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Per tutti era l’Uomo Selvaggio. Non avevamo osato dargli un nome. Sarebbe stato come equipararlo a noi. E invece era così diverso da tutti. L’avevano scovato in un capanno sulla cima di un albero della Foresta Nera. Barba lunga da vecchio saggio. Emanava odore di abete. Parlava un tedesco perfetto, seppur fermo a Brunilde e Sigfrido. Non beveva birra o Apfelschorle, ma solo acqua piovana. Abitava con un serpente mastodontico. Gli anziani del paese dichiaravano di non averne mai visto uno più grosso. Lo si diceva anche alla televisione. Un rettile enorme dal nome dolcissimo. Luamba. Come una marca di cioccolatini. O un bacio fatto schioccare a fior di labbra. È stato un caso sensazionale. Eternità era finita in mondovisione. Il troglodita e Luamba. Compagni inseparabili. Quando li portarono al Kaiserkranz Park, era pieno agosto. La notte precedente avevo avuto una crisi. Come quando, a ferragosto di sette anni prima, mi ero arrampicato su un palo della luce perché volevo toccare il Sole. Il Sole non splende mai sul Kaiserkranz. Il proprietario dello zoo, Franz Speier, si aggirava smanioso tra le gabbie, in compagnia del sindaco, nella febbrile attesa di quel fenomeno da baraccone che avrebbe moltiplicato per mille il numero dei visitatori del Kaiserkranz. Quando incontrammo per la prima volta il troglodita l’avevano rimesso a nuovo. Sbarbato, indossava un maglione ordinario e pantaloni di lino. Fu accolto con grande calore da Speier e dal sindaco. Gli dissero che presto lui e Luamba sarebbero tornati al capanno nella Foresta Nera. Si godessero dunque quella gradevole vacanza. Il rettile finì in gabbia e il Selvaggio a casa di Franz. Il che non era molto diverso. Assediato da giornalisti, opinionisti, curiosi, si chiudeva nel mutismo. O raccontava che di notte, nella Foresta Nera, poteva udire la voce di Dio. E lo sentiva soffiare. Talora s’intratteneva con Magdalene, la figlia di Speier, o con la moglie, una donna dal nome metallico (Gerda) e gli occhi tristi. E a Magdalene suonava il violino. Non si sapeva come avesse imparato. Eseguiva con maestria la Czarda di Monti e sosteneva d’averla udita dalle foglie d’acero, mentre ondeggiavano al vento d’autunno. Poi piangeva per Luamba. La scorgeva sfiorire giorno dopo giorno. I flash dei fotografi le facevano raggrinzire la pelle. Si acquattava nella gabbia sino a divenire tanto piccina da sottrarsi agli sguardi rapaci dei turisti. Quasi a non esistere più... Frattanto, in Europa era esplosa la moda dei colli di pelliccia a forma di rettile. La moglie del sindaco ne sfoggiava uno, quando alcuni giovani animalisti la subissarono di uova marce all’ingresso dello zoo. Qualcuno aveva persino realizzato un album di figurine con l’Uomo Selvaggio e il serpentone in tutte le pose. I bambini se le contendevano all’azzardo, mentre a piedi scalzi sostavano nei giardinetti delle ricche villette a schiera in città. Avevo fatto amicizia con Magdalene e l’Uomo Selvaggio. Perciò, in quei pomeriggi d’agosto, trascorrevamo il tempo a parlare della Foresta Nera. Della Casa del Sole. Così lui la chiamava. Quando gli domandai perché, mi rispose che, delle volte, in quella baracca stretta e celata agli sguardi, il Sole si recava a dormire. E russava anche. Poi al mattino baciava Luamba e il suo amico e tornava lassù. Scoprimmo solo più tardi, grazie a una soffiata di Gerda, che Speier ci aveva uditi parlare. E nella sua mente contorta, con la complicità del sindaco, aveva ordito un piano folle. Catturare il Sole, ignaro di tutto, nella sua casa della foresta; condurlo al Kaiserkranz, rinchiuderlo in una gabbia d’oro rifinita d’ornamenti barocchi... E chissà, entro breve tempo avrebbe condotto lì allo zoo la luna, le stelle, finanche Dio... Quella mattina al Kaiserkranz, c’era l’intero jet set cittadino in parata. Speier con gli occhi crepitanti d’emozione, il Sindaco e la moglie civetta con un collo di pelliccia a forma di Sole nuovo di zecca. Gerda, con lo sguardo assente, enigmatico. Mia madre, che al solito bestemmiava in un turco germanizzante contro il mio babbo, guardiano del Kaiserkranz. Io, in pigiama, il viso madido di febbre. Nessuno aveva notato l’assenza della giovane Speier e del troglodita. Gli sguardi erano rivolti al cielo e a un’alba che non sarebbe spuntata, perché di lì a poco un elicottero avrebbe dovuto condurre nello zoo il Sole in catene, pronto per esser ingabbiato. Ce lo figuravamo un gran disco d’oro, scoppiettante come frittelle in un tegame, lucido come uno specchio o pallido di malaria. O simile a un pezzo di strutto. In quell’attesa trasognata, carica d’incognite, la voce di mio padre, gracchiante, ci ricondusse alla realtà. Luamba era svanita. Al suo posto un boa di piume di struzzo. Speier sembrò smarrirsi e fu allora che Gerda gli spiattellò in faccia di aver esortato lei Magdalene e l’Uomo Selvaggio a quella fuga. Perché il Sole sorgesse ancora. Ed ecco di lì a poco un’alba di perla sui nostri sguardi esterrefatti. Mi accorsi che Speier piangeva. Aveva perduto due volte. Ma era giusto così. Guardai il Sole soddisfatto. Restava libero di volare. Forse un giorno, da una galassia remota, discenderanno su questa terra altri esseri, individui diversi da noi. Più forti. Razza superiore. E forse, per un atroce scherzo del Destino, ci richiuderanno in gabbie, come noi ora questi animali. Ci studieranno, ci sezioneranno, ci useranno come cavie per i loro esperimenti genetici. E quando domanderemo il perché di tutto questo, nessuno saprà risponderci. I nostri aguzzini non parleranno la nostra lingua. E avremo freddo. Non vedremo più il Sole... Ma c’è. E sempre ci sarà. Libero. Si cercherà una nuova casa e non faticherà a trovarla perché la sua dimora è ovunque, nell’immenso. Troverà altri puri insieme a cui coricarsi. E se Speier e i suoi continuano a dargli la caccia, sfuggirà loro mentre ne sentono già il calore tra le mani, li gabberà non una ma mille volte e, a dispetto di ogni sforzo, lo riscopriranno sempre lassù. Libero. Lontano dal Kaiserkranz... |
giugno 2005 |