La bruttezza del presente ha valore retroattivo.
Karl Kraus |
Al punto in cui siamo in Irak l’opera barbara dei Signori della guerra pare aver raggiunto un punto di non ritorno. Un punto di non ritorno che non è solo prodotto diretto del fuoco (nemico anche quando ipocritamente “amico”), ma essenzialmente di una volontà distruttiva, che nel Paese “guerreggiante” per eccellenza, gli Stati Uniti d’America, emerge drammaticamente nell’orrore del loro medesimo vissuto quotidiano. La sedia elettrica perennemente accesa, lo studente che spara a scuola all'impazzata sui propri compagni, la bambina di cinque anni ammanettata in classe, l’uso quotidiano delle armi riconosciuto dalla legge, non sono che procedure preparatorie e introduttive alla macelleria irachena, con le sue innumerevoli Abu Graib, considerate con indulgenza le “ragazzate” (una volta si sarebbe detto “americanate”) di alcune mele marce che nessuna autorità si sogna di condannare.
Già Spengler parlava, a proposito dell’esemplare umano egocentrico e iperindividualista predominante nella nostra società, di «tipo del moderno cavernicolo», pur non conoscendo affatto gli attuali reggitori del disordine mondiale.1 Nella visione riduttiva dell’esistenza mercificata tipica del tardo-capitalismo torna prepotentemente in auge tale “moderno cavernicolo” seguace di una sorta di estetica della violenza che si manifesta nel “godimento della battaglia” (enjoy your fight) e nel piacere della tortura, che le foto di Abu Graib hanno immortalato nei volti divertiti dei torturatori americani.
A proposito dello scrittore “classico” americano Fenimore Cooper, il grande David Herbert Lawrence evidenziò nel personaggio di Septimus Dodge i caratteri tipici della tracotante “incultura documentaria” che pervadeva di sé la pseudodemocrazia americana in tempi un po’ meno sospetti degli attuali (1920). Scriveva Lawrence: «Septimus è il vero americano che si è fatto tutto da sé, che è stato in Europa e ha visto tutto, compresa la Venere di Milo. “Come, è quella la Venere di Milo?”, e le volta le spalle: l’ha vista, l’ha afferrata come un pesce, se ne torna in America con lei, lasciando l’impurità della statua al Louvre. Un vandalismo tipicamente americano. I Vandali avrebbero dato alla soddisfatta dama un bel colpo di scure e l’avrebbero distrutta; l’insaziabile americano la guarda e dice: “È quella la Venere di Milo? Via…”, e la Venere di Milo se ne rimane come una schiava nuda su cui abbiano sputato.»2
Era ed è tuttora questa la Weltanschauung di chi guarda alle testimonianze della storia altrui come agli inutili residui di un vecchio mondo da cancellare in nome dei mille consumismi distruttivi del presente, segnato fatalmente dal credo invadente dei loghi a stelle e strisce. Accade a coloro che procedono con la mannaia a dividere l’umanità dolente in buoni e cattivi e fare della complessità geopolitica un ripugnante elenco di paesi del Bene e paesi del Male, di considerare “le differenze effettive o immaginarie come macchie ignominiose, che dimostrano che non si è ancora andati abbastanza avanti”.3 La qual cosa ci fa comprendere in tutta la sua portata fenomeni come quelli di Guantanamo, Abu Graib e simili, i quali, riportando in superficie i famigerati campi nazisti di più recente memoria, rinnovano in noi i concetti della riflessione filosofica, già acquisiti nella coscienza pubblica, elaborati sui fini e sui mezzi dell’oppressione politica, vuoi del totalitarismo vuoi dell’imperialismo. Vale la pena ricordare in termini chiari quel che Adorno scriveva nel 1945: «La tecnica dei campi di concentramento tende ad assimilare i prigionieri ai loro custodi, a trasformare gli assassinati in assassini. La differenza razziale viene assolutizzata perché sia possibile procedere alla sua assoluta eliminazione, sia pure a costo di non lasciar sopravvivere nulla di diverso.»4
Succede che una delle colpe maggiori dell’Irak, come di tutti gli altri paesi che fanno parte dell’Asse del Male, è di non avere i casamenti delle sue città sgorbiati da affissioni pubblicitarie. In questi luoghi permane purtroppo, ancora intatta, la sconvenienza architettonica delle piccole città medievali, ormai esteticamente inconcepibili per l’essere malato, atomizzato e senz’anima che popola le moderne metropoli occidentali, nelle quali gli « individui sono ormai solo apparentemente persone, e obbediscono in realtà a un apparato che in ogni situazione lascia loro un’unica reazione possibile. La loro vita autonoma non dispone più della possibilità di espressione adeguata, esiste più soltanto, umiliata e sbalordita, trascinando la sua povertà in una specie di preistoria.» 5
