Michele

Michele era nato in mezzo ai cavalli. Suo padre, Pietro, la notte in cui era venuto al mondo aveva, si fa per dire, messo al mondo tre puledrini perché si occupava delle scuderie del Duca. E fra un puledrino e l'altro aveva trovato il tempo per accorrere al capezzale della moglie e dare una mano per far nascere suo figlio, il terzo dei suoi bambini. Era un uomo eccezionale e tutti lo amavano per la sua gentilezza e lo rispettavano per la sua grande competenza in materia di cavalli. Il duca poi non avrebbe potuto fare a meno di Pietro: ogni volta che si recava lontano ad acquistare cavalli per i suoi soldati o per sé e per la sua famiglia, il primo ad accompagnarlo era sempre Pietro. Non aveva mai sbagliato un acquisto e a quei tempi, come oggi del resto, saper comprare era fondamentale, con tutti gli imbroglioni che c'erano in giro. Michele dunque era nato fra i puledri e con loro cresceva: sembrava che i cavalli sapessero quanto li amava perché lo ricambiavano giocando con lui e senza mai fargli male, malgrado la loro mole. Michele parlava con loro e i cavalli, giovani o vecchi, da tiro o da sella, da guerra o da passeggiata, gli rispondevano, non certo con le parole, ma a modo loro. Se un cavallo stava male, Michele lo sapeva, se aveva fame, lo sapeva, se durante le uscite in pattuglia qualche soldato si era lasciato andare a qualche frustata di troppo, Michele lo sapeva; figuratevi che se un cavallo aveva messo gli occhi su una puledra particolare, Michele, non chissà come, lo sapeva. A quindici anni era un aiuto prezioso per il padre e a diciotto quest'ultimo non poteva fare a meno di lui. Il Duca era veramente soddisfatto di loro. Purtroppo però non ci sono solo i cavalli al mondo e il Duca aveva molti altri pensieri e preoccupazioni. Fra i nemici che erano sempre pronti ad attaccare il Ducato, i figli da crescere, i contadini in rivolta perché l'annata era stata cattiva e c'era stato poco raccolto, i soldati vecchi che si credevano chissà chi e quelli giovani che facevano una gran confusione e non stavano mai tranquilli, e come se non bastasse una grave epidemia si avvicinava da nord. Quello che gli mancava veramente era la possibilità di comunicare con le persone fidate che aveva sul terreno, i suoi consiglieri che stavano ai confini, con i suoi sudditi che erano sparsi su un territorio vastissimo e che per lui erano molto importanti, con i suoi commercianti che raccoglievano i prodotti dei campi e li scambiavano coi prodotti degli artigiani con ottimi risultati per tutta la numerosa popolazione. In poche parole si sentiva isolato e si rendeva conto che la corte era un gran cosa, ma che non era tutto: avrebbe dovuto essere contemporaneamente lì a curare tutta l'organizzazione ed evitare che si formassero malcontenti o che qualcuno si mettesse in mente di eliminarlo e di prendere il suo posto e in giro per il ducato per mantenere buoni rapporti con tutti. L'idea di ingrandirsi non gli sembrava più così buona e si domandava a chi fosse venuto in mente di combattere per conquistare tutti quei territori: in fondo si stava meglio quando si stava peggio. Ora bisogna sapere che il duca, per mantenersi sempre in forma, tutti i giorni all'alba scendeva dai suoi appartamenti e faceva una lunga passeggiata a cavallo: fu proprio durante una di queste passeggiate che, quasi senza volerlo, si confidò con Pietro che gli stava sempre accanto durante le sue uscite. E fu a lui che venne un'idea: - Mio Duca perché non provate a mandare un buon cavaliere, molto, ma molto fidato, a trasmettere i suoi messaggi? - Ma come sapere di chi fidarsi? Si fanno tutti in quattro con me per farmi credere che sono i migliori e più fidati, ma io come posso sapere quali lo sono davvero e quali no? - Cominciate per esempio a mandare Michele. Sarà un lavoro molto faticoso e forse i cavalieri che si presteranno a stancarsi per