Andalò da Savignone epigono di Marco Polo

(Tratto da, Pietro Barozzi, "Savignone: due appunti di carnet", Novinostra, n. 1, marzo 1996)

[...] Andalò da Savignone, pochi decenni dopo Marco Polo, compì tre viaggi in Cina, fu ambasciatore del Papa e del Gran Khan e visse gli ultimi suoi anni a Genova, ricco e generosamente impegnato a favore di chi stava avviandosi a seguire le sue orme col dedicarsi alla mercatura.
Normalmente, quando si parla di esplorazioni e scoperte, il pensiero va ai nostri nomi resi celebri da eventi clamorosi, sui quali spesso si è appuntato l'interesse di biografi, commentatori e poeti. Raramente si pensa che essi non avrebbero potuto agire (e neppure progettare) se non fossero stati sostenuti nella formulazione dei loro piani, nella scelta degli itinerari e nella genesi stessa delle loro aspirazioni a conoscere l'ignoto, da anonime molteplici esperienze precedenti.
I viaggiatori impegnati in operazioni commerciali, in gran parte Genovesi di pochi dei quali si conosce il nome, crearono, a partire dal XIII secolo, una rete di informazioni di portata fondamentale per la conoscenza dell'ecumene, ma raramente lasciarono testimonianze scritte del tipo di quelle di Marco Polo, che nel suo Milione annotò con precisione e metodo tutto ciò che vide, con ampi commenti e illuminanti osservazioni, e che riferì anche ciò che non vide ma che sentì dire. Ovviamente, fu proprio questa parte, che comprende gli ultimi 47 capitoli (cioè circa un quarto del Milione) a interessare maggiormente i lettori: così il libro di Marco Polo finì per essere considerato, anziché una guida recante informazioni itinerarie, politiche, valutarie, fisiche, socio-etnologiche, religiose, merceologiche e paesaggistiche ad uso di che volesse mettersi in viaggio per le Indie, soltanto un divertente elenco di strabilianti meraviglie, come i cinocefali di Agama (Andamane), i caudati di Lambri (Sumatra), gli uomini selvatici di Nenispola (Nicobare), e come anche i tetti ricoperti di tegole d'oro spesse due dita di Cipangu (Giappone): tutti luoghi ove il Veneziano non è mai andato.
Marco Polo utilizzò i suoi ricordi e la collaborazione di Rustichello, letterato di professione. Altri attinsero alla gran massa di notizie che i viaggiatori anonimi, o comunque non autori di libri di memorie, portarono in Occidente: è il caso del fiorentino Pegolotti e della sua Pratica della Mercatura, testo che non ebbe certo la diffusione e la notorietà letteraria del Milione, ma che fu, fino all'età delle grandi scoperte, un manuale fondamentale e resta una delle maggiori fonti per la conoscenza della geografia economica del Medio Evo. E' sintomatico che in tale testo, a conferma dell'importanza assoluta delle notizie recate da Genovesi, pesi e misure siano raffrontati con i corrispettivi valori in uso a Genova, evidentemente allora a ragione considerata città egemone nei commerci.
E' un fatto che la rete di collegamenti che sosteneva i traffici genovesi era capillare ed estesissima: già sul finire del XIII secolo il Polo aveva scritto di aver incontrato nel mare di Gheluchelan (cioè nel Caspio) mercanti genovesi intenti ai loro traffici e la presenza genovese era certa nell'estremo ponente da dove, e precisamente dalla regione detta Gozora corrispondente all'attuale zona marocchina meridionale ove sorge Agadir, qualcuno portò a Genova la notizia del passaggio dei fratelli Vivaldi pateticamente ricordati dall'Annalista Jacopo D'Oria.
Non meraviglia che, alla fine del XV secolo, Girolamo da Santo Stefano abbia incontrato a Sumatra un giudice che conosceva l'italiano e che Ludovico de Varthema, al principio del XVI secolo, abbia parlato alla Mecca con un moro che conosceva Genova e Venezia e poi, a Calicut, con due Milanesi fonditori di bombarde.
