Il tunnel e la vita
di Antonio Moretti

Ma quando vi decidete a fare un figlio?” oppure: ”Ma ve la volete proprio godere la vita, eh?” Queste, o domande simili da parte di parenti, amici e quant’altro, iniziano a tormentarti l’esistenza quando, a cavallo dei trent’anni, si continua a essere coppia senza pargoli attorno (“Ma come...una bella coppia come voi, senza figli!!!”). E tu non sai più come rispondere. Dal “Ci stiamo provando”, ai sorrisi imbarazzati (che vorresti tanto mettere da parte per usare un bel “fanculo!!”), fino a quando, spazientito, inizi a ricorrere al “E che vuoi farci…lo ha voluto il Signore!!”.

Già il Signore, proprio il buon Dio a cui si ispirano i legislatori di questa assurda legge 40 sulla Procreazione Medica Assistita (PMA). Per la violenza e la brutalità con cui si sono accaniti contro il corpo della donna, aumentando a dismisura le difficoltà delle coppie che iniziano questo difficile percorso, sembrano pervasi da perversione sadica piuttosto che dalla volontà di difendere la vita!

Sono indignato per questa legge e per il violento integralismo inquisitorio che la permea. E’ come se i legislatori, ispirati non si capisce bene da quale istinto vendicativo e vessatorio, abbiano voluto far “scontare” agli aspiranti genitori, via PMA, le “colpe” di una società che si è ormai da decenni emancipata da un integralismo cattolico obsoleto, e fuori dalla realtà. Quando abbiamo iniziato questo percorso, io e mia moglie avevamo ormai la forte consapevolezza della nostra infertilità.

Dall’inizio del nostro matrimonio erano passati ormai sette anni e nulla accadeva. La frustrazione di non essere diventati genitori e l’incertezza di un futuro in cui soddisfare quel fortissimo senso di maternità e paternità che avevamo sviluppato facevano da corollario permanente della nostra esistenza. Ci sentivamo mutilati e mia moglie iniziava a sviluppare un fortissimo senso di colpa, per non essere “all’altezza” di essere mamma. E sì, perché così ti fanno sentire, quando ormai non ti fanno più domande e preferiscono evitare l’argomento, per non “imbarazzare”. E allora, quando inizi le tue indagini, quel percorso di analisi, di minuzioso ed impietoso viaggio negli angoli più riposti del tuo corpo, per capire dove e cosa non va (per poi scoprire, come nel nostro caso, che nulla non andava), la sofferenza, il disagio psicologico, il dolore iniziano ad essere i tuoi compagni di vita. E per la prima volta, dopo tanti anni, inizia a vacillare il tuo rapporto. Perché sì, è proprio così, è la tua capacità di tenuta che viene messa in discussione. E’ il vero e profondo legame che ti unisce che viene verificato sino in fondo. E, se non c’è una solidarietà, una forza, una volontà enorme di condividere tutto, insomma, un amore vero, si rischia di franare nell’incomunicabilità più assoluta, si rischiano di vedere crescere pareti all’interno della coppia e ciascuno si rinchiude nell’elaborazione solitaria del proprio disagio. Per fortuna, abbiamo superato questi momenti con la forza del nostro profondissimo affetto, ma quanta fatica! E quanta fatica affrontare tutti i passaggi necessari fino alla decisione ponderata (con l’aiuto del professore e del centro ai quali ci siamo rivolti, caratterizzati da straordinarie professionalità e correttezza, altro che stregoni e far west!!) di passare alla fecondazione in vitro. Entri così in quello che può essere un tunnel alla fine del quale vedi la luce o sbatti terribilmente contro una parete. Superi la soglia della porta di quel centro con una speranza enorme, ma anche con l’animo inquieto di chi sa che si sta giocando l’ultima chance, in quanto tutte le altre carte giocate non hanno portato risultati. E sei lì, nella sala d’attesa con lo sguardo basso, di chi un po’ si vergogna, senza il coraggio di guardare gli altri pazienti negli occhi.

Mi vengono in mente tutti i volti di quella sala d’attesa, quando in televisione sento sproloquiare soloni privi della minima pietà e sensibilità su “coppie che potrebbero tranquillamente adottare e non essere vinti dal desiderio di un bambino a tutti i costi”. Guardate quelle facce, prima di parlare. Leggete la loro tristezza, la mestizia dei loro occhi. Leggete nelle espressioni ansiose di quelle splendide donne che sono lì in attesa di una risposta positiva, di un’analisi che dia i risultati sperati. Altro che luoghi comuni e sciocchezze sulle coppie!! C’è là un grande amore, un grande desiderio di vita, quella vera, quella che corre su due gambe e ti sorride, che ti bacia e ti fa sentire quanto sei importante per lui!! C’è il bisogno di metterla al mondo quella vita per vivere quelle emozioni, quell’affetto che solo un figlio ti può dare. Questo c’è e non altro.

