Come e perché i nostri antenati scelsero San Michele e San Rocco a compatroni del paese.
Come tutte le cose belle
e sante, pure la scelta di S. Rocco a compatrono di Ripabottoni affonda le radici
nel mistero. Gli "antichi" narravano: una sera "'nnènt' k' s'nass' a vémmèrì",
(prima che suonasse l'Ave Maria) (non è facile dire se di mezza estate o al
principio della primavera), entrò in paese uno strano uomo. Di lui si ricordano
le "vrak(e)" (Brache o pantaloni) unte, il cappello da pellegrino, con la "vozz'"
(Bozza, rigonfiamento) appesa. Portava stracci legati "ki spacu(e)r'", (con
gli spaghi) attorno ai piedi, per scarpe. Mont' p' Sant'è Mèrì (Sopra per Santa
Maria) due donne, solite a passare le giornate davanti casa a ridere della gente
e la notte ad accogliere gli uomini nel proprio letto, se ne fecero beffa. Pellegrin
k' vien da Rom' (Pellegrino che vieni da Roma) oilì - oilà" e giù a ridere.
"Cuann fu a mèzènott' (Quando fu la mezzanotte) Pellegrin salta in piedi …"
E giù a ridere, a ridere. Specie dopo che la più sfacciata fece un gestaccio
al viandante. Si fermò. Le guardò a lungo. Poi sentenziò: - Ve ne pentirete.
- Ki? Noi? Ma lo sai chi siamo noi? - Purtroppo. Si. - Tirò qualcosa dalla bisaccia
e la lasciò cadere sull'acciottolato. Le guardò e - Manel - Tacel - Fares -
Le donne sollevarono le gonne fino a mostrare il pube - A vu? (La vuoi?) Il
Pellegrino, continuò per la sua strada. Le donne continuarono a ridere per un
bel po'. Poi una disse: Strano. Non credi? L'altra: mi metterei la corda al
collo per dondolare dal campanile di Santa Maria come un salame, se una parte
della sua minaccia si avverasse. - Non so che dirti. I suoi occhi … non mi sono
piaciuti per niente. "M' skèvav'n' jèkk' p'ddéntr'" (Mi scavavano qui dentro)
- Cuesh' cuèsh' m' bbr'u(e)gnèv' d' fa a p'ttan' ku prèv't'. (Quasi, quasi mi
vergognavo di fare la puttana con il prete) H' - H'… T' fr'mm'kè(ie)n'l'uokki(e)
(Hei! Ti luccicano gli occhi). Mank' fuss' a nott' San Gh'uann' (Nemmeno fosse
la notte di San Giovanni). … Sarà stata la maledizione del pellegrino, sarà
stata una forte indigestione, certo è che le due donne morirono da lì a qualche
giorno, tra atroci dolori. Fin qui, forse pura coincidenza. Il fatto strano
sta nel fatto che, dopo morte, continuavano ad emettere dalla bocca, uno strano
liquido cremisi che nessun'acqua è riuscita a lavar via. E nel paese la morte
elesse la propria dimora. Morivano i vecchi, morivano i giovani, morivano i
bambini. Il paese veniva passato a croce, "ni cuatt' punt' kard'nal'"(Nei quattro
punti cardinali). La morte era preceduta da una o due settimane di degenza a
letto. I medici, i preti - ce n'erano 11 - la congrega della buona morte, notte
e giorno a lavoro. "Mank u tèmp' d'èddr'zzè i rin'"(Manco il tempo per raddrizzare
la schiena). Così pure lo squadrone reclutato dal comune per cavare le fosse
nel camposanto lassù in contrada "Coll' du Chém'ch'". Nel paese regnava una
strana confusione di tempi e di cose. Gente che andava, gente che veniva, come
alla ventura. I ricchi si erano messi in testa che il vino e la carne cotta
allo spiedo tenessero lontano la peste. E lì a uccidere agnelli, a trasportare
coi carri la legna, tenere vivo il fuoco nel camino, e a lucidare gli spiedi.