Andalò si inserisce così in un quadro particolarmente attivo. Il suo nome, fino a poco tempo fa, era pressoché sconosciuto, tanto e vero che l'Amat neppure lo inserì nel suo repertorio di viaggiatori italiani.
L'interesse per la sua figura iniziò a metà del secolo scorso con uno studio di Roberto Lopez, il quale pubblicò documenti inediti, o mal noti, e fu successivamente ampliato da Michel Balard, il cui lavoro consente una conoscenza del personaggio non certo completa, ma pienamente sufficiente per comprenderne l'importanza.
Andalò da Savignone agì nel periodo in cui le relazioni commerciali fra Genova e la Cina furono intense e proficue. E' il periodo detto della pax mongolica comprendente i regni di Qubilai e di Temur ed anche quelli dei loro successori, ormai cinesizzati, detti gli Yuan, l'ultimo dei quali, Toghan Temur, salito al trono nel 1333, fu deposto nel 1369 quando sul trono di Pechino salì la dinastia dei Ming. Ma già negli anni quaranta del XIV secolo il periodo di pace era finito: l'ultimo documento riguardante Andalò attesta la sua presenza a Genova nel 1346 e, in considerazione di quanto sopra detto, si presume che tale sua presenza sia stata definitiva.Quando sia andato in Cina per la prima volta non è noto. Si sa che nel 1330 egli era a Pechino ove raccolse l'eredità di Antonio Salmoria, chiavarese, con l'impegno di portarla a Genova agli eredi legittimi, cosa che puntualmente fece nel 1333. L'anno seguente ripartì per la Cina ove, nel 1336, ricevette da Toghan Temur Khan l'incarico di recare una ambasceria al Papa. L'incarico, per la sua verità, fu affidato ad un Andrea Franco, che il Lopez dimostrò essere lo stesso Andalò: Andrea stava per Andalò e Franco era il generico appellativo con il quale venivano chiamati gli Europei in Cina. Con l'ambasceria a Papa Benedetto XII, Andalò portò anche una lettera di cristiani cinesi (o comunque residenti in Cina) intesa ad ottenere la nomina di un nuovo arcivescovo di Pechino, ove la cattedra era vacante dalla morte di Giovanni da Montecorvino avvenuta nel 1328. Nel 1337 Andalò passò da Genova e raggiunse la corte papale ad Avignone. Nel 1339, con una galea genovese sbarcò a Caffa dopo aver imbarcato a Napoli (nel 1338) fra Giovanni de Marignolli neo arcivescovo di Pechino. Nel 1342 il viaggio si concluse nella capitale cinese con un solenne ricevimento da parte del Gran Khan; si presume che Andalò da Savignone, il quale aveva avuto l'incarico di presentare a corte l'arcivescovo, fosse presente.
Il Marignolli, nella sua Peregrinatio, non ne parla, tutto preso com'è nel riferire solo questioni inerenti la sua carica (in particolare fondazioni di missioni nell'Asia Centrale ove lasciò diciotto dei cinquanta prelati al suo seguito): solo sporadicamente vi compare il nome di Andrea Franco. L'ultimo documento attualmente noto riguardante Andalò da Savignone è del 1346, ed è quello cui s'è fatto cenno riguardante il suo generoso intervento a favore di un giovane che, al fine di poter ottenere un prestito sul fondo dei denarii maris per dedicarsi al commercio, aveva bisogno della malleveria di una persona notoriamente doviziosa ed in grado quindi di garantire per lui.
Circa gli itinerari del primo e del secondo viaggio alle Indie di Andalò non si sa nulla. Sembra coerente ipotizzare che essi si siano svolti sul percorso detto Via Tartara usato per il terzo, di cui si ha invece notizia attraverso la Peregrinatio del Marignolli: se Andalò fu posto dal Papa alla guida della carovana arcivescovile, è evidente che ciò fu fatto sulla scorta delