Brevi cenni sull’arte confraternale a Molfetta
di Giuliana Tatulli

L’arte confraternale costituisce un capitolo molto interessante, e per nulla marginale, della storia dell’arte, infatti buona parte del patrimonio artistico italiano è di committenza confraternale. Si tratta di un fenomeno che investe tutte le arti, sia quelle cosiddette maggiori, che quelle applicate: un patrimonio costituito da chiese, cappelle, altari, statue, dipinti, paramenti sacri, reliquiarii, statue processionali, gonfaloni e vari oggetti devozionali, di materiali pregiati, ma qualche volta anche poveri, opera di artisti e artigiani di vario livello, Antonello da Messina, Tintoretto, Caravaggio (tanto per citare alcuni nomi), ma anche oscuri personaggi di provincia, secondo l’importanza e la ricchezza della confraternita committente.

Le confraternite rappresentano un’esperienza associativa di primaria importanza a sfondo prettamente religioso e solidaristico comune a tutte le società umane. Le origini dell’associazionismo confraternale sono molto antiche e affondano le radici nell’età medievale (ma anche il mondo antico aveva conosciuto varie forme di associazionismo laicale). In Puglia le prime testimonianze documentarie partono dal XII secolo. Sin dall’inizio l’associazionismo confraternale pare caratterizzato dalla spontaneità e dall’autogestione. Ovviamente sia il potere religioso, che quello politico, hanno sempre cercato di controllare questo fenomeno tentando di limitarne l’autonomia o cercando di controllarne i patrimoni, tuttavia le confraternite, pur con alterne fortune, hanno sempre saputo difendere una certa autonomia. Scopo primario di queste associazioni era la preghiera per il bene spirituale e materiale dei confratelli e in suffragio dei defunti. L’assistenza funebre e il suffragio si riscontrano in tutte le confraternite, infatti la paura della morte che viene esorcizzata con preghiere e messe sembra essere la motivazione più forte che spinge i devoti a diventare confratelli ed attraversa tutti i ceti sociali. Alla cura dei defunti si aggiungono altre incombenze quali l’organizzazione di celebrazioni legate alle festività religiose, e le attività caritatevoli ed assistenziali (cura dell’infanzia abbandonata, dei malati, l’istruzione religiosa) che i confratelli svolgono con la consapevolezza di acquisire meriti per la vita ultraterrena, e che sono la risposte spontanea, quanto necessaria, ai più elementari bisogni della popolazione nell’assenza assoluta di uno stato sociale. All’associazionismo spontaneo si aggiunse poi quello indotto dalle istituzioni religiose, soprattutto dopo il Concilio di Trento. Le confraternite rappresentano nel nostro territorio tutto un mondo che pur nella diversità dei culti seguiti e praticati associa una parte cospicua della popolazione di città, borghi e casali, dando luogo non tanto a confraternite di classe (evoluzione tutto sommato abbastanza recente), ma ad una vera e propria classe a sé, quella dei confratelli.

Dal punto di vista strettamente artistico, le confraternite pugliesi non rappresentano un insieme unitario ed omogeneo, ma offrono un panorama molto variegato, inoltre, pur avendo un rapporto continuo con l’arte ed essendo grandi consumatrici di immagini sacre, non elaborano nuovi modelli iconografici, mantenendosi nel solco della tradizione sfruttando i modelli che la Chiesa imponeva agli artisti .

