Il furto del tempo nella globalizzazione1
di Ubaldo Ceccoli

Non è una parola il tempo.
È il tumore maligno dell’attimo.
(Kikí Dimulà)

1 – Memoria individuale vivente e memoria collettiva o culturale

L’uso politico della storia va oltre il revisionismo poiché cancellare le differenze, appiattire i processi, estrapolare gli accadimenti dal loro contesto, significa determinare la neutralizzazione della Storia, per regredire ad un’idea di tempo più consona agli interessi dell’economia globalizzata. Il tempo, infatti, è un punto nevralgico dell’ideologia della mondializzazione. Lo scontro tra mondializzazione e mondo della vita, è uno scontro sul tempo. Si tratta, in altre parole, di cogliere il nesso che lega il bisogno d’omologazione e di riconciliazione generale con il processo storico e l’internazionalizzazione dell'economia.

Nello spazio non ci sono né durata né successione. È la coscienza, attraverso la sua capacità di conservare nella memoria gli oggetti e poi di porli in una successione ordinata, che crea il tempo (la durata). Se la memoria interiore conserva questa successione è proprio perché questi diversi stati del mondo esterno sono dati alla coscienza come successioni che si compenetrano, legando il passato al presente. Se la memoria interiore li pensa separati gli uni rispetto agli altri - poiché uno cessa di essere quando l’altro appare – significa avere la capacità di disporre ordinatamente gli eventi in una sequenza cronologica in cui ciascuno di essi esiste separatamente. Si ha così la consapevolezza della durata e della successione, la percezione del tempo.
La memoria, in connessione con la percezione della durata, dà vita così all’esperienza soggettiva: un’esperienza che si costituisce nel continuo scambio tra ricordi del sé e del mondo e la percezione attuale, due termini che pur nella loro differenza non possono venire in alcun modo disgiunti (Bergson).
In prima istanza, si privilegia il carattere personale e intimo della memoria, che per Ricoeur2 sembra caratterizzata da specifici tratti: a) la singolarità radicale; b) il legame della coscienza con il passato risiede nella memoria. La memoria assicura la continuità temporale della persona che così è in grado di risalire dal presente vissuto agli eventi più lontani della propria infanzia; c) la memoria personale orienta nel passaggio dal passato verso il futuro, nel senso di guidare e offrire strategie – legate ad esperienze e sentimenti – affinché l’avvenire sia migliore del presente.
Questi indubitabili caratteri della memoria individuale tuttavia non rendono improprio ricorrere alla nozione di “memoria collettiva”, perché la separazione è impossibile per la mutua costituzione della memoria individuale e collettiva.

Viviamo un momento di acutizzazione del problema della memoria ogni volta che si ha la fase di passaggio, cui va incontro ogni civiltà, quando la “memoria vivente” del testimone, diventa “memoria culturale” o collettiva che è una “memoria esterna” sorretta da mediatori, monumenti, luoghi, musei, archivi, rappresentazioni mediatiche. La memoria culturale cioè non si autodetermina, ma ha bisogno di essere fondata attraverso mirate “politiche della memoria”. Reinhart Koselleck si sofferma sulla crisi della memoria vivente, ossia quando i testimoni oculari scompaiono sancendo la transizione “dal presente storico” a un “passato che si è ormai separato dal vissuto”. Con il dileguarsi del ricordo soggettivo vivente si ha il cambiamento della qualità della memoria, poiché questa transita nella Storia e l’esperienza storica si tramuta in oggetto di studio storiografico.

È in questo passaggio alla memoria culturale che si apre il rischio della perdita: il ricordo individuale legato al vissuto andrà perso (“come lacrime nella pioggia” diceva il replicante del film Blade Runner), e la memoria nuova verrà dall’esterno come artificiale, per poi arrivare a essere parte dell’individuo, pur in maniera mediata e complessa. Se la memoria vivente perde terreno quando viene meno la generazione che ne era portatrice diretta, con lo sbiadirsi dell’originaria carica politica ed esistenziale, la memoria dei mediatori e della politica si sostituisce ad essa. E, nel fare questo, rende possibili rotture, conflitti e metamorfosi del senso, oblii, cesure critiche e cambi di paradigmi storiografici. Proprio per questo la storia è sempre in continua riscrittura.

2 - Coscienza storica e tempo storico

Si ha così la costituzione simultanea, mutua e incrociata della memoria individuale e della memoria collettiva. Lo scambio dialettico tra “spazio di esperienza” (l’insieme delle eredità del passato su cui poggiano i desideri, le paure, le previsioni, i progetti, che ci proiettano verso il futuro) e “orizzonte d’attesa” - “il presente del futuro”3 -, si produce attraverso il presente vivo di una cultura, un presente ricco del passato recente e del futuro imminente, non riducibile quindi a un semplice istante. Il passato, il presente, il futuro sono, per così dire, una serie di nastri che scorrono uno sull’altro, ciascuno con una polarizzazione specifica ma anche con un rapporto di scambio che avviene sempre e comunque nella sfera del vivente presente storico.

