La famiglia
di Raffaele Cappelluti

Che cosa rende un criterio di relazione tra individui in un rapporto definito famiglia? La reciprocità di legami naturali, la condivisione di affetti e di tristezze, oppure una semplice disposizione mentale?
Talvolta soltanto il racconto comune di una storia.
Iris e Anemone, i cui nomi erano stati dati dalla madre ispirandosi alla varietà di alcuni fiori, i più delicati e leggiadri che vedeva nel negozio del marito, erano cresciute accompagnandosi come il riflesso una dell’altra. Portavano appena due anni di differenza, ma la rassomiglianza era talmente impressionante, e soprattutto l’affinità che le accomunava era così intensa, forse più grande di quella che si immagina in due ombre sovrapposte, al punto che molto spesso venivano scambiate.
A scuola per esempio, se non avessero frequentato classi diverse, arrivando sempre insieme con i grembiuli di colore azzurro con il colletto bianco ricamato, nessuno avrebbe saputo distinguerle. Avevano tutte e due i capelli neri e ispidi. Li portavano corti per permettere in qualche modo di trattenere quelle folte chiome scure che facevano di tutto per ribellarsi ad ogni tentativo di dare una forma. La mattina, quando arrivava il momento di acconciare i rovi intricati che si formavano durante la notte sulle loro teste, le urla e le grida di sofferenza facevano tremare ciò che era rimasto dei cristalli di un servizio di Boemia che risaliva al matrimonio dei genitori.
Secondo il padre invece, la punta di azzurro chiaro che rendeva infinito come l’orizzonte del mare, e talvolta insostenibile, lo sguardo delle due ragazze in mezzo a tanto bruno, era da attribuire alle sue, per la verità mai accertate, ascendenze nobili. Se ne compiaceva veramente solo per via di una incerta erre che nella sua pronuncia in effetti denotava debolezza e che con molta ironia gli faceva dire, sorridendo, che era la dimostrazione di come fosse chiaro che non avesse nessun legame con questa parte di mondo e di ceto. Quando capitava di parlarne, le sue origini dipendevano dalle circostanze o dalle occasioni in cui volta per volta si trovava. Una volta erano normanne, un’altra volta dell’Europa Orientale, qualche altra volta di un’imprecisata zona del Mediterraneo dove i suoi genitori si erano fermati per una sosta durante la fuga da Mosca. La Grecia forse, o chissà quale altro posto!
- “Anche questa volta ho cambiato qualcosa del racconto? Non era la Grecia, era la Normandia? Ma sì, in fondo che importanza ha? Qualunque sia quel paese, io sono nato in un paese senza Storia e senza Economia; dove tutti invece conoscono infinite storie da raccontare ai figli e sanno suonare uno strumento musicale. Io non sono stato mai capace di imparare nemmeno il giro armonico di do. Mi accontento però di essere riuscito a conoscere i fiori. I fiori nel mio paese rappresentano un commercio prospero. Lo sapete che ancora adesso nei giardini si coltivano il mandorlo e il pesco ed alcune specie di alberi da frutta che sono scomparse altrove? In genere sono i vecchi che si occupano di queste cose. Allevano anche gli usignoli perché il loro canto allieta le giornate e quando finisce la stagione fredda raccolgono i rami di gelsomino per profumare le camere da letto. I più giovani studiano musica e imparano la matematica e le belle lettere dai grandi.
Al termine di ogni racconto, alla moglie e alle figlie diceva sempre di sentirsi assillato dal dubbio che le sue parole fossero scambiate per pura fantasia.
- “Ma perché ridete? Che cos’è che vi fa tanto divertire? Io non sono un istrione. Né un anarchico. Né tanto meno un sentimentale. Io… io… invece penso di rassomigliare a Juliette Binoche nel film Chocolat. In fondo che differenza c’è tra una crostata di mele e una pianta di ciclamino? O tra un cucchiaio grondante di crema gialla calda e una pianta di orchidea bianca? Tutte e due fanno sognare. E i sogni, le fantasticherie, sono indicati per la cura della depressione e della nevrastenia.
Le ragazze invece, che quasi tutte le sere si ritrovavano nel negozio, appena vedevano il padre liberarsi dalle sue faccende, impazienti gli chiedevano di raccontargli una storia o di ripetere qualche altra che avevano già sentito.