A felice coronamento della storia barbarica che stiamo vivendo, bisogna rammentare che subito dopo la presa di Baghdad da parte delle forze di occupazione americane (10 aprile 2003), veniva saccheggiato il Museo archeologico, testimonianza della cultura millenaria dell’Iraq. Saccheggio cui seguirono, dopo poco, gli incendi della Biblioteca nazionale e degli archivi di Stato. Nulla di meglio come avvio di “esportazione della democrazia” che cancellare la storia dei luoghi di antichissime civiltà, prima di passare all’eliminazione di chi poveramente li abita. Vecchi rapporti dicono che dai musei dell’Irak dal 1991 in poi sono scomparsi oltre 4.000 oggetti archeologici. Dopo l’invasione anglo-americana solo nel Museo nazionale di Baghdad, dei 170.000 reperti catalogati prima della guerra, ne sarebbero stati sottratti ben 14.000. Secondo stime più attendibili, attualmente sono più di 100.000 i pezzi sottratti al paese e che sono in circolazione in tutto il mondo ricco. Scrive Philippe Baqué: «il saccheggio dei beni culturali è valutato fra i 2 e i 4,5 miliardi di euro, una cifra non lontana dal traffico d’armi e quello della droga, di cui riproduce le ineguaglianze dominanti, prosciugando le ricchezze dei paesi del Sud per abbellire le gallerie e le collezioni dei paesi del Nord.» 6
Che impressione avremmo noi se truppe di un esercito straniero decidessero di sistemarsi, per le loro azioni belliche, in un paio di castelli della Loira, nell’interno del Colosseo o nel bel mezzo del Campo dei Miracoli a Siena? Ipotesi del tutto improbabile, direste voi! Eppure questo e molto di più avviene in Irak da parte delle truppe di occupazione americane. Come informa, infatti, Karima Isd: «È abbastanza sconcertante, in tempi moderni, che truppe di soldati si accampino in castelli plurisecolari, usandoli come basi e facendone alla fine crollare i muri. In Irak, a Samarra, è successo, tanto che i funzionari delle antichità irachene hanno protestato aspramente chiedendo un risarcimento per i danni. Ma sempre a Samarra, la città sul Tigri a nord di Baghdad, molto attiva nella resistenza e per questo più volte attaccata, è stato danneggiato uno dei simboli più amati e preziosi della storia irachena: la torre-minareto Malwyia, alta 52 metri, dall’originalissima costruzione a spirale, fatta erigere nell’852 dal Califfo al-Mutawakil quando Samarra era la capitale dell’impero Abasside.» 7 Ma cosa ne può sapere Rumsfeld dell’impero Abasside? Lui conosce solo l’impero del “bene” a stelle e strisce. E chiedete all’imperatore Bush se oltre la Bibbia, che conosce a modo suo, sa qualcosa di quella Bibbia della fantasia d’Oriente che sono “Le mille e una notte”. Sarebbe come chiedere al nostro premier di parlarci della concezione filosofica di Platone o illustrarci la logica trascendentale di Kant. Scrive Karima Isd che: «La sommità della torre-minareto è stata colpita alla fine di marzo da un ordigno e diversi mattoni sbriciolati sono finiti sulle sottostanti spettacolari rampe a spirale. Ma l’attacco da parte di ignoti non sarebbe avvenuto se fino a pochi giorni prima gli americani non avessero usato il prezioso sito storico come nido per il cecchinaggio e punto di controllo della regione sottostante.» 8
Le cronache raccontano che dopo gli innumerevoli saccheggi nei vari musei archeologici iracheni, moltissimi reperti sono ora reperibili sul mercato nero. Si possono infatti acquistare in varie case d’aste a Zurigo, Londra, New York, Parigi e sono in bella mostra persino su alcuni siti Internet. I militari americani non solo hanno permesso i saccheggi dei musei, ma poi alcuni di loro hanno acquistato per pochi dollari dalla popolazione stremata oggetti preziosi, lasciando che prosperasse un business da migliaia di dollari. E va segnalato un tipico atteggiamento dell’amministrazione americana anche riguardo questo particolare aspetto di saccheggio. Proprio negli Stati Uniti, poche settimane prima dell’attacco contro l’Irak, a intervento già deciso quindi, sono state stabilite norme meno severe contro chi avrebbe commerciato in reperti archeologici provenienti dal vicino Oriente. Inoltre, nel novembre 2002, più di 150 paesi presso l’Unesco avevano sottoscritto l’impegno a non considerare come bottino di guerra beni artistici e archeologici. Sarà un caso, ma tra i paesi firmatari non figurano né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna. Tra l’altro, non va trascurato il fatto che un’organizzazione culturale mondiale come l’Unesco è totalmente in mano agli americani, i quali, pur non pagando da anni la loro quota, prendono da soli decisioni importanti che riguardano tutti.