Se il vivente del presente storico è dato dallo scambio tra spazio di esperienza e orizzonte di attesa, la ri-conquista del tempo passato è la decifrazione degli spazi di esperienza e dell’orizzonte d’attesa delle generazioni che ci hanno preceduto. Le varie storie sono così inquiete per le differenti stratificazioni in quanto la storia è accolta e filtrata da ogni soggetto in modo diverso. Se la memoria dunque è segnata da un flusso continuo che dal presente porta al passato, e dall’attualizzazione del passato (la presenza dell’assente) che reagisce e impronta di sé l’esperienza presente, andando a ritroso nel tempo, si incontrano le biforcazioni, le passioni, le intenzioni degli uomini del passato mentre vivevano, decidevano, desideravano, dove per il soggetto-pescatore vivente vi sono infinite possibilità: specchi di acque tranquille o fiumi impetuosi. Solo così il tempo che separa i posteri o lo storico dalle generazioni precedenti apparirà come il luogo delle promesse non mantenute: promesse che possono essere risvegliate e rianimate. Questo non è più solo il compito dello storico di professione ma degli educatori pubblici cui dovrebbero appartenere gli uomini politici4. Un esempio in tal senso è dato dal discorso alla Costituente del 1947, tenuto da Piero Calamandrei: “Se noi siamo qui a parlare liberamente è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia […] A noi è rimasto il compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare […] il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore”.
Il destino riservato al passato è quindi diverso a seconda che sia reinserito nel movimento dialettico della temporalità (passato, presente, futuro), o che ne venga separato, poiché la Storia non obbliga mai nessuno. Nel presente e nel passato parlano le mille voci delle differenze, del conflitto e dell’antagonismo. Sapere che anche il passato può essere agito per un altro presente e per costruire e pensare un’altra storia, significa possedere la coscienza storica che il passato non è separato dal futuro, dove l’aggettivo “storica” non qualifica la disciplina ma il carattere di storicità della condizione umana, proprio ciò che la mondializzazione vuole eliminare. Bisogna così soffermarsi sulla natura del ‘presente’ nell’architettura della mondializzazione.

3 - La sacralizzazione del presente

La mondializzazione rivitalizza il mito del capitalismo come natura e i soggetti sociali tornano così ad essere legati al destino. In questo modo ha già escluso che possa esservi qualcosa al di fuori del Mercato, che - come il Dio di Spinoza - è causa immanente e non transitiva del mondo, ossia il mercato agisce in sé dal momento che “nulla è fuori di lui” e il mondo così discende dalla natura stessa del mercato. Questo ritorno del mito rimodella le relazioni personali e pubbliche e ridefinisce lo spazio e il tempo dell’individuo e della società.

Non è un caso che si giudica il crollo del Muro e del Comunismo come l’avvento del regno della libertà, poiché l’irriducibile pluralità del mondo sarebbe stata soffocata tragicamente dalle grandi illusioni del ventesimo secolo: la storia può finalmente riprendere il suo corso, può far valere i suoi diritti adempiendo il suo compito della riduzione del mondo all’unità a cui da sempre tendeva. Questa argomentazione, che si potrebbe chiamare del deragliamento della storia dai suoi binari, funziona come una metafisica. La metafisica è la scienza della realtà assoluta, si riferisce a ciò che è, o si considera, primo, universale, assoluto, necessario, eterno: la struttura vera, naturale del “reale”. Ne consegue che non ci dice soltanto come il mondo è, ma rivela anche l’unico modo in cui poteva essere fatto. Dunque l’emancipazione dai canoni delle grandi narrazioni nello stesso tempo impone l’accettazione dell’Unico mondo possibile perché è il compimento della storia intera, e allude ad un Destino perché la storia ha legittimato il presente. Così facendo però siamo ritornati alla ricomposizione unitaria del reale e conseguentemente alla negazione della pluralità da cui si era partiti esaltandola.

Il presente appare come l’esito finale necessario, la meta suprema della Storia che da progressiva si trasforma in finalistica. Abbiamo, per così dire, un creazionismo al suo finale. Il mercato capitalistico, pur con le sue imperfezioni, è il migliore dei mondi possibili, destinato a non essere cambiato fino alla fine dei giorni, per cui agli individui non resta che un comportamento adattivo.