Il patrimonio storico artistico delle confraternite pugliesi appare veramente molto ricco e complesso e comprende edifici religiosi autonomi, uno per tutti la bellissima chiesa di Santa Maria della Purità a Gallipoli della confraternita di Maria SS.ma della Purità, cappelle architettonicamente definite in chiese matrici o cattedrali, altari, dipinti, oggetti liturgici e paramenti sacri. Per quanto riguarda gli edifici autonomi sono particolarmente diffusi nella nostra regione quelli dedicati al Purgatorio, alle Anime del Purgatorio e a Santa Maria del Suffragio. Questi non costituiscono una tipologia ben definita in quanto non si segue un modello specifico, ma ogni volta si adottano piante e soluzioni differenti, una costante, invece, si individua nell’apparato decorativo costituito quasi sempre da gruppi scultorei di anime purganti divorate dal fuoco, teschi e tibie incrociate e scheletri ghignanti. Gli altari nelle dimensioni e nella sontuosità esprimevano il prestigio sociale della confraternita e dei suoi membri. Essi realizzati in marmi policromi, in legno dorato o scolpiti nella pietra o addirittura in argento, sono spesso situati in luoghi particolarmente importanti negli edifici religiosi e arricchiscono notevolmente l’aspetto delle chiese. I dipinti costruiscono un corpus di opere legate soprattutto ad alcune iconografie ben precise di soggetto mariano, essendo particolarmente diffusi i sodalizi dedicati a Maria. Quindi si annoverano numerose immagini della Madonna di Costantinopoli, del Rosario, del Carmine, della Misericordia, l’Immacolata e, evoluzione di riti del mondo agricolo pre-cristiano di un territorio caratterizzato dalla scarsità dell’acqua, le varie Maria ad Nives e della Fonte. A queste immagini sono da aggiungere i numerosi dipinti raffiguranti l’Ultima Cena, il Compianto su Cristo morto. Quello della scultura è un capitolo particolarmente interessante e variegato, perché comprende oggetti di varia fattura e qualità che va dalle statue in marmo o in legno dipinto a quelle processionali spesso in cartapesta o manichini vestiti di tessuti pregiati impreziositi da gioielli e ricami oggetto di venerazione e devozione dei confratelli e non solo. In Puglia gli artisti che lavorano per le confraternite sono, nella maggioranza dei casi, artisti locali o di origine straniera comunque attivi nella regione come Gaspar Hovic, Angelo Bizamano, Michele Damasceno, Alessandro Fracanzano. Tuttavia capita di imbattersi in nomi di rilievo come Luca Giordano, o Francesco Guarino.

La chiesa di Santo Stefano a Molfetta è da annoverarsi tra gli esempi di edifici religiosi confraternali. Essa fu eretta appena fuori le mura del centro medievale proprio di fronte alla porta di terra, in una zona dove già erano sorti altri edifici in cui si svolgevano attività religiose e assistenziali quali la chiesa di San Marco, la chiesa di Santa Maria Maddalena con l’annesso ospedale teutonico, la chiesa della Trinità, a testimonianza di una espansione della città extra moenia. L’iscrizione sul portale reca la data del 1586 che corrisponde al completamento dell’edificio e coincide con quella dell’aggregazione della confraternita di Santo Stefano di Molfetta all’arciconfraternita della SS.ma Trinità dei Pellegrini e dei Convalescenti di Roma. In realtà l’edificio è più antico, infatti le sue origini risalgono al XIII secolo e coincidono con l’attuale vano sacrestia (l’attigua chiesetta della Santissima Trinità, meglio nota a Molfetta con nome di Sant’Anna) oratorio della confraternita a cui fu ceduto il clausum per consentirne l’ampliamento. La costruzione fu avviata con le donazioni dei confratelli, ma l’esiguità e la discontinuità dei fondi fecero procedere i lavori con molta lentezza. Già dalla facciata asimmetrica è evidente l’anomalia della pianta dovuta alla mancata acquisizione di un terreno adiacente di cui il proprietario non volle mai disfarsi, la chiesa quindi risulta a due navate poiché quella laterale destra non fu possibile. Quella centrale è di due campate quadrangolari coperte da due cupole in asse, vagamente ispirate al Duomo della città, quella sinistra è invece coperta da due volte a semipadiglione separate da arcatelle raccordate alla parete perimetrale da spicchi. Il portale principale di modello serliano è sormontato da un’anfora in pietra stemma della confraternita di Santo Stefano dal Sacco Rosso. Più in alto si apre un rosone circolare inscritto in un campo delimitato dalla cornice lunettata. Successivamente per riequilibrare la facciata fu innalzato un campanile con la cuspide rivestita di maioliche policrome.