Vino - carne - e "Venere!". Tutte idee indeterminate, queste. Perché, pure da
loro la peste entrava. E pure loro morivano di morte violenta. I pochi che guarivano
venivano nominati ufficiali della pubblica sanità. Giravano dappertutto. Spesso
trovavano cadaveri sulla strada. Nella campagna…Gente che si era illusa di trovare
la vita fuggendo dal paese. Decenni addietro, la peste aveva desolato altri
paesi del Molise. D'improvviso arrivò una notizia strabiliante: - la vera medicina:
"Il vino bianco. Un bicchiere al digiuno". Disse qualcuno, che rimase senza
nome. Ma nonostante il vino bianco si continuò a morire. Persone, famiglie,
"ruare" (Strade) intere… Poi le autorità civili e quelle religiose per alleggerire
la pressione del contagio decisero di trasportare i malati nei pressi del romitorio
di San Michele, qualche chilometro fuori del paese. E far bruciare gli indumenti
con i quali erano venuti a contatto. Qualcuno sosteneva che si dovessero bruciare
pure lenzuola e sacconi. Gli uomini sani vennero precettati per costruire capanne
di paglia e di "cannuccia dei Vastini". Terminate le costruzioni le donne cucirono
i sacconi e li riempirono di paglia di avena e di "cuòkk'l' d' rèndini(e)" (Foglie
di granturco). I primi ricoverati furono portati in processione, dopo l'ora
di notte. Apriva la processione il crocifisso, con ai due lati i portatori di
lanterne. Seguivano gli appartenenti alla congrua della "Buona morte". Quindi
il prete con i paramenti della penitenza. Subito dopo i malati, stesi su barelle
costruite con rami di ulivo e canne palustri, portate a spalle. Chiudeva il
corteo tutto il resto del paese. Procedevano con lentezza, quasi a voler rallentare
il passo della morte e cantavano salmi penitenziali e recitavano preghiere.
Il nome fu presto trovato. "Lazzaretto", "Là dove si va a morire". Fino a quando
qualcuno non guarì, i ricoverati, che andavano crescendo di giorno in giorno,
vivevano nell'angoscia. Per amore della verità bisogna dire che i sacerdoti
e le "monache B'ggión' presero in mano il governo del posto. Carica, questa,
che comprendeva confessori, infermieri, cucinieri, in una parola "abilitati
a tutto ciò che occorreva". Il sacerdote Decano - uomo di provate virtù - "sedava
i tumulti, minacciava, puniva, confortava, asciugava e spargeva le lacrime".
La maggior parte di questi "samaritani" ci lasciarono la vita. Sia detto qui
incidentalmente: - valga questa citazione ad assolvere i ripesi tutti del peccato
d'ingratitudine. X X X X X Tutti i giorni era un andare e tornare dal paese
al Lazzaretto, dal Lazzaretto al camposanto. A forza di andare e venire anche
i cavalli diventarono ronzini ischeletriti. Spesso capitava che i due cortei
- quello dei malati e quello dei morti - si incontrassero, dando luogo a scene
di cordoglio. Quando fra i morti accatastati sui carri c'erano dei parenti o
degli amici, i malati, come estremo saluto: "R'punn'm' u posht' (Riponimi -
mettimi da parte - il posto). Tra kakk' hiuorn', t' vièng' a tr'và. P' r'mèné
sèmp' èu(e)nit'" (Tra qualche giorno, ti vengo a trovare. Per rimanere sempre
uniti). Tra questo "Tich'_è_tacch'" tra la vita e la morte passarono giorni
e giorni. X X X X X A questo punto la storia si fa suggestiva: avvince e affascina
con il suo alone di ieratica leggenda. Avvenne che un pomeriggio di mezza estate
l'Angelo della Morte imperterrito si accampò lungo tutta la Montagna con fare
minaccioso nei confronti del Lazzaretto. I degenti rimasero in ascolto di quella
notte percorsa da mormorii, quasi grilli di un campo sconosciuto. Si assopirono.
Si svegliarono. I pagliericci tremavano. Non le capanne. Neanche il terreno.
Solo i pagliericci, stesi sulla terra. Si sentivano ardere. La capanne si riempirono
di fumo assieme ad uno strano profumo di lillà. E che cos'erano quelle masse
nere, che parevano animali coricati? Nei viali tra le capanne cominciò l'andirivieni
degli inservienti con le lanterne … Nessuno riusciva a liberarsi dal pensiero
della morte. Fissavano il vuoto con gli occhi sporgenti come a cercarvi i fantasmi
di chi li aveva preceduti; fragili spauracchi evocati dalla fantasia. La mattina,
mentre ci si aspettava che la luna facesse strada al sole, l'Angelo della morte
oscurò il cielo. E nel buio una miriade di occhi rossi fiammanti di astio per
Dio e per gli uomini, scendevano verso il Lazzaretto, minacciosi. Dalle capanne
si levò l'urlo della disperazione. Però pure l'umile preghiera di una devoto
di S. Michele. - Angelo Santo! O nostro gran protettore! Gran capitano delle
armate celesti Io a te ti voglio accanto In quest'ora terribile. Lucifero non
deve vincere. - Disse quasi rantolando. Ma la sua voce la sentirono anche nelle
case del paese, dove per altri malati si pregava. Ed allora dalla chiesetta
del romitorio si levò un nichelino luminoso, un diamante immerso nel sole. E
a mano a mano che saliva in cielo diventava sempre più grande fino a diventare
un altro sole. E mentre ascendeva, trafiggeva la "notte del maligno" con dardi
luminosi. Nel silenzio risuonò una tromba, producendo un "pauroso alto clamore"
. E la montagna fu avvolta da un gran fumo. E nel fumo guizzavano "riluttanti
fiamme" . Segno, questo, che Lucifero con i suoi si apprestavano allo scontro
con S. Michele e la milizia celeste, di cui egli era "gran capitano". Lì a poco
apparivano due legioni infuocate, disposte l'una di rimpetto all'altra. Si intravedevano
rigide aste, spade scintillanti, cimieri rilucenti, corazze e scudi decorati.