La mondializzazione arriva così ad avere i caratteri dell’escatologia. Mi sembra inquietante che si ritrovino tali caratteri, ma è questa presenza che mi spinge a fare dei transfert analogici. Il termine indica l’insieme delle rappresentazioni che il mito, le religioni, o altre forme di pensiero hanno elaborato come interpretazione del destino ultimo dell’uomo e del mondo. Nell’Antico Testamento le attese escatologiche sono strettamente collegate a quelle di un tempo messianico di ricchezza e di pace per il popolo d’Israele. Nel Cristianesimo i tempi escatologici sono fatti coincidere col ritorno finale di Cristo giudice, che chiuderà la storia terrena. Nell’escatologia ebraico-cristiana l’evento è azione il cui attore è Dio, un attore dunque che trascende il corso degli avvenimenti, in cui tuttavia s’inserisce. Parimenti nell’escatologia della mondializzazione è il Dio-Mercato ad essere attore trascendente che determina il corso degli eventi. Inoltre nell’escatologia presentica l’evento salvifico, come possibilità ultima e autentica dell’esistenza cristiana, avviene nel presente (Bultmann): nella mondializzazione la possibilità ultima e autentica dell’esistenza del soggetto è data nell’immediatezza della fusione nel presente con gli oggetti da possedere.
Ad una concezione dell’escatologia limitata al presente e all’individuo - per la quale ogni istante può diventare, per il credente, l’attimo della salvezza ultima, dove la storia viene consegnata all’irrilevanza rispetto al regno di Dio -, l’escatologia del futuro ultimo (“La teologia della speranza” di Moltmann, che muove dalla lettura e dal confronto con il “principio speranza” di Bloch), partendo dal fatto che nel Nuovo Testamento l’escatologia riguarda la promessa del venire del Regno di Dio dentro la storia degli uomini, integra tutta la realtà umana nella salvezza. Quest’ultima non può quindi ridursi all’individuo soltanto ma è salvezza di questo mondo nella sua concretezza storica. Una tale teologia della storia non può restare pura teologia e sfocia obbligatoriamente nella prassi e nella lotta per la trasformazione della storia e del mondo nel regno di Dio. La teologia della speranza non resta quindi circoscritta ad una visione dottrinale della storia, ma guida e sostiene l’azione di trasformazione del mondo. Rispetto a questa escatologia che - pur nel concetto dell’unità della storia attraverso Dio - toglie ad ogni ingiustizia, sofferenza il carattere di destino e ne rende possibile e imperativo il superamento attivo, il mercato afferma al contrario il destino e la fatalità del dolore e delle ingiustizie.
In ogni modo appare evidente che l’escatologia del mercato non ha bisogno del tempo messianico della parusia, perché il Mercato è la parusia e il suo avvento coincide con la fine della storia, il suo presente sacralizzato è la rivelazione di tutto il tempo futuro. Il concetto di tempo di Leibniz “l’intero mondo futuro è insito e perfettamente prefigurato in quello presente”, rispecchia perfettamente il concetto di tempo nell’era della mondializzazione. Si ha un tempo puro dove non c’è più attività trasformativa. Il tempo assoluto scorre uniformemente in sé e per sua natura senza relazioni ad alcunché di esterno, è presente ovunque ed esistendo sempre e ovunque, fonda la continuità temporale e spaziale: il futuro è solo coazione a ripetere.
Mentre la globalizzazione – concezione del mondo e non solo forma economica della rivoluzione conservatrice - come processo storico e come scelta razionale, mira ad occultare questa sua origine per presentarsi come oggettività naturale e quindi immediatamente universale, colloca l'essere umano in un'abolizione del tempo, a vantaggio di un presente eternizzato, autoreferenziale, narcisistico. Quello che chiamerei il ‘presentecentrismo – operazione con la quale la mondializzazione isola e chiude il sistema mondo - porta a considerare il passato inessenziale e il futuro inesistente. Il mercato finanziario rende bene l'immagine del tempo schiacciato sul presente. Le transizioni 24 ore su 24 - che non tengono conto di nessun tempo biologico - realizzano l'eternità funzionale e l'anticipazione della finanza non è un progetto, ma tentativo di adeguare il futuro alle attese del presente: il nuovo, l’inatteso è un rischio.

Per vivere felicemente il presente occorre dimenticare i sogni di liberazione del passato. Si deve impedire qualsiasi apertura al futuro che non sia il ripetersi del ciclo chiuso produzione-consumo. Si deve negare la polisemia della memoria e la polisemia del poter-essere (polisemia del futuro), in quanto rappresentazione dei possibili difficilmente sopportabile poiché nega l’esistenza di un solo centro. Il soggetto deve diventare passivo ai valori eteronomi del mercato, alla vita che gli è imposta, “libero signore nel proprio deserto”, merce autonoma e sovrano sulla propria reificazione (soggetto-cliente), spinto a trovare significato, senso e valore nella reificazione stessa. Come produrre e mantenere allora, nel tempo, questa frammentazione e fornirle contemporaneamente un senso?