Nel 2001, John Russel, esperto archeologo, docente al Massachusetts College of Art di Boston, parlava del «saccheggio definitivo di Ninive» dopo lo smantellamento di numerosi bassorilievi di Sennacherib. Il Russel stima che fra le “vittime” dell’invasione prima e dell’occupazione poi, vi siano oltre 150 siti sumeri, e che da 400.000 a 600.000 reperti abbiano lasciato il paese in questi due anni. Si pensa che la maggior parte siano al sicuro in depositi per tenere alto il prezzo di mercato. Nel luglio 2003, l’archeologa e giornalista Joanne Farchakh constatava che: «Jokha, la favolosa città sumera di Umma, riportata alla luce appena quattro anni fa, somiglia attualmente a un campo di battaglia.» Anche secondo l’archeologo americano Gibson McGuire, la maggior parte dei siti storici dell’Irak del sud continua a subire devastazioni. I soldati americani, che avrebbero dovuto proteggere ufficialmente i luoghi, intervenivano quando ormai i saccheggiatori avevano fatto man bassa a loro piacimento dei bassorilievi di Hatra e di Nimrud e avevano completamente finito di distruggere quelli di Ninive. 9 Molti di questi siti storici erano già stati colpiti a morte durante i dieci anni di embargo in seguito ai bombardamenti nelle “no fly zones”. I più toccati sono stati i grandi siti del sud, quelli vicini a Bassora, come Urk, Uruk e Lagash, località da cui è scaturita la storia biblica. Qui, inoltre, come pochi americani sanno, tanto meno le milizie di Rumsfeld, è nata la civiltà Occidentale, qui si sono formate le prime realtà urbane e le prime forme di stato democratiche; qui è nata la scrittura; qui si sono originate le tre grandi religioni monoteiste: proprio da Ur sarebbe partito il patriarca Abramo nel suo lungo cammino che l’avrebbe portato nella terra di Canaan, l’attuale Israele. Qui le truppe imperiali di Bush stanno uccidendo con la loro guerra di rapina, insieme alla popolazione civile, 7.000 anni di patrimonio artistico e archeologico di rilevanza mondiale.
Membri dell’American Council for Cultural Policy, gruppo di pressione costituito dai massimi collezionisti americani (che, come dicevamo, si sono incontrati con alti responsabili del Pentagono e del Dipartimento di Stato il 24 gennaio 2003, pochi giorni prima dell’inizio dell’invasione) avrebbero negoziato una maggiore flessibilità nell’applicare le leggi a tutela dell’esportazione delle antichità irachene. Fortunatamente, il 22 maggio successivo (e cioè dopo le razzie al Museo di Baghdad), il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato una risoluzione straordinaria che impone a tutti gli stati di restituire gli oggetti trafugati in Iraq a partire dal 1990 e di vietarne il commercio. E vi è, per di più, un protocollo aggiuntivo alla Convenzione dell’Aia, che vieta espressamente l’esportazione dei beni culturali da un territorio occupato e ne impone la loro restituzione. A tutt’oggi, questi testi sono stati ratificati da centocinquanta paesi, ma tra i sottoscrittori mancano, come al solito, le firme del governo degli Stati Uniti e di quello della Gran Bretagna.10
Si diceva dei castelli della Loira e del Colosseo. Ogni paese ha i suoi simboli culturali che parlano della storia dei luoghi e la cui distruzione equivarrebbe a dare un colpo di spugna alla memoria tanto da mettere a rischio la loro stessa identità. Da numerose testimonianze si ricava ormai che è proprio ciò che vogliono fare gli americani in Irak. Naturalmente è questo il primo passo verso l’assoggettamento, l’altro è quello che va in direzione della perdita di differenziazione culturale. A ciò mirano i testi di storia riscritti in inglese, i video pubblicati dalla Casa Bianca, le Tv finanziate coi dollari americani, a ciò mira la distruzione delle testimonianze storiche. Si tratta di portare tutti indistintamente nella pseudocultura hollywoodiana, quella della disneyland patatine-e-coca-cola, del culto della pistola e del macchinone succhiabenzina, alla faccia di tutti i protocolli di Kyoto.