voi non saranno così numerosi. Detto fatto, la mattina successiva, molto prima dell'alba, Michele si trovava in groppa a Hophop, un grosso cavallo, molto resistente, e simpaticissimo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Si, si, avete capito benissimo, il cavallo avrebbe fatto chissà cosa per Michele. Dovete sapere che quando Hopohop era piccolo aveva avuto la febbre e a quell'epoca quando un cavallo si ammalava veniva eliminato: Michele si era opposto a questa soluzione e si era messo davanti al cavallino dicendo che dovevano passare prima sul suo cadavere e lo aveva vegliato senza chiudere occhio giorno e notte fino a quando Hophop si era rialzato ed aveva fatto sentire la sua voce con un sonoro nitrito. Così, dicevo, al levare del sole i due erano già lontani da Milano e galoppavano verso il confine dal luogotenente del Duca con l'ordine di non fare passare gli Svizzeri che avrebbero portato una grave malattia in Lombardia. Dovevano tenerli lontani e procurare loro le medicine di cui avevano bisogno, facendo in modo che si sentissero curati perché dovevano essere considerati come amici, senza tuttavia avvicinarli per non essere contagiati. Era la prima volta che si cercava di "fermare" una epidemia in questo modo e ci voleva molto coraggio per trasmettere un simile ordine e farlo osservare. Michele trasmise il messaggio e fece capire ai soldati quanto gli ordini del Duca fossero importanti per tutti, poi saltò di nuovo in sella e tornò indietro. Era a Milano da un'oretta e non aveva ancora finito di mangiare un boccone quando il Duca lo spedì di corsa a Varese, per portare un messaggio ai commercianti del posto e dire quanto fosse importante non comperare merce dalla Rezia, la Svizzera di allora, pena il diffondersi dell'epidemia. Michele e il suo inseparabile Hophop al galoppo trasmisero il messaggio. Di nuovo a Milano, e via a Pavia per un'altra missione. E così via per giorni e giorni di seguito. I messaggi arrivavano e il Duca aveva tutti contatti con gli estremi del suo vastissimo territorio. Michele aveva il rispetto di tutti ed era felice di poter stare in groppa a un cavallo tutto il giorno. Ma i messaggi diventavano sempre più numerosi e Michele da solo non ce la faceva più: chiamò quindi due amici fidati a dargli man forte e poi altri due e poi altri ancora, finché, un po' alla volta si formò una fitta rete di messaggeri che portavano le notizie e gli ordini da Milano in tutto il Ducato. Col passare del tempo anche i soldati e i sudditi dalla periferia vollero comunicare con il loro signore e la rete ebbe anche funzione di portare notizie dal Ducato al Signore e più tardi chi partiva voleva mandare notizie alla famiglia rimasta a Milano e così via. I cavalli di Michele facevano un lavoro egregio e il Duca, in riconoscimento di quanto era riuscito a realizzare il suo suddito lo autorizzò a mettere nello stemma di famiglia un cavallo e un messaggio. Grazie ai cavalli si organizzò anche un giro di diligenze che portavano in tutta sicurezza i cittadini in campagna e i campagnoli in città, cosa che era stata fino ad allora riservata ai signori che possedevano carrozze e cavalli. Il primo percorso fu realizzato fra Milano e Saronno. Michele era molto soddisfatto del suo lavoro e soprattutto era sempre più amico dei cavalli senza i quali non avrebbe davvero potuto realizzare un'impresa del genere. Nei suoi giri raccoglieva i cavalli vecchi e li metteva nei prati che aveva acquistato con le ricchezze che la comunicazione dei messaggi gli avevano permesso di accantonare per dare loro una fine dignitosa. Quelli che si ammalavano li acquistava per curarli, e aveva trovato un sistema simile alle stampelle che si usano oggi per permettere ai purosangue di sopravvivere ad una azzoppata (sapete tutti, vero, che un purosangue non sopravvive se ha una zampa rotta, perché i purosangue dormono in