4 - Il desiderio nell'era globale

Il desiderio va indirizzato nei giusti alvei. L’epoca della globalizzazione è innanzi tutto l'incorporazione dei desideri nel sistema economico (Barcellona) attraverso i consumi. È attraverso l’integrazione dei soggetti nei consumi che i singoli sono innalzati all’universale. Cavallari nel 1995, sul Corriere della Sera scriveva: "La sinistra può solo ammutolire, arrendersi, sparire, togliere il disturbo. La sinistra non ha nessun spazio politico e culturale nelle società di massa globali, dominate da una middle class universale che non chiede futuro, valori, trasformazioni di sistema, ma solo consumi, benessere, denaro, vacanza". Questa tesi sulla classe media come classe e soggetto universale, configura un soggetto collettivo capace - con la sua prassi consumistica - di spazzare via ogni altro soggetto sociale, a trascendere tutte le differenze degli individui concreti, e su questo cardine unificare l’intero genere umano. L'uomo-presente si vive più come appartenente all’ethnos dei consumatori che ad una polis.

Questa centralità dei consumi è la “buona novella” della globalizzazione il cui destinatario è il soggetto desiderante globale di sempre nuovi oggetti. Riducendo la felicità al benessere materiale e il benessere al Pil, l’economia universale trasforma la ricchezza plurale della vita in una lotta per l’accaparramento di prodotti. Scopo di tutto questo, è bene ribadirlo, è quello di proporre un ideale di vita basato sul pensare alla merce per dimenticare di essere merce, e mantenere aperto indefinitamente un perenne dover acquistare. Occorre tuttavia che tale “precorrimento” all’acquisto sia attivato continuamente. Ciò è possibile perché vi è un fenomeno la cui chiamata - la voce dell’oggetto - risveglia il soggeto-consumatore: la pubblicità è il rilancio del senso sugli oggetti.
Quando l’eterno presente interrompe il legame con il passato; quando il legame sociale s’incrina poiché il contatto emotivo non è con l’altro ma con la cosa, si ha la separazione dal mondo e una chiusura in un Io ipertrofico. L’autoreferenzialità comporta sia l’incapacità di relazione con l’altro sia la perdita della percezione di un tempo esterno – altro da sé - con cui misurarsi. Se si perde la capacità di costruire la propria storia in relazione, se si perde la consapevolezza che l’individuo costruisce un’identità che è certamente individuale ma si forma nel continuo scambio col contesto e con le storie degli altri, non riuscendo più in tal modo a tenere insieme la propria molteplicità e la sequenza degli eventi , allora si è diventati autistici. Il sistema-mondo globalizzato ha il carattere dell’autismo sociale come quadro patologico dell’asocialità.

5 – L’antidoto

La storia non indica il cammino in avanti, mostra solo la via che abbiamo percorso. Benjamin descrive un acquerello di Klee5 - portato sempre con sé - che rappresenta l’angelo della storia:

“C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo […] L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato [...] Vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta, che si è impigliata nelle sue ali, spira dal paradiso, ed è così forte che non può più richiuderle. […] Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.
La “tempesta”, la rivoluzione interrompe il “sempreuguale” della storia. Il materialismo positivistico che si è piegato allo storicismo, con la sua concezione evolutivo-finalistica della storia, configura il progresso come immagine a-problematica di uno sviluppo lineare e infinito, dove non ci sono rotture, salti, rivoluzioni. Questo progresso, dal ritmo “sempre uguale”, con cui uomini ed epoche si inseriscono nella coazione a ripetere, segna l’affermazione del capitalismo. La Rivoluzione rappresenta l’antidoto alla barbarie, per compiere il balzo dialettico sotto il libero cielo delle storie. Occorre interrompere il ‘destino’ truccato da progresso scorgendo nel passato l’esperienza utopica come fermento del futuro. Il vuoto progresso riformista non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata, cioè felice. Il capitalismo infatti non si manifesta solo attraverso lo sfruttamento e la repressione, ma anche attraverso una vita che non si realizza. Così, accanto al benessere materiale e alla libertà, va rivendicata la felicità, e la felicità diviene categoria politica.

1) L’articolo è una versione ridotta e rivista della relazione tenuta al Convegno Cesp-Cobas su “Revisionismo storico e uso politico della storia”.
2) P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, 2003.

3) R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, 1986.

4) P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, 2004.

5) Si trova nelle Tesi di filosofia della storia, scritte poco prima di morire nel 1940.

giugno 2005