Un altro monumento simbolo gravemente danneggiato dalle guerre mosse all’Irak è il famoso Arco di Ctesifonte, una porta alta trenta metri di un palazzo di epoca sassanide, unico esempio al mondo di un’alta volta di mattoni che si sostiene senza alcun rinforzo. Durante la Seconda guerra mondiale alle truppe britanniche fu ingiunto di non colpire assolutamente quell’Arco. Invece, i bombardamenti statunitensi del 1991 lo danneggiarono. Negli ultimi tempi lo stato del monumento sembra essersi ulteriormente deteriorato, tanto che i militari che lo occupano pensano che perfino le onde d’urto degli spari potrebbero farlo cadere. L’Unesco ha proposto un piano di stabilizzazione dell’opera e dell’intero sito, ma le operazioni di guerra americane impediscono l’intervento di recupero prima che sia troppo tardi.11
I danni e i saccheggi avvenuti in questi anni sono quindi responsabilità diretta o indiretta delle truppe della coalizione anglo-americana. Secondo un rapporto preparato dal British Museum, un pavimento di 2.600 anni è stato sbriciolato dal passaggio dei carri armati e frammenti archeologici sono stati dispersi qua e là. Le latrine per i militari sono state piazzate su siti non ancora scavati dai ricercatori, e i luoghi occupati sono stati coperti da ghiaia di riporto mentre diversi punti risultano contaminati da combustibile.12
Le proteste degli archeologi, sia iracheni che internazionali, sono partite subito dopo l’arrivo in zona dei militari statunitensi, ma invano, dal momento che dall’orecchio culturale costoro non ci sentono, accecati come sono unicamente da un gusto patologico per l’oro nero. C’è da ricordare, infine, il sito dell’antica città di Babilonia (1750 a.C.). Stabilito il divieto di accesso agli archeologi, è tuttora utilizzato dalle forze statunitensi come base e deposito militare. Duemila uomini armati presenti nel cuore delle rovine di quella che fu la New York dell’antichità. Ma forse questo paragone è alquanto irriverente nei confronti della città di Nabucodonosor.
Fra tanta mancanza di rispetto per le testimonianze storiche altrui, come si fa a non ammettere tristemente che per quel che riguarda il ricco Occidente: «I comportamenti preistorici, su cui la civiltà aveva posto un veto, hanno condotto un’esistenza sotterranea, trasformandosi, sotto il marchio della bestialità, in comportamenti distruttivi.»?13 La distruzione totale della città santa di Falluja sta lì a confermarlo14, e va preso atto, anche alla luce del caso dell’agente dei servizi segreti italiani ucciso da militari a dir poco “stressati”, che i condottieri imperiali fautori delle guerre preventive sono profondamente malati. Avviene, infatti, che: “La loro debolezza li ha condotti in una situazione che ha già intaccato il corpo e lo spirito e li intacca sempre di più. La loro azione è ottusa, egoista, immediatamente distruttiva. E come i malati non sanno parlare che della propria malattia.”15 Ovverosia di quel tarlo assillante da guerra preventiva che li pervade. E ciò in quanto «Il carattere distruttivo non vede niente di durevole. Ma proprio per questo vede dappertutto delle vie. Ma poiché vede dappertutto una via, deve anche dappertutto sgombrare la strada. Non sempre con cruda violenza, talvolta anche con violenza raffinata. […] Il carattere distruttivo non vive per il sentimento che la vita merita d’essere vissuta, ma perché non vale la pena di suicidarsi.»16 E sta forse nell’incapacità anche di questa rinuncia alla morte la radice del suo male.
1) Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Milano, 1957, p. 815.
2) D.H. Lawrence, Classici americani, a cura di Attilio Bertolucci, Bompiani, Milano 1948, p. 49. Continuando nella sua analisi socio-letteraria del personaggio, Lawrence aggiunge che «Septimus, da buon democratico, si sente pari a qualsiasi altro uomo, ma siccome ha le tasche piene di dollari, si sente anche di gran lunga superiore ai democratici con le tasche vuote. E infatti, se pure siamo tutti nati uguali e uguali moriremo, pure non troverai nessuno che ammetta che dieci dollari sono uguali a diecimila dollari.» Ibidem, p. 51.
3) T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p. 114.
4) Ibidem, p. 114.
5) M. Horkheimer, Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino 1966, p. 121.
6) In “Le Monde diplomatique”, gennaio 2005, p.20.
7) K. Isd, Irak: tesori della storia in briciole, in il manifesto 9 aprile 2005.
8) Ivi
9) Le Monde diplomatique, gennaio 2005, cit. .
10) Cfr. il sito: www.unesco.org/culture/laws.
11) Cfr. al sito: www.irakwar.mirror-world.ru.
12) Ivi.
13) M- Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p.103.
14) Fonti attendibili riferiscono che nella presa e distruzione di Falluja, l’esercito Usa ha fatto ricorso a gas nervino, iprite e napalm, e ciò dopo quattro mesi di intensi bombardamenti con aerei e elicotteri da combattimento prima di scatenare l’offensiva definitiva con carri armati e 10 mila marines. Le stesse fonti parlano di circa un terzo di morti su un totale di 300 mila abitanti. Ciò che fa di Falluja il corrispettivo iracheno della distruzione nazista di una Coventry, una Dresda e una Guernica messe insieme.
15) Ivi
16) W. Benjamin, Il carattere distruttivo, in F. Rella, Critica e storia, Cluva Ed., Venezia 1980. |
giugno 2005 |