- “Volete sentire daccapo la storia di mia madre? Siiii?? Ma è sempre la stessa. E’ sempre la stessa principessa russa che si innamora perdutamente di un marinaio che aveva conosciuto al mercato delle pietre dure qualche giorno prima di fuggire. Non è cambiato proprio niente dall’ultima volta che ve l’ho raccontata. Però, se ci tenete così tanto a risentirla. Allora, io sono nato alle cinque ….
… alle cinque di un pomeriggio del mese di maggio era nato tra le grida di terrore e lo schianto delle onde che avevano attirato nel fondo del mare il bastimento su cui la madre si era imbarcata insieme al marinaio che presentava a tutti come suo marito.
- “Già, peccato che nessuna di voi l’abbia mai conosciuta. Era una donna bellissima ed elegante, mia madre. Qualcuno dice che avesse avuto persino una piccola parte in un film con Rodolfo Valentino.”
Secondo il racconto del padre di Iris e Anemone, la madre non era una borghese, ma una principessa russa che era fuggita durante i disordini del cinque da Mosca ed era stata aiutata da uno sconosciuto, un marinaio, ad imbarcarsi da San Pietroburgo per l’Europa. Per un po’ di mesi erano andati insieme in giro per il Baltico poi, viste le condizioni delle donna, avevano pensato di interrompere il viaggio. Una tempesta aveva fatto naufragare il bastimento davanti alle sponde del Pireo. Purtroppo c’erano stati dei dispersi e del marinaio che accompagnava la principessa russa si erano perdute le tracce.
Non si sapeva mai bene se le storie raccontate dal papà di Iris e Anemone fossero vere o inventate, ma di sicuro erano divertenti e affascinanti; riuscivano soprattutto ad incantare e meravigliare come le favole per bambini di un tempo.–
-“Figlie mie, una volta c’era … c’era una volta il vostro papà che …..
… che era cresciuto in mezzo a nobildonne, aristocratici e sfaccendati di ogni genere che si accompagnavano a principesse e nobili in fuga per l’Europa, portandosi appresso bauli colmi di vestiti di seta e libri francesi. Alcuni leggevano ad alta voce Guerra e Pace oppure Il Rosso e il Nero. La scena della partenza di questo variegato popolo aveva la solennità di un corteo di invitati alle nozze di una pulcella della corte viennese. Al loro seguito si spostavano mercanti e usurai, marinai solitari, scrittori privi di ispirazione, spie dal cuore d’oro dei governi rivoluzionari. Tra gli ultimi sopraggiunti si distinguevano per i riflessi argentei delle cinture figure di soldati che scendevano dal freddo del Nord, e poi contadini e giardinieri che coltivavano al di là del mare lilium e narcisi, rabdomanti e nani che esibivano senza ritegno la propria deformità per la misericordia di qualche centesimo di elemosina, donne dagli scialli di lana grezza al collo e bambini ricoperti di croste di sudiciume che correvano sulle banchine nebbiose e umide giocando insieme ai figli delle principesse.
- “Papà, questa storia è sempre bella. Raccontacene un’altra adesso.”, dicevano ogni volta le due ragazze senza dare nessuna importanza al fatto che fossero veritiere o inventate.
No, no. Un altro giorno. Adesso fatemi lavorare. Domani ho delle consegne di fiori per il funerale della madre del bibliotecario e come vedete non ho ancora iniziato il mio lavoro.”
Il padre di Iris e Anemone, come è ormai chiaro, aveva un piccolo negozio di fiori. Passava la giornata maneggiando docilmente forbici e cesoie per spuntare steli di violacciocche o sfoltire corolle di rose ingiallite. Intrecciava e arrotolava ghirlande di eucalipto e calle. Rassettava il banco, raccoglieva le foglie che si staccavano dagli steli e con un certo dispiacere le depositava in un secchio di latta che serviva per i rifiuti. Durante queste occupazioni cercava di ricordare come fosse finito in quella piccola città di provincia a vendere fiori. Proprio come era accaduto alla giovane Vianne e a sua figlia nel minuscolo villaggio francese di Lansquenet. Quando alla fine degli infiniti spostamenti della madre avevano deciso di fermarsi da qualche parte e lui era stato costretto a rinunciare ai viaggi e al mare, come se il mare fosse un’occupazione o un’arte, aveva conosciuto una giovane insegnante di musica e con un debito contratto con il segretario della biblioteca locale, aveva aperto un negozio di fiori e si era sposato. La sua modesta esistenza si svolgeva in quel negozietto semibuio e umido, dove spesso rimaneva chiuso per l’intera giornata eseguendo le ordinazioni che riceveva. Poi c’era la sua famiglia, costituita da una donna bellissima dai lunghi capelli neri e le mani esili che insegnava musica all’oratorio e da due figlie altrettanto belle e devote.