E allora, dicevo, inizia la terapia, che è sostanzialmente a carico della donna e inizia con la stimolazione ovarica. E qui inizia l’intreccio con questa dannata legge. Il numero di tre ovociti come limite massimo per il prelievo ed il successivo tentativo di fecondazione e impianto sono un’assurdità che rende impossibile, in caso di fallimento, ritentare la fecondazione in vitro senza ripetere l’intero ciclo, con l’effetto di scatenare una vera e propria aggressione al corpo della donna. E già, perché, quella stimolazione ormonale è un vero e proprio bombardamento di ormoni, per produrre quanti più ovociti possibile. E si fa anche con delle iniezioni dolorose. Vi assicuro che farle ogni giorno, con la speranza che sia utile, non è facile. Ma soprattutto vedere il proprio corpo aggredito, invaso, deve essere ancora meno piacevole per una donna. Bene, produrre tanti ovociti e prelevarli al fine di farne fecondare il più possibile in vitro dal liquido seminale maschile, serve ad avere una riserva di embrioni, quelli che si congelano, da re-impiantare nel caso di fallimento di un primo tentativo di gravidanza. E quindi permette di evitare di ripetere tutto il ciclo di stimolazione ormonale da principio, con tutto il conseguente risparmio di dolore. Serve, inoltre, a non subire ancora l’umiliazione e la pratica di una masturbazione squallida, ma inevitabilmente necessaria, in una stanzetta di ospedale, che vorresti evitarti un’ennesima volta. Serve ad affrontare con più coraggio e fiducia un altro tentativo, serve a darti più possibilità di dare al mondo una vita.

Già, perché, quando iniziano i fallimenti, il mondo ti crolla addosso. Quando quelle analisi ti dicono che no, non c’è stato attecchimento dell’embrione, quando per 15 giorni hai visto la tua donna, la tua compagna avere stampata perennemente sul viso quell’espressione mista di speranza e ansia e poi la vedi distrutta, mortificata, ancora una volta con la sensazione della mutilazione, senti le tue carni che si straziano prima ancora del tuo umore. Riprendere tutto da zero comporta una grande forza ed un grande coraggio. Della donna, soprattutto.

Insomma, costringere un medico a prelevare solo tre ovociti è un vero e proprio atto di crudeltà nei confronti di quella donna che ha già sofferto per un precedente tentativo fallito. Così come è un atto di crudeltà negare la possibilità di una diagnosi pre-impianto degli embrioni che, anche se malformati o malati, la legge comunque costringe a re-impiantare, anche se sono destinati o ad aborti spontanei, con rischi enormi di salute per la donna, o ad aborti determinati dalle donne, che quindi devono affrontare anche questo trauma.

Ma come lo chiamereste, questo, se non sadismo?

E poi, perché accanirsi nei confronti di coloro i quali, completamente privi di capacità di produrre spermatozoi o ovuli, vogliono ricorrere alla fecondazione eterologa utilizzando le banche apposite ed anonime? Per qualche rarissimo caso, in cui una donna omosessuale possa sottoporsi a tale terapia (ma comunque donna e quindi con pieno diritto di decidere per il proprio corpo liberamente, a mio avviso), si impedisce a tantissimi di poter coltivare una speranza. Insomma, un quinto delle coppie di questo paese ha problemi di infertilità, un quinto che sogna tutti i giorni di poter diventare mamma e papà.

E’ vero, c’è l’adozione. Ma anche questa è una strada lunga, difficile e costosa da percorrere. Ma l’istinto naturale alla maternità/paternità non può essere giudicato da alcuno. Ognuno lo sviluppa per come sa e sente. Sradicarlo a suon di articoli di legge è un atto di imperio ingiusto ed orribile.

Impedire di provare la stessa cosa che provai io quando mia moglie mi chiamò al telefono e mi disse con la voce più dolce che abbia mai sentito in vita mia (mi si riempiono ancora gli occhi di lacrime per la commozione, al solo ricordo) “Antonio…, sono incinta…”, e dopo nove mesi è nato il nostro Nicola, è un atto disumano.

Sì, questa legge è disumana. Abroghiamola.

giugno 2005