piedi e riposano una zampa alla volta dormendo sulle altre tre. Se una zampa è rotta il cavallo non può più dormire e quindi bisogna abbatterlo. Oggi si riesce a curarli, ma fino a pochi anni fa erano molti i cavalli che erano soppressi per questo motivo). Ma nella vita, si sa, e anche in ogni storia che si rispetti, non tutto va per il verso giusto. E così avvenne che il figlio del duca si ammalò: il Duca perse la testa, gli pareva che nulla più importasse se non la vita del suo bimbo. In pochi giorni il paese sembrò precipitare nel caos: nessuno portava più le notizie, nessuno si occupava dei commerci, nessuno voleva più viaggiare, i contadini non si occupavano più dei loro campi. Solo i preti avevano un gran da fare a pregare dalla mattina alla sera per ottenere la grazia della guarigione del ducale bambino. E anche i medici che sfogliavano giorno e notte i loro libroni per trovare la cura alla sua malattia. Ma dai libroni non usciva la ricetta miracolosa e dalla chiesa non veniva nessun aiuto soprannaturale. Michele era sicuro che la cura fosse possibile, ma siccome non se ne intendeva neanche un po' fece quello che faceva sempre quando aveva un problema: andò dai suoi cavalli. Spiegò loro la situazione aspettando un aiuto: naturalmente i cavalli non potevano parlargli ma gli fecero capire che poteva avere fiducia. Quella sera Michele aprì le stalle di tutte le scuderie della zona e la mattina dopo parecchi cavalli mancavano all'appello. Apriti cielo! Era tutta colpa di Michele che aveva aperto le porte, mancavano un sacco di cavalli e non si poteva più spedire cavalieri a destra e a manca, non poteva più partire la diligenza per Monza, e neanche quella per Lodi, e neanche quella per Saronno, e neanche quella per… Come si poteva andare avanti così? Era proprio colpa di Michele. Tutti dimenticarono quanto aveva fatto per il ducato, tutti gli davano addosso. Michele si ritirò nella sua casa e si mise pazientemente ad aspettare i suoi cavalli. Il figlio del Duca peggiorava, era sempre nel suo lettino, stendeva la sua manina bianca bianca, quasi gialla, e chiedeva di guarire. Il Duca si disperava, la moglie anche di più e si aspettava ormai solo un miracolo. Solo Michele continuava a dire che era inutile disturbare il Padreterno per così poco, che le preghiere fanno comunque sempre bene, ma che gli uomini devono anche darsi da fare per trovare da soli le soluzioni ai loro problemi. E aspettava alle porte di Milano il ritorno dei suoi cavalli. Ma il duchino peggiorava e i cavalli non solo non tornavano, ma misteriosamente ne sparivano altri quasi tutti i giorni, anche se le porte delle stalle erano accuratamente chiuse tutte le sere. E Michele cominciò a disperare. Finalmente un bel giorno (è proprio il caso di chiamarlo bello!) tornò il primo dei cavalli che Michele aveva liberato: le notizie erano buone, ma il cavallo come faceva a darle a Michele? Gli fece segno di saltargli in groppa. Michele capì e subito, così com'era, senza neanche la sella, eseguì. Al galoppo sfrenato si diressero verso nord est. Quando il primo cavallo si stancò, ne trovarono subito un altro fresco che li aspettava e così via. Si affacciarono sul Lago d'Iseo, continuarono verso nord, lungo il fiume Oglio, arrivarono ad un laghetto e poco più oltre, ai piedi di un monte, il cavallo si fermò. Non lontano c'era una capanna dove abitava un vecchio saggio che, dopo aver predicato per anni ed essersi accorto che tanto nessuno gli dava retta, si era ritirato in quella zona e viveva tutto solo e molto contento. Accolse Michele con cordialità, gli fece dire di cosa avesse bisogno e venuto a conoscenza del problema, lo portò ad una fonte lì vicino, riempì un recipiente di acqua e la diede al giovane dicendogli di farla bere al Duchino. Michele tornò al galoppo a Milano, facendo attenzione a non rovesciare l'acqua. La consegnò al suo