La direttiva relativa ai servizi nel mercato interno, detta Bolkestein dal nome del vecchio rappresentante della Commissione Europea guidata da Romano Prodi, è emblematica della visione liberista della costruzione europea, anche per quanto riguarda le principali forze dello schieramento di "sinistra". Altrettanto emblematico, infatti, è il voto bipartisan a favore della direttiva sull'allungamento degli orari di lavoro, approvata da poco dal Parlamento europeo.
L'obiettivo della direttiva Bolkestein, com'è noto, punta esplicitamente ad eliminare gli ostacoli alla libertà d'impresa in quasi tutte le attività di servizi, escludendo praticamente solo quelle fornite gratuitamente dallo Stato.
Indipendentemente dalle parziali modifiche relative alla clausola del paese d'origine (un prestatore di servizi è esclusivamente sottomesso alla legge del paese dove ha sede legale e non più alla legge del paese dove fornisce servizio), si è voluto definitivamente accantonare il principio di "armonizzazione", la cui ambiguità era per la verità presente fin dall'inizio. Era, infatti, esclusa un'armonizzazione delle regole fiscali e dei diritti economici e sociali dei lavoratori; anzi, le armonizzazioni sono sempre state pensate al ribasso per i lavoratori, mentre per le imprese si è quasi sempre scelta l'opzione ad esse più favorevole. Ossia, sfacciatamente, due pesi e due misure.
Basterebbe ricordare che la Commissione europea, in nome dell'uguaglianza tra uomini e donne, ha soppresso l'interdizione dal lavoro notturno per le donne, invece che vietarlo a tutti e tutte, indicando -come ovviamente possibile- delle eccezioni a questa regola per ragioni di interesse generale.
Tuttavia, il mantenimento di una logica di armonizzazione poteva lasciar sperare che un giorno, con forti mobilitazioni sociali che potessero costruire adeguati rapporti di forza, saremmo a poco a poco arrivati a imporre una convergenza verso l'alto dei diritti degli abitanti dell'Europa.
Ma non è così. L'allargamento a Est, fortemente voluto e difeso da Prodi più di altri, è di per sé un incitamento legale alla delocalizzazione verso i nuovi paesi aderenti all'Unione, dove regnano minori diritti sociali e ambientali e dove la protesta e il controllo dei consumatori è inferiore. E, insieme, una vera e propria macchina da dumping.
La direttiva sull'orario di lavoro è, se vogliamo, ancor più paradigmatica della subalternità di gran parte della sinistra ai precetti liberisti, in particolare sulla legislazione del lavoro, secondo il tanto decantato "Spirito di Lisbona".
Secondo la direttiva, i lavoratori nell'arco dei 12 mesi potranno lavorare flessibilmente per metà dell'anno 76 ore la settimana e per l'altra metà 20 ore, secondo le esigenze delle imprese. Inoltre possono individualmente sottoscrivere impegni, in deroga all'orario settimanale massimo, per lavorare fino a 65 e persino 78 ore settimanali. Ma "solo per tre anni" dal varo della nuova legge, grazie alle modifiche introdotte in Parlamento dalla sinistra.
Mentre le ore di attesa, quelle "a disposizione", potranno essere retribuite in misura inferiore e incideranno diversamente sull'orario annuo.
Che queste direttive possano essere presentate da D'Alema, ma anche dal PSE, dalla CES e da tutto il sindacalismo confederale come "un passo verso l'Europa sociale" fa semplicemente venire i brividi!
Bolkestein e nuove regole sull'orario dimostrano come l'Unione europea stia affrontando il rapporto tra mercato e diritti sociali.
Forse che la cosiddetta Costituzione europea, posta in approvazione in questo periodo nei vari paesi, ha qualcosa a che vedere con tutto ciò? Forse che alla stantia formula usata un tempo delle "forze dell'arco costituzionale" si è sostituita la formula delle "forze dell'arco del mercato"?
Visto il voto dello stesso GUE sull'orario, che non è stato proprio compattamente contrario (dei 36 presenti del Gruppo 25 sono stati i contrari, tra cui gli eletti del PRC, ma ben 7 si sono astenuti e persino 4 hanno votato a favore!), le preoccupazioni non sono infondate....