Ancora un suono di tromba. Questo più lungo. E si alzò il grido della battaglia,
seguito dal violento frastuono dell'attacco. In prima linea Lucifero, seduto
su un cocchio, avanzava chiuso in armatura d'oro e diamante. La massa dei malati
e degli inservienti, vedendolo: - Gesù, com'è possibile che il Principe delle
tenebre possa gareggiare con te in bellezza? - Atterriti dalla sua potenza chiusero
gli occhi e si prepararono al peggio. Udirono Lucifero urlare a S. Michele:
- Mal per te. Questa è l'ora attesa per la mia vendetta. Fatti avanti. Strappa
dal mio cimiero qualche piuma e segnerai, così, l'inizio della tua vittoria.
Dimenticavo che sei addestrato ad essere cane per subire, non padrone per comandare.
- E S. Michele rispose: - Ingiustamente deturpi "servire Dio" con "schiavitù".
Servir gli stolti questa è schiavitù, com'ora i tuoi seguaci servono te. Tu
non sei libero ma schiavo di te stesso. Cane legato con catene, nell'Inferno.
E da me, così come hai detto, prenditi sul cimiero questo saluto. - Così parlando
levò in alto la spada e, rapido colpì il cimiero di Satana, che indietreggiò
e stordito, cadde sull'elsa della spada. Stupore e smarrimento prese i suoi
seguaci. Le schiere di S. Michele, gioiose, riempirono la vallata di alte grida.
Si gettarono nella mischia, decisi a farla finita al più presto; spronati dalla
"tromba degli arcangeli" che risuonava "negli ampi cieli". Ed ebbe inizio l'urto
orrendo. Le armi cozzano contro armature, le ruote infuocate dei carri impazziscono,
i fulmini micidiali producono frastuoni paurosi mentre i dardi tingono di fuoco
il cielo. Quanto durò lo scontro? Nessuno potrà dirlo. Un attimo. Un'eternità.
Fatto si è che, più forte dei tuoni e delle urla dei contendenti si alzò la
voce di S. Michele: - Quis ut Deus? - "l'enorme spada alto roteando l'orrido
taglio suo calava a compiere intorno vasta strage" . Satana con i suoi si mise
in fuga. E ancora S. Michele a gridargli dietro: - Non credere che ti è permesso
turbare qui la santa quiete . Via di qui. E portati con te i tuoi seguaci, nell'inferno
- Tornò il sereno. Il sole splendeva sul Lazzaretto in ordine. Accanto al letto
dell'ammalato della prima capanna, appariva il "Pellegrino con il Cappellaccio
e la vozza di acqua appesa al bastone" - E tu che fai qui? - Gli chiese il Pellegrino
all'ammalato, che aveva visto sotterrare tutti i suoi. - Non vedi? Mi preparo
a morire. Il Pellegrino sorrise. Poi gli passò la mano sulla fronte. - Morirai
quando sarà l'ora. - Ma… - Ne zapperai di terra e ne berrai di vino prima di
morire. Nell'anima dei degenti entrò pace e serenità. Uno degli inservienti
- anche di questi il nome è stato dimenticato - vide seduto accanto al malato
della prima capanna, al lato nord del Lazzaretto, un Pellegrino. Il grosso cappello
in testa, il bastone alto e ritorto all'estremità, " a vozz'" legata al bastone
e una grossa croce rossa, in campo bianco, segnata sulla spalla. Si avvicinò
e, rimanendo in disparte, tese l'orecchio: - Cosa fai? - sente che chiede all'ammalato.
L'ammalato: - Non vedi? Aspetto la morte. Il Pellegrino sorrise. Poi, profetico:
- Ne zapperai di terra ancora e ne berrai di vino dei Vastini. Non è arrivato
ancora il tempo per te. - Ti va di scherzare. La morte la sento dentro. Mi aggredisce
da per tutto - E il Pellegrino: - Gesù ti ama. Gesù è la vita - breve pausa.
Poi: - Alzati. Non sei più malato. Rincasa. La famiglia ha bisogno di te. L'inserviente
e gli altri degenti, quasi invidiosi: - E noi? E noi?… Anche noi abbiamo le
famiglie. Non lasciarci morire. Non andartene. Aiutaci a vivere. Come d'incanto
il Pellegrino si trasformò in un esercito di pellegrini clonati. Uno per ogni
lettuccio; uno accanto ad ogni ammalato. Dissero ad una voce: - Alzatevi, prendete
le vostre cose e tornate a casa. Siete guariti!… E non peccate più. - E sparve
nella luce, della campagna. Di lì a poco, qualcuno mise i piedi a terra. Si
alzò. Si guardò sotto le ascelle… i bubboni erano spariti. - Miracolo! - Urlò.
Pure gli altri si levarono in piedi. Si guardarono sotto le ascelle… - Miracolo!
- gridarono ad una voce. Il sacerdote, commosso quanto loro: - Chi aspettate
a prendere le vostre cosucce e rientrare in paese? S. Rocco ci aspetta in chiesa.
I degenti aiutati dai parenti e dagli inservienti obbedirono. Poi, insieme,
con il prete che portava la croce a stilo presero la scorciatoia per il paese.
A mezzo percorso, cominciò come a grandinare goccioloni "radi e impetuosi",
che battendo sulla strada arida e polverosa, sollevavano un minuto polverio,
gradito all'olfatto. Dopo alcuni minuti diventarono fitti. Prima che arrivassero
all'entrata del paese pioveva a dirotto. Ma tutti, invece di prendersela a male,
ci guazzavano dentro, felici. Se la godevano quella rinfrescata. E la campagna
metteva certi respironi "larghi e pieni", che facevan ben sperare. E in questa
esplosione della natura gli uomini sentivano più vivamente come s'era svolto
in meglio il destino di ciascuno. Forse non tutti indovinavano che quell'acqua
si portasse via il contagio e avrebbe restituito alla campagna il verde e all'ambiente
la frescura di sempre. Nessuno si pose il problema di come ripararsi dalla pioggia.
Premurosi com'erano di raggiungere la Chiesa e raccontare ai santi protettori
la propria esperienza. Soprattutto di poter presto riprendere la vita interrotta
dalla peste. Dopo alcuni giorni, constatato che la moria era cessata e che la
vita riprendeva lentamente secondo ritmi conosciuti, le autorità civili e sanitarie
permisero che si riaprissero le porte ai forestieri. Nelle case dei morti furono
inchiodati gli usci. In attesa che si facessero avanti i parenti, per rivendicarne
i diritti di proprietà. Fu messo su un comitato di cittadini capaci e volenterosi
per coinvolgere gli altri nei preparativi dei festeggiamenti della guarigione
ottenuta. Il 15 di agosto verso il tramonto uscì la processione dalla chiesa
parrocchiale. Tutti portavano in mano una torcia al vento accesa. Andava innanzi
il crocifero. Dopo di lui il popolo tutto. Avevano il volto coperto con un telo,
nel quale avevano praticato due fori, in direzione degli occhi. Vestivano o
di sacco o di abiti dimessi, perché logorati e in disuso. Venivano poi le congrue,
tutte. Varie per colori e per abbigliamento e per insegne. Per ultimo il clero,
la piccola frangia rimasta nascosta sotto due baldacchini floreali: la statua
di S. Rocco e di S. Michele, i veri trionfatori. Subito dopo le due statue la
"Compagnia di S. Michele Arcangelo". Molti dei malati, strappati alla morte,
dall'orlo della fossa - come dimostrazione della propria gratitudine e in segno
di penitenza: scalzi e i capelli bianchi di cenere - raggiunsero la chiesina
di S. Michele, ripulita dalle brutture. La notte la passarono in preghiera sulla
piana della Cappella di S. Michele. L'indomani riportarono in processione le
statue nella chiesa, dopo aver attraversato per lungo e per traverso il paese
con inni e canti religiosi. Le strade erano parate a festa: i ricchi e i poveri
avevano tirato dalle casse e dagli armadi coperte impreziosite di colori e ricami.
Le case dei poveri erano state avvivate con rami e drappi dai vicini benestanti.
Da molte finestre piovevano petali di fiori sulle statue. Il paese tutto, muto
e deserto, tendeva l'orecchio. Alcuni, per vedere meglio il corteo, salivano
sui tetti. Dalla quella volta tutte le famiglie presero ad appendere a capo
al letto l'immagine di S. Michele che rinfodera la spada e quella di S. Rocco
che mostra la fistola sanguinante nella gamba. Non per abitudine. Per fede.
Così come mi è stato raccontato da Z' Kol' F'lipp', Z' M'kèlangh'l' M'rièll'
e da Z' Mink' Vèrèfridd'. <
Testo: Giuseppantonio Cristofaro