Dell’arte inattuale di Carmelo Bene
di Massimo M. Memola

A tre anni dalla morte di Carmelo Bene, il teatro è ritornato nei confini rassicuranti della rappresentazione e l’opera di questo artista geniale e scomodo - nietzschianamente inattuale- sembra dimenticata, sia dai mass media che dalla cultura ufficiale; come già accadde dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, questa è la loro rivincita nei confronti di chi destabilizza le certezze del potere.
Depennare la sua opera è la rivalsa dei critici e teatranti odierni, ma c’è il suo materiale filmico, audio e video, ci sono i suoi scritti, che permettono di superare la fragilità effimera del teatro e di mantenere vivo il ricordo di questo unico, irripetibile e solitario pettinatore di comete, come lo definì J. P. Manganaro.
Carmelo Bene ha attraversato il teatro occidentale, lasciando di sé un’impronta profonda e unica, che non si deve dimenticare.

Quando, negli ultimi anni della sua vita, Bene parlava di una Fondazione che non divenisse un museo di se stesso e non si limitasse a celebrare la sua memoria, ma fosse un laboratorio di alta cultura che portasse avanti la sua ricerca, egli individuava nel Sud del Sud, Otranto e il Salento, il non-luogo dove tale Fondazione dovesse aver sede, proprio perché decentrato e lontano da quel centro della storia che è Roma. Il compito di “ conservazione, divulgazione e promozione nazionale ed estera dell’opera totale di Carmelo Bene” è portato avanti dalla Fondazione L’Immemoriale, istituita nel 2002, che ha organizzato in Europa importanti manifestazioni; ma il disinteresse dell’Amministrazione regionale guidata da Fitto e le opportunità fornite dalla giunta Veltroni hanno spinto tale Fondazione a spostare la propria sede da Otranto a Roma, sollevando fortissime polemiche da parte della sorella di Carmelo Bene, Maria Luisa, che minaccia l’istituzione di un’altra Fondazione, mentre il nuovo presidente della Regione, Nichi Vendola si è impegnato a risolvere questa situazione, affinché L’Immemoriale abbia un ruolo centrale nel panorama culturale pugliese.

Se non fosse per tali polemiche, oggi il silenzio da parte dei mass media, che è quasi totale sulla sua opera, lo sarebbe anche sul suo nome. Carmelo Bene divenne noto al grosso pubblico –quello televisivo- a metà degli anni settanta non tanto, forse, per il bellissimo Bene! Quattro diversi modi di morire in versi: Majakovskij-Blok-Esènin-Pasternak (1974), quanto per le sue accese polemiche contro i critici e i mostri sacri del teatro italiano (Strehler e Gassman, innanzitutto); le sue urla, nei confronti della banalità culturale di chi lo intervistava, rompevano lo schermo e gli schemi del perbenismo ipocrita televisivo di quegli anni; esse verranno purtroppo imitate successivamente da molti altri (Vittorio Sgarbi o Aldo Busi nel suo scontro verbal-televisivo con il più introverso Dario Bellezza) sino a degenerare negli schiamazzi dei talk-show odierni. Quelle urla avevano ben altro spessore provocatorio, che non l’arrivismo massmediatico degli allor giovani intellettuali, desiderosi di notorietà e audience, o di qualche politicante (leghista).

Purtroppo la passività televisiva e la pigrizia critica spingono il telespettatore ad identificarsi facilmente o con chi sorride o con chi grida; nel caso di Carmelo Bene, invece, le sue caustiche invettive contro tutto e tutti, ai più apparivano presuntuose ed arroganti, soprattutto perché incomprensibili, ma in realtà erano radicalmente trasgressive nei confronti del potere; meglio difendersi rifiutandole e preferendo i più rassicuranti Gassman o Strehler. Se anche questi ultimi, oggi, sembrano dimenticati, questo dipende dal fatto che la loro “lezione teatrale” si è svolta all’interno della Storia e non, come quella di Carmelo, contro e oltre la Storia; contro il potere non solo della Storia e della politica, ma di tutto ciò che è immobile, invariabile, istituzionalizzato una volta per sempre (sia anche il potere del testo e della parola).
La Storia è potere, la fanno solo coloro che vincono e chi è sconfitto lotta per vincere ed instaurare un’altra forma di potere; questo è il “messaggio” più violento e trasgressivo che Bene abbia lanciato contro lo storicismo, sia di destra che di sinistra; al contrario, continuano Bene-Deleuze1, l’arte è atto minoritario; essa “non è una forma di potere, lo è quando cessa d’essere arte e comincia a diventare demagogia. L’arte è sottomessa a molti poteri, ma non è una forma di potere”…la frontiera non passa tra servo e padrone, ma tra storia ed antistoricismo, tra chi è nella storia e coloro di cui la Storia non tiene conto, quelle minoranze, che numericamente sono, però, la maggioranza.