La Madonna del Rosario conservata nella chiesa di Santa Maria dei Martiri è un dipinto a tempera su tavola eseguito nel 1574 da un ignoto pittore presumibilmente pugliese, ma di educazione veneta. L’opera fu commissionata da Mario Gadaleta il cui stemma è posto sul primo scalino del trono della Vergine, priore della confraternita di Maria SS.ma del Rosario istituita quattro anni prima nella chiesa della Madonna dei Martiri. La composizione è ricca ed affollata, al centro la Madonna seduta su un trono a gradoni privo di dorsale regge col braccio destro in un gesto morbido ed affettuoso il Bambino e col la mano sinistra porge il Rosario, il Bambino seduto in grembo nella mano destra tiene il Rosario e nella sinistra una rosa. Ai piedi del trono in atto di preghiera sono sistemati, secondo un modello iconografico diventato di moda dopo la battaglia di Lepanto, San Domenico e Santa Caterina da Siena in primo piano e poi Papa Pio V, Filippo II e la consorte Anna d’Austria, un cardinale e altri personaggi laici e religiosi di cui si intravedono solo le teste. Due angeli in volo reggono un drappo di tessuto damascato dietro le spalle della Madonna alla maniera della pittura rinascimentale veneta, sullo sfondo un cielo atmosferico solcato da nuvole. Tutta la scena è inquadrata entro una grande corona di grani di rosario intervallati da quindici medaglioni in cui sono raffigurati i quindici Misteri. In alto su un banco di nuvole, in un alone luminoso che irradia dalla colomba dello Spirito Santo, cinque angeli suonano strumenti musicali.

Alla confraternita dell’Immacolata è da ascrivere la tela datata 1589 raffigurante l’Immacolata e Santi ad opera di un ignoto pittore manierista conservata nella chiesa di San Bernardino. In realtà la confraternita dell’Immacolata a Molfetta fu istituita nel 1613 e proprio in quella chiesa, retta dai francescani, aveva il proprio oratorio. La confraternita, costituita prevalentemente da agricoltori, aveva tra i suoi compiti istituzionali la beneficenza e l’assistenza delle orfanelle. La tela commissionata da membri dell’Ordine francescano passò alla confraternita in un secondo momento. Il dipinto dagli accentuati aspetti scenografici è tagliato lungo i lati e nel margine inferiore, perché fu inserito in seguito in una cornice ottocentesca di stucco, per cui risultano tagliate le figure dei committenti dipinte in basso e forse anche la firma dell’autore. La tela rappresenta l’Immacolata Concezione con i Santi Giovanni e Francesco, la Trinità e gli angeli. Al centro la Vergine, raffigurata come vuole l’iconografia dell’Immacolata affermatasi nella pittura cinquecentesca e codificata nel Seicento dal pittore e censore artistico spagnolo Francisco Pacheco del Rio, appare come una giovinetta di dodici o tredici anni, col volto paffuto e i lunghi capelli sciolti, sul suo capo una corona di dodici stelle, sotto i piedi la falce di luna, le mani giunte sul petto in preghiera, gli occhi in alto rivolti a Dio. Ai suoi lati sono San Giovanni e San Francesco e disposti su banchi di nuvole in un alone luminoso una miriade di angeli musicanti, il sole e la luna ed in alto la Trinità, Dio regge il Crocifisso su cui dispiega le sue ali la colomba dello Spirito Santo, il tutto in un tripudio di luce e colori in cui l’occhio si perde nei mille dettagli di una pittura che fa quasi pensare ad un dipinto fiammingo.

Ultimi, ma certo non meno importanti, di questo rapidissimo excursus le statue processionali dei misteri della passione custodite nella Chiesa di Santo Stefano dal Sacco Rosso. La tradizione popolare vuole che queste statue siano sempre state della Confraternita di Santo Stefano e che provengano da Venezia, città con cui Molfetta aveva fitti scambi commerciali. E’ probabile che le sculture fossero della vicina chiesetta di San Marco, appartenente ad una piccola comunità di famiglie veneziane residenti in città, passate poi nella chiesa di Santo Stefano insieme ad un dipinto raffigurante San Marco, quando la chiesa fu distrutta durante il sacco di Molfetta ad opera di soldati francesi nel 1529. La serie originale era costituita da cinque misteri: Cristo nell’orto, Cristo alla colonna, Ecce Homo, Cristo portacroce e Cristo deposto, i misteri dolorosi della passione di Cristo. Le statue, danneggiate da infiltrazioni di umidità, furono più volte restaurate nel corso dell’ottocento ed una, il Cristo nell’orto, sostituito da una statua opera del napoletano Gaetano La Rocca. In realtà la paternità e la provenienza delle statue è alquanto controversa, c’è infatti chi le vuole di origine veneziana, chi le ascrive al meridionale Francesco Salepicis, chi ad un oscuro scultore veneto Giacomo Fielle, ma quando alle quattro del mattino, al buio e al freddo, queste varcano la soglia di Santo Stefano, nello scenario suggestivo del porto di notte, nessuno dei molfettesi lì presenti si pone più questi interrogativi.

giugno 2005