati nei database otto ore al giorno, o chi risponde alle domande standardizzate dei clienti di un call center).

Per concludere, al polimorfismo dei lavori corrisponde una multiformità dei soggetti che non è riconducibile né ai movimenti operai né a qualche unità di classe. Ciò che si può scorgere è l’emergere di logiche collettive, di modalità dell’azione collettiva che non si coagulano attorno ad un soggetto o a un obiettivo generale ma, nel migliore dei casi, si connettono in reti orizzontali, nelle quali i soggetti, guidati da un sostanziale bisogno di integrazione e di acquisizione di un’identità - più che di una appartenenza –sono “messi in salvo”dall’orrore della loro dissoluzione nella moltitudine indifferenziata. E anche questo, si può ritenere un dato a cui l’eredità dei movimenti delle donne di fine secolo ha dato un contributo.
1) A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, critica della ragione economica, Bollati Boringhieri 1995, pp. 46-47.
2) A. Gorz, Ivi, p. 53.
3) C. Marazzi, Il luogo del linguaggio, in “Derive Approdi”, n.19, primavera 2000.
4) A. Gorz, Miserie del presente, ricchezze del possibile, Manifestolibri 1998, pag. 108.
5) R. Sennett, La flessibilità lavorativa: apparato ideologico e dispositivo disciplinare, in “Derive Approdi”, n.21 primavera 2002.
6) T. Negri e M. Lazzarato, Lavoro immateriale e soggettività, in “Derive Approdi”, n.18, primavera 1999.
7) M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi 2001, p. 142.
8) A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, critica della ragione economica, cit., pag. 14.

giugno 2005