Uno dei motivi conduttori e dominanti nel suo film più famoso, “Salomè” (1972) è proprio quello del potere, che compare immediatamente già nei titoli di testa.

La prima inquadratura è l'immagine animata della cruna dell'ago, della porta stretta che dà accesso al Regno di Dio, fessura dalla quale tutto ha inizio (non solo la vita, ma anche l'attrazione per la donna e per il denaro).
Seguono altre inquadrature, in cui, ai nomi degli attori principali, si alternano i disegni, ancora animati, della cruna dell'ago, del cammello carico d'oro, di un finto sole dipinto e irradiante una falsa luce (come quella del potere e del denaro), i deretani di cortigiane, rubizzi come gote al vento e dolcemente flagellati da piumini che spandono nell'aria le loro fetide arie di adulatrici (del potere), e la testa pelata del boia, che, davanti ad una luna rossa come "sangue", sgrana gli occhi agitando la sua scimitarra.
Il montaggio, rapidissimo, alterna questi elementi fino a quando il cammello attraversa la cruna con le sue bisacce colme d'oro e strizza l'occhio allo spettatore, ammiccando con le sue enormi e finte sopracciglia da prostituta: i ricchi riescono sempre a cavarsela e a superare anche le prove più difficili; le parole di Cristo ai suoi discepoli (E' più facile che un cammello entri nella cruna dell'ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli, Matteo, cap.19 v.24) sono capovolte ed è svelata e derisa anche la mistificante alleanza, in nome del denaro, tra potere e religione (istituzionalizzata dalla e nella Storia).
Tutto nel film ruota intorno al protagonista; questo Erode/Giovanni Battista, col volto di Cristo, eroe allo stesso tempo uno e bino, carnefice e vittima di se stesso, è immerso in uno spazio funebre dove tutto è ormai avvenuto; l’inizio è già la fine.
Bene/Erode, nel suo lasciarsi agire, sospendendo il tragico, spiazza lo spettatore, straniandosi dalla sua tragica impotenza; la vita, in nome di una impossibile autenticità, è sarcasticamente sbeffeggiata e derisa; a dirigerla è, infatti, il Cristo-Vampiro, l’Anti-Cristo, cioè il Potere, che dall’alto del palazzo di Erode controlla il destino del protagonista.
Questo soggetto, non frantumato in tante schegge, ma scorticato, nel finale, nei sottili strati della sua pelle, è, paradossalmente, animato da uno strano sentire religioso, che demistifica, proprio nei suoi momenti più "blasfemi", la religione del potere e del denaro, ma anche la religione asservita al potere e al denaro.

Che cosa rimane al soggetto che cerca una impossibile autenticità, immerso in un isolamento e in un fallimento senza redenzione? Non il nulla, ma la sua vertigine, il vortice sul baratro, l’urlo prima del silenzio; meglio essere condannati al fallimento che vincere, perché questo vorrebbe dire ricominciare daccapo e accettare l’alleanza dell’Anticristo tra potere e religione in nome del denaro.
In Carmelo Bene quello strano sentire religioso sta nel trasgressivo desiderio di autenticità impossibile e di smascheramento, che animano questo Erode/Battista col volto di Cristo, vittima sacrificale che cerca la verità di sé sotto la maschera della propria pelle e il cui s/velamento è Salomè a compiere nella scena conclusiva non attraverso la danza dei sette veli, ma –ecco la geniale idea del finale “una sorta di decapitazione per grattamento”2- attraverso lo scorticamento dei veli del volto del protagonista, la sua pelle appunto; quello scorticare è infatti il rimuovere i veli che ricoprono, smascherandolo, il proprio volto, oltre il quale non c'è, però, che il vuoto, di fronte alla cui vertigine il protagonista lancia il grido della fine: Comincio ad avere paura!, che è però anche grido di un inizio.


