Sotto le mentite spoglie di una legge necessaria, la legge n° 40/2004, necessaria a mettere ordine e a regolamentare un terreno difficile e caotico quale quello della procreazione medicalmente assistita, si nasconde un manifesto ideologico e cattolico- integralista che mira a ristabilire un ordine autoritario e misogino sul corpo delle donne e degli uomini, imponendo il controllo pubblico sulla capacità riproduttiva e sulla sessualità femminile e stabilendo modelli familiari da seguire precettisticamente per chi voglia far ricorso alla Pma.
Più che di una legge si tratta di una serie di diktat e proibizioni che, sia sul piano medico-scientifico dell’ applicazione e della riuscita delle tecniche di riproduzione assistita e della libertà di ricerca, sia su quello psicologico e affettivo-relazionale che attiene al percorso personale mai facile che porta alla scelta, limita e vincola le scelte di ricorrere alla fecondazione assistita per la coppia, ledendo fortemente il principio di autodeterminazione e di responsabilità personale e imponendo una funzione di garanzia etica allo stato.
La legge 40 è una legge anomala che, insieme alla legge 30 e alla Bossi-Fini, compongono un quadro legislativo retrivo e fortemente antidemocratico che, pertanto, va abbattuto.
Piuttosto che riconoscere e garantire diritti con validità erga omnes, la legge 40 li nega, mettendo in discussione la legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza e sul diritto a vivere liberamente la maternità.
La legge, in uno stato laico e di diritto, non può fondarsi su presupposti etici frutto di scelte e orientamenti intrinsecamente parziali, per di più in una materia così complessa, delicata e riservata quale è la procreazione. È un principio fondamentale costitutivo della modernità giuridica quello che sancisce che non è compito del diritto affermare una precisa morale di tipo religioso.
Sul piano scientifico questa legge vieta la libertà della ricerca sulle cellule staminali pre-embrionali, lasciando inutilizzati gli embrioni attualmente congelati che potrebbero essere utili alla ricerca biomedica per la cura di malattie come il cancro, il diabete, il Parkinson e l’Alzheimer; riduce la possibilità di fare ricorso alle tecniche di procreazione assistita poiché stabilisce che possono avervi accesso solo le coppie maggiorenni eterosessuali sterili o infertili in età potenzialmente fertile; obbliga il medico alla produzione e all’impianto di soli tre ovociti fecondati; stabilisce, per la coppia, l’impossibilità di revocare la volontà di impianto dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo (art. 6); vieta la fecondazione eterologa, negando alle coppie sterili la possibilità reale di avere un figlio e introducendo per legge l’odiosa distinzione tra genitorialità biologica e sociale (come dire, ancora una volta, che i figli sono di chi li cresce e ama e che madre non si nasce, lo si diventa per scelta e desiderio?) La legge non tutela, inoltre, la salute delle donne, costringendole per legge, e senza una calibrata e oggettiva valutazione da parte del medico, a sottoporsi a più cicli di stimolazioni ormonali e prelievi di ovociti per il trasferimento dei tre ovuli fecondati nel proprio corpo in un’unica volta, con il rischio di gravidanze plurigemellari; vieta la diagnosi preimpianto dell’embrione e la possibilità, quindi, di revocare il consenso alla fecondazione, costringendo all’aborto nel caso in cui l’embrione risulti malato o incapace di svilupparsi; nega la fecondazione assistita alle coppie fertili ma affette da patologie ereditarie gravi quali la fibrosi cistica o la talassemia che, con un esame preventivo, potrebbero avere figli sani.
Ma soprattutto riconosce, per la prima volta nella storia e nel mondo, uno statuto giuridico all’embrione, equiparando i diritti del concepito a quelli della madre e negando, ancora una volta, il diritto all’autodeterminazione delle donne e imponendo per legge la bandiera ideologica dell’embrione come soggetto debole da tutelare contro una madre reprensibile e immorale, bandiera da sempre agitata ipocritamente dal Movimento per la vita nella sua storica crociata contro la legge 194.
L’embrione-feto-nascituro è tale e può essere assicurato alla vita soltanto dalla scelta, dal desiderio e dalla volontà della donna.
Ma, predisponendo per legge il diritto alla nascita per via di maternità assistita, oltre che ridurre ancora una volta il corpo della donna a luogo pubblico e a contenitore biologico inerte, si vuole in realtà predisporre la condizione per una generale affermazione del primato dell’embrione sulla madre su più livelli: in termini giuridici (il soggetto concepito contro il soggetto donna), in termini di scelta di modelli di vita (la coppia regolarmente sposata e riconosciuta o al massimo stabilmente convivente contro il diritto di ogni donna a essere madre), sul piano della salute (il divieto di produrre più di tre embrioni da trasferire contestualmente nell’utero della donna, il divieto di aborto selettivo in caso di gravidanza plurigemellare o di embrioni malformati).
Vietando alle donne single, inoltre, l’accesso alle tecniche, si afferma neanche troppo implicitamente che l’omosessualità è un impedimento giuridicamente rilevante, servendosi strumentalmente della tutela dell’embrione - che è vita in potenza se la madre lo desidera e non vita tout court - per stigmatizzare le scelte sessuali.