Le due sorelle crescevano in un ambiente amorevole in cui la maleducazione e la disobbedienza non avevano trovato mai posto. Crescevano insieme dividendosi gli stessi giocattoli, le stesse bambole. Si scambiavano i segreti. Avevano le complicità, i desideri, le bugie, la vanità, la malizia, che si hanno a dieci e a dodici anni e tutto faceva supporre che per loro non sarebbe mai arrivato il giorno delle tristezze. A quella età tutto ha la freschezza dei frutti appena recisi da cui irrompe il gusto per lo zucchero ed è l’età in cui l’inquietudine e i turbamenti degli anni rendono impudenti.
Quando però dal tronco della pianta i due germogli spiccarono separatamente, in modo che la identità di ciascuna delle ragazze cominciò a definirsi autonomamente; senza che nessuno se ne accorgesse, avvenne che la direzione presa non fu la stessa per tutt’e due. Fu come se ognuna si orientasse verso la luce in due punti opposti.
Anemone, la più piccola, dimostrò di essere precocemente attratta dalla smania di conoscere e di sapere come fosse fatta la vita al di fuori del negozio di fiori del padre.
- “Papà non ho più tempo per sentire le tue storie. Perdonami. Perdonatemi tutti, ma adesso voglio imparare a conoscere il mondo attraverso la scienza e la logica. Per me ora sono l’unica spiegazione al mio bisogno di fede e di verità.”
A differenza di Anemone, Iris invece, era cresciuta sottomessa e prudente, appartandosi e racchiudendosi in sé soprattutto dopo la morte della madre, come se non riuscisse a tollerare più le voci e il rigiro degli altri.
Al primo acchito in verità, la giovane era ritenuta da tutti gentile e indulgente quanto bella e docile come una immagine sacra. Eppure nel suo cuore e nella sua testa insieme al dolore e alla pena erano sopraggiunti il frastuono e le grida dei soldati venuti dal freddo e dei marinai dell’est. La paura, l’insonnia, l’oscurità, lo smarrimento, avevano portato la giovane alla precarietà e all’instabilità. Forse anche per la presenza di alcuni libri di poesia che circolavano nella loro casa.
Prima di addormentarsi, tutte le sere, il padre le leggeva alcune poesie di Emily Dickinson e non le faceva mai mancare sulla colonnetta con l’effige di Sant’Anna un bicchiere d’acqua e un vaso con i fiori di stagione.
A questo punto il fioraio cominciò a credere che esiste una famiglia fino al giorno in cui si possono raccontare delle storie ai figli. Vere o fantastiche, non ha nessuna importanza.
Peccato, ormai si erano dispersi i semi dei sogni e della stabilità della loro famiglia. Gli studi di Anemone gli sembravano complicati e astratti. Ogni tanto guardava tra i libri della figlia. Ma provava sempre la sensazione di non capire niente. Era invece la natura indipendente, irrequieta di quella figlia, i suoi ragionamenti sul tempo limitato e la ricerca della felicità che gli facevano ritornare alla mente i giochi spavaldi e gli svaghi intimi della sua infanzia senza nessuna sorveglianza sui ponti delle imbarcazioni con le vele spiegate verso l’ovest. Vedendola dormire nel suo vecchio letto le poche volte che veniva a trovarli, quel fiore disteso nelle lenzuola bianche emanava la stessa fragranza dei suoi primi dieci anni. Non provava nessun pudore a vederla mezza nuda, avvolta nel velo trasparente della sottoveste, poiché la bellezza e il vigore di quel corpo disteso provocavano in lui soltanto il desiderio antico e fuggevole di avventure perdute che forse era stato egli stesso ad infondere alla figlia.
- “Lasciala dormire. Vai a sorvegliare il sonno di Iris.”
Poi ritornava nella stanza di Iris; si distendeva su una poltrona accanto al letto della figlia e con gli occhi che lentamente si stancavano al buio, vagava sui muri scovando ombre e sagome irreali che lo confortassero nel silenzio fino a quando il chiarore del primo mattino, come un fastidioso intruso si intrometteva nella sua esistenza. Un dolore leggero, un graffio superficiale e veloce, come il segno inciso dallo strascico di uno spillo, affiorava nel suo petto.

giugno 2005