La pelle è il confine del corpo, della sua sensibilità, della sua tattilità, della sua vita, al di là di essa c’è l’Altro e il suo mistero.
Il suo percorso artistico, ricchissimo di spunti teorici, che lo hanno messo in sintonia, tra gli altri, con il pensiero di Klossowski e di Deleuze, si è incontrato anche con la filosofia della differenza di Derrida.
Carmelo Bene nella sua Autobiografia di un ritratto 3 riassume così i nuclei tematici della sua ricerca:
“Che cosa ho fatto?, nelle mie tante vite. Ecco una sintesi(…):
  • squartamento del linguaggio e del senso nella discrittura scenica…
  • disarticolazione del discorso succubo del significante
    togliere di scena (contro la confezione cultuale della “messa in…”)
  • demolizione della finzione scenica…
  • sartoria e scenotecnica-linguaggio
  • rinnovamento radicale del poema sinfonico (s)drammatizzato
    la lettura attoriale come non ricordo del morto orale pre-scritto
  • superamento d’Artaud e della “lingua degli angeli” mistico-espressionista (Blumner)
  • la sospensione del tragico
  • il cinema come immagine acustica
  • neotecnica televisiva, discografica e radiofonia/determinante premessa alla strumentazione fonica amplificata
  • campionatura dei suoni e ri-conversione della voce
  • l’amplificazione a teatro (finalmente)
  • la macchina attoriale (tritalinguaggio-rappresentazione-soggetto-oggetto-Storia).
Dei concetti chiave della teoria/prassi del suo teatro mi soffermerò brevemente soltanto sui seguenti:
La sospensione del tragico, il cinema come immagine acustica, la phonè, la macchina attoriale.

1. La sospensione del tragico non è intesa né brechtianamente, nè pirandellianamente; non si tratta, infatti, né di raccontare in modo straniato il personaggio, né di rappresentarne l’irrappresentabilità sulla scena, come nei Sei personaggi in cerca d’autore; è il rappresentare che con Bene non è più possibile; il corpo è dissociato, l’atto manca l’azione e spesso sono in a-sincrono sia il gesto che la voce; afasia e impedimento, sottolinea Deleuze, sono una costante nell’opera di Bene.
Il tragico viene svuotato della sua apparente forza catartica e la sua finzione svelata sulla scena: “Ferita era la benda e non il braccio”, dirà Bene in Macbeth, nella “situazione” di Duncan.

2. Pensare al cinema come immagine acustica vuol dire pensare“ alla musica come cinema: Non la colonna sonora, ma la musica delle immagini, in questo senso il montaggio mi interessa enormemente: Giro sempre con la musica in testa…detesto la musica applicata al film finito”. In Salomè il montaggio rapidissimo, fatto di brevissime inquadrature-battute-musicali (circa 4500 per 80 minuti di proiezione), dà un vorticoso ritmo alle immagini-note, che formano una partitura di immagini-acustiche, che eccedono e fanno implodere la forma cinematografica e il suo linguaggio. Dal 1968 al 1973 egli farà solo due cortometraggi e cinque film, allontanandosi per sempre dal cinema, “morto, filmato per sempre. Non filmante” e avvicinandosi invece alla televisione, trasformandola da “elettrodomestico”(come lo definiva Eduardo De Filippo) a strumentazione elettronica, macchina audiovisiva.”4


3. La Phonè negli anni ottanta oltre che essere strumentazione fonica amplificata è un modo radicalmente nuovo di disdire il testo; entrare nelle emozioni che sottendono la parola per esprimerle e comunicarle senza più la mediazione dell’io; sono gli anni dei suoi concerti d’attore, in cui (finalmente!) la poesia è dis/detta e non più detta. Abolito l’io, Carmelo Bene abolisce il suo linguaggio referenziale; egli va anche oltre il linguaggio simbolico, “che ha bisogno sempre dell’io per decodificare le sue metafore, e regredisce fino ad esprimere le risonanze più interne del soggetto attraverso il suo diretto linguaggio: la phonè, che non rinvia, non rappresenta, ma è presenza del soggetto… Lo scavo nel testo e dal testo alla parola è radicale; esso è ridotto a spartito musicale, la parola a insieme di suoni che vengono scomposti in grumi sonori, che variano continuamente di altezza e di intensità, fino a creare un significante che non è più decifrabile dall’io; un significante che non è più rinvio a un significato, ma coincide con esso (la forma dell’espressione coincide con il contenuto che esprime); la parola ridotta a suono esprime direttamente la tensione emotiva che celava dentro di sé…”5

