Tutti i concetti politici sono concetti storici: nascono in determinate situazioni storiche e geografiche e rispondono a problemi determinati.
Si pensi ad esempio al concetto di Stato: benché studiosi ottocenteschi e novecenteschi abbiano usato questo concetto come una grandezza eterna, ideale, gli storici delle istituzioni hanno oggi ampiamente dimostrato come ciò che noi chiamiamo "Stato" non sia affatto una realtà perenne, ma "una" determinata forma storica di organizzazione della vita politica che si è realizzata in Occidente a partire dalla fine del Medioevo. Questo pone evidentemente dei problemi per chi voglia utilizzare questo concetto per descrivere realtà politiche diverse da queste (si pensi a quelle di altri continenti) o, su di un altro versante, per chi voglia pensare che la fine dello Stato sia di per sé la fine della politica.
In secondo luogo, occorre tenere presente che i concetti politici sono sempre anche dei concetti pratici, ossia non nascono mai solamente come concetti teorici per descrivere una determinata situazione, ma nascono anche come strumenti di azione politica. Servono cioè per affermare una determinata visione della realtà politica: così è stato per il concetto di "nazione" o, per restare a noi più vicini, per quello di "euregio". Sono concetti che non vogliono solo indicare qualcosa, ma anche contrapporsi a qualcosa e affermare qualcos’altro perché la scena dei concetti politici non è mai solo una scena di scienziati politici preoccupati di capire, ma è sempre anche una scena di attori politici preoccupati di acquisire o conservare posizioni di potere. Ciò ovviamente non significa che i concetti politici per quanto storici non possano consentire dei raffronti e l’individuazione di forme ideali, né che tali concetti siano del tutto riducibili alla loro strumentalità. Al contrario, possiamo affermare che i concetti politici rimandano costantemente a valori in qualche modo che cercano di sottrarsi alla storicità, e non sono mai del tutto manipolabili da chi ne fa uso. Stat nominis umbra, si potrebbe dire. Capita spesso nella storia che chi evoca attraverso un concetto politico una determinata realtà (si pensi al mito della nazione o della razza), finisca poi per venirne travolto, come se la forza del nome evocato travolgesse colui che la pronuncia, incauto apprendista stregone.
Dallo Stato territoriale chiuso ai "grandi spazi"
Nel panorama attuale è andato in crisi il concetto di "sovranità" per una duplice spinta, come si suol dire, proveniente dall’alto e dal basso: dall’alto per l’emergere di poteri sovranazionali in campo economico, militare, comunicativo; dal basso per l’insorgere di localismi o di altre forme associative. Così anche il senso dell’identità nazionale appare oggi assai più debole che in passato, in parte per un indebolirsi in genere delle identità collettive di gruppo dovuto ai processi di integrazione economica e sociale, in parte per il venir meno della capacità di catalizzazione della stessa idea di "nazione". L’elemento del "territorio chiuso" è poi definitivamente tramontato da quando allo spazio terrestre e marittimo si è affiancato lo spazio aereo che può essere solcato da mezzi di trasporto, attraversato da mezzi di comunicazione e informazione capaci di infrangere ogni barriera. Infine è tramontato lo spazio del jus publicum europeum, fondato sulla distinzione tra spazio europeo e altri paesi, nel momento in cui nel novero delle grandi potenze sono entrati Stati extraeuropei come gli Stati Uniti e poi il Giappone.
Secondo l’interpretazione di Carl Schmitt, l’ingresso degli Stati Uniti nella cerchia delle grandi potenze ha portato ad una nuova linea di demarcazione del mondo che è la linea che divide l’Occidente dall’Oriente. Questa linea di demarcazione divide il mondo non più in spazi statali, ma in spazi più ampi che Schmitt ha definito "grandi spazi", intesi come sfere di egemonia di una potenza su di un territorio che vede la presenza di più Stati. La prima formulazione di questa dottrina dei "grandi spazi" si troverebbe nella dottrina di Monroe, il presidente americano che nel 1823 affermò il principio secondo il quale gli Stati europei non potevano intervenire nello spazio americano, affermando implicitamente che tale spazio era zona di influenza degli Stati Uniti.
Si ha qui un superamento del rapporto tradizionale tra Stato nazionale e colonia perché in questo caso viene riconosciuta l’esistenza di altri Stati con una loro indipendenza, ma li si considera come gravitanti in un’area di interesse della potenza maggiore. Questa linea di demarcazione tende a sostituire il concetto di Occidente a quello di Europa considerato ormai superato. Il concetto di Occidente ha una fortissima valenza simbolica perché affonda le sue radici in un’antichissima contrapposizione con l’Oriente che le civiltà che oggi chiamiamo occidentali hanno conosciuto fin dall’inizio: si pensi al rapporto tra Greci e Persiani, poi tra Romani e popoli barbari provenienti da Est, infine tra cristiani e arabi o turchi.
Nell’immaginario dell’uomo moderno europeo, il mondo orientale rappresentava il mondo del dispotismo, dell’illibertà, della negazione dell’individuo. Per questo tante letture della Rivoluzione sovietica sono state condizionate da queste immagini: ciò che faceva paura ed era rifiutato era certamente il comunismo (peraltro un’ideologia nata in Occidente), ma era anche questo regime "orientale" di autoritarismo, di uomo-massa o di uomo-formica, che si sposava con la tecnica occidentale e sfidava minacciosamente il mondo considerato "civile". Rispetto a questa linea di demarcazione Est-Ovest che si afferma con la fine della Prima guerra mondiale (fine degli Imperi Centrali, Rivoluzione russa, ingresso degli Stati Uniti d’America), la politica tedesca cercherà di costruire un proprio "grande spazio" in opposizione allo spazio anglosassone-occidentale e a quello russo-orientale dall’altra. La Seconda guerra mondiale sancisce nuovamente la divisione del mondo secondo la linea Est-Ovest, una linea che passerà simbolicamente attraverso la città di Berlino. Il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo rimescolano nuovamente le carte, ma la demarcazione Oriente-Occidente sembra ancora resistere riempiendosi di nuovi contenuti legati alle sfide economiche e ai diversi modelli di sviluppo secondo la nota interpretazione di Ralph Dahrendorf.
In questa nuova situazione assistiamo a un nuovo tentativo di creazione di un "grande spazio" europeo basato soprattutto sull’alleanza franco-tedesca. È presto per dire se la crisi dello Stato nazionale lascerà definitivamente il posto al "grande spazio" anche se ormai in molti settori della vita economica e culturale ciò è già avvenuto. Vi sono però anche resistenze che tendono a difendere con forza gli spazi nazionali da un’integrazione che ne segni la scomparsa o l’inglobamento indifferenziato. In ogni caso l’unità politica di riferimento, ossia lo Stato nazionale, appare scosso profondamente nelle sue fondamenta.