Sono questi i passaggi decisivi che potrebbero rendere semplice l’aggressione della legge 194: affinché l’embrione veda sempre riconosciuti i diritti giuridici che gli spettano è, infatti, necessario che la donna sia sempre privata di quel principio di responsabilità e di autodeterminazione rispetto al proprio corpo e alle sue scelte che la legge le riconosce.
Questa legge non è soltanto inaccettabile, è anche inapplicabile perché sta già favorendo tutta una serie di modi per eluderla: dal turismo procreativo verso gli altri paesi nei quali la regolamentazione è molto più laica e permissiva alla clandestinità, producendo odiose discriminazioni in ragione delle diverse condizioni sociali e delle diverse opportunità culturali delle donne e delle coppie.
Una legge da combattere nelle urne elettorali e nelle aule del Parlamento, dunque, ma soprattutto fuori, nella società, nei movimenti, tra le donne e gli uomini.
La legge 40 andava abrogata tutta perché è sbagliata e pericolosissima in tutta la sua complessità, perché invasiva rispetto alla vita delle coppie e delle persone in carne e ossa, perché foriera di elementi di regressione sul piano antropologico e culturale, oltre che giuridico, perché tende a riscrivere forzatamente, a insinuarsi e a sconvolgere le relazioni sociali e i rapporti d’amore, perché mira a imporre, con un estremismo tutto ideologico, un’idea di famiglia stereotipata ormai inesistente. La famiglia non è un’entità astratta ma si tratta di soggetti differenti che la formano, soggetti legati tra loro da vincoli relazionali di diverso tipo che traggono origine da consuetudini sociali storicamente date che si evolvono con il mutare della società.
Questa legge antistorica, infatti, andrebbe letta più come un tentativo di risposta alla crisi dell’ordine sociale fondato sulla famiglia patriarcale ormai implosa, così come l’idea di ricorrere alla legge come disposizione di ordine dall’alto per far fronte al disordine, quale baluardo e garanzia di moralità attraverso l’autorità, senza ascoltare il sentire diffuso della società che si dimostra, in questo caso, molto più avanti della legge e della politica.
È questo che il 12 e 13 giugno le donne e gli uomini di questo paese sono chiamati a esprimere: quello dei quattro referendum parzialmente abrogativi della legge 40 è, a mio avviso, un passaggio stretto subìto, non scelto per il movimento delle donne oggi.
Sembra, infatti, una perdita e una forte regressione rispetto a ciò che il movimento delle donne in questi ultimi decenni è andato acquisendo: l’idea che non si possa legiferare sul corpo delle donne e non certo per una visione mistica della femminilità che non si possa profanare, ma per l’idea che il desiderio non possa avere legge, non possa essere normato, chiuso, irreggimentato a prescindere dai corpi e dalle menti delle interessate.
È per questo che nella discussione originaria su queste questioni nella scorsa legislatura, quando iniziò l’iter parlamentare che avrebbe poi portato a questo mostro giuridico, il Tavolo delle donne sulla bioetica aveva saggiamente proposto di ricorrere non a strumenti legislativi ma a un semplice regolamento ministeriale cui i centri e le strutture medico-sanitarie che praticano la Pma avrebbero dovuto attenersi.
Nonostante ciò, tutti e tutte siamo chiamati convintamente a un’assunzione di responsabilità in una battaglia all’ultimo voto contro un partito fantasma e trasversale che affida la sua campagna elettorale non alla luce del sole di una piazza o all’esercizio di un diritto da esercitare consapevolmente nelle urne, ma al pulpito, al confessionale e alla mitra, alla mitologia ipocrita della sacralità della vita in potenza a prescindere dalla vita in carne e ossa, quella che già pensa, parla e sceglie.
È una questione di democrazia che, ovviamente, non riguarda solo le donne o poche di esse, le più sfortunate, ma la società tutta nel suo corpo vivo che, in modo trasversale, chiede libertà di scelta senza ingerenze cattoliche o ideologiche di sorta.
E qui l’assenza della politica, incapace di autoriconoscersi biopolitica, si fa sentire in modo ancora una volta trasversale, a destra come a sinistra: lo straniamento e l’afasia di una politica annichilita dall’ombra temibile della bioetica e nascosta dietro l’ennesimo dogma della libertà di coscienza e dell’astensione, incapace ancora di dire una parola che ripristini un rapporto umano con la scienza che, in questo caso, non produce merci o robot, ma persone e che si spinge fino a declinare e a determinare anche i rapporti d’amore.
Di fronte alla mutazione antropologica in atto che lo scenario biotecnologico ci porta, la politica deve oggi più che mai riprendere la parola per demistificare tutte quelle contraddizioni costruite sapientemente: la ricerca scientifica contro la garanzia di autenticità del sangue e della razza in salsa padana o semplicemente italica, la fecondazione eterologa (che in realtà non comporta nulla che non esista già naturalmente e da sempre: l’incertezza del padre biologico) contro la famiglia tradizionalmente naturale, l’embrione (che non è né un semplice grumo di cellule, né essere umano) contro un desiderio femminile troppo libero e senza regole.
È per questo che il voto del 12 e 13 giugno è così importante: perché può aiutare la sinistra italiana a ritrovare un vocabolario che offra la terminologia per poter dire che tutti i rischi che le biotecnologie comportano oggi non sono azzerabili attraverso il divieto della ricerca, ma soltanto offrendo la possibilità agli uomini e alle donne di scegliere e decidere liberamente su se stessi.