4. Dalla purezza della phonè alla macchina attoriale: è l’ultima fase del suo teatro, quella degli anni novanta; non esistono più né personaggi, né attori, ma un corpo attoriale in situazione, inorganico all’io, la cui immagine è non solo vista, ma udita attraverso i suoi gesti. Per macchina attoriale, (tritalinguaggio del teatro tradizionale), Bene intende il corpo dell’attore, che, libero dal controllo razionale dell’io e dal dover essere estetico , cioè dal rappresentare un testo, va oltre il personaggio, oltre il testo stesso, oltre la parola, in un altrove in cui non si dà capolavoro d’arte, ma si è capolavoro; in questo non luogo egli annulla se stesso e diventa assenza;l’attorialità è finalmente estranea al suo prodursi“6. Come ha scritto Giorgio Giacchè, l’esito estremo di questa macchina attoriale è la trance (il depensamento), il visionario è posseduto da immagini e pensieri che non gli appartengono; è una santa nullità, egli non comunica, ma si eleva in presenza o per nostalgia di una visione, egli evidenzia una presenza altra che lo annulla e in cui si annulla7.

Il depensamento del mistico è autoannullamento totale ed assoluto, essere il nulla di sé; la santità come depensamento, come annullamento di sé ha esercitato un fascino particolare su Bene (ad essa ha dedicato uno dei suoi testi più visionari: A Boccaperta, una partitura per il cinema, progetto mai realizzato, sulla vita di San Giuseppe da Copertino), ma l’esperienza mistica è incomunicabile e il santo non ha bisogno di uno spettatore, in quanto si annulla in Dio; il teatro invece (anche quello rarefatto della phonè o della macchina attoriale) si inserisce sempre nell’ordine della comunicazione o della evidenza teatrale, razionale o pre-razionale, logica o analogica che sia.
Come si poneva lo spettatore/ascoltatore non ostile e non prevenuto di fronte agli eventi di Carmelo Bene, che spingevano a mettere in discussione i propri punti di riferimento e ad andare oltre il proprio io e il logos per annullare le proprie categorie razionali e… depensare? Resa impossibile l’immedesimazione con l’artifex, lo spettatore/ascoltatore provava inizialmente disorientamento, poi si creava un rapporto empatico, vuoto di contenuti, ma pieno di emozioni; solo a spettacolo finito subentrava il momento razionale, dal quale è sempre difficile liberarsi, per cercare di capire e rassicurarsi. Ci si trovava allora davanti ad un altro paradosso: pensare il depensamento, servendosi di quegli strumenti logici e razionali che il depensamento rifiutava e annullava; il nulla è al di là del dire, ma non se ne può parlare che usando il logos; d’altronde il teatro è sempre l’esperienza di un dire, anche il depensamento sulla scena è un mostrare, un comunicare o evidenziare a qualcun altro qualcosa di incomunicabile.
La sua è stata senza dubbio tra le più geniali e stimolanti esperienze teatrali del Novecento, che si è conclusa, in fondo prematuramente, a sessantacinque anni; egli non ha voluto lasciare eredi sulla scena, ma ci ha lasciato una eredità che, espropriata al suo attore/autore e fermata nel tempo dai mezzi tecnologici di riproduzione, suo malgrado, da atto/evento è diventata azione, cioè Storia (del teatro); una eredità da cui ripartire o con cui confrontarsi, ma che certamente non si può ignorare.
Non solo, quindi, difendere e diffondere la sua Opera, ma è dalla sua riscrittura del testo, dal suo metodo di lavoro (sul gesto, sul testo, sul rapporto destrutturante tra parola, suono e voce…), dalle sue “partiture” insomma, che bisogna ripartire, affinché si eviti di immobilizzare e imbalsamare, storicizzando suo malgrado, questa esperienza artistica unica e ancora ricchissima di potenzialità creativa.

1) Cfr. G. Deleuze, Un manifesto di meno, in Bene-Deleuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978.
2) E. Ghezzi, Prima di Salomè, in Fuoriorario, Raitre, 21-22 gennaio 1994, in C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 1995, pp. 1543-1547.
3) C. Bene, Opere, cit., pp.XII-XIV.
4) C.G. Saba., Carmelo Bene, Editrice il Castoro, Milano 1999, p.93.
5) M.M. Memola, Tramonto del teatro moderno e nuova drammaturgia, in “Quaderni di Teatro”, n.32, 1986, pp.101-102.
6) C. Bene, Opere, cit., p. XXXVII.
7) P. Giacchè, Carmelo Bene, antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997, p.27.

giugno 2005