Signore, che la fece bere al figlio e insieme a tutto il popolo si mise ad aspettare. Non si può dire che il bambino si mettesse a zompettare cinque minuti dopo, ma piano piano riprese colore. Un gruppo di cavalieri si diede il turno per non fare mancare a corte l'acqua che faceva tanto bene al figlio del Duca, che dopo alcune settimane era perfettamente guarito. I cavalli intanto erano tutti tornati. Cioè erano tornati quelli a cui Michele aveva aperto le porte delle stalle: gli altri, quelli che erano spariti nei giorni successivi non si erano più visti. Gli uomini di corte, gelosi dell'importanza che andava prendendo Michele, davano la colpa a lui di una perdita così importante per il Ducato: senza cavalli l'esercito non si poteva muovere né le diligenze partire e la vita quotidiana non riprendeva col suo solito ritmo come si era sperato quando il piccolo duca aveva cominciato a guarire. Michele naturalmente non la mandava giù, ma a corte tanto dissero e tanto fecero che fu chiamato a giudizio. Sembrava che tutti avessero dimenticato quante belle cose aveva realizzato, quanti cavalli avesse salvato, quanti messaggi importanti avesse trasportato, quante gente avesse salvato senza pensare al pericolo che correva. Avevano dimenticato persino che aveva salvato la vita al Duchino. E Michele fu condannato. Doveva ricevere cento frustate e lasciare per sempre la città. Non vi dico suo padre, la sua famiglia, i suoi amici, i cavalieri che avevano corso centinaia di miglia con i messaggi o alla guida delle diligenze. Ma non c'era niente da fare. Tutti si rassegnarono. Meno i cavalli. Nelle stalle non ne rimase più uno solo: distrussero i cancelli e scapparono. Per giorni a Milano non se ne vide più neanche uno. Cioè uno c'era, era il cavallo del Duca: noblesse oblige, dice il proverbio, la nobiltà ha degli obblighi, si pensò in giro. In realtà era un accordo fra cavalli. Il telefono senza fili dei cavalli funzionò e alcuni giorni dopo il cavallo del Duca al momento della passeggiata mattutina invece di andare dove voleva il suo padrone andò al galoppo da tutt'altra parte. Lungo la strada si accodarono a loro altri cavalli, tanti cavalli, e tutti andavano nella stessa direzione: finché agli occhi dello stupitissimo duca apparvero decine e decine di cavalli mal ridotti, legati a paletti, affamati, alcuni ormai sdraiati per terra in fin di vita. Gli vennero le lacrime agli occhi e subito pensò a Michele: non solo lui non c'entrava, ma era anche l'unico che poteva fare qualcosa contro quello scempio. Slegò tutte quelle povere bestie, quelli che ancora ce la facevano lo seguirono, gli altri aspettarono lì. Chi? Cosa? Michele naturalmente. E Hophop lo trovò, triste si era ricordato del vecchio saggio ed era andato da lui. Quando capì che c'era bisogno di lui accorse subito. Curò tutti i cavalli li riportò nelle loro scuderie sani e salvi. Il Duca chiese pubblicamente perdono a Michele per aver dubitato di lui. Lo accolse di nuovo a Milano con tutti gli onori e con gran dispetto di quelli che lo odiavano. Si ricordò anche di quello che il vecchio eremita aveva fatto per il Duchino e lo invitò a trasferirsi a corte dove sarebbe stato nutrito e riverito. - Non ci penso nemmeno, disse il vecchio, proprio perché era saggio. Quanto ci sia di vero in questa storia non si sa, ma se seguirete il corso dell'Oglio, lasciando alle spalle il Lago d'Iseo, troverete una fonte di acqua che ancora cura certe malattie e di cui non posso fare il nome: non si può fare pubblicità. Se proseguirete verso nord lungo quella valle che si chiama Val Camonica, troverete testimonianze dell'esistenza dei cavalli che risalgono a migliaia di anni fa. E se traverserete la Lombardia in lungo e in largo troverete tanti posti in cui i cavalli sono allevati e crescono allegri e ben curati: molti di quei prati sono quelli dove risiedevano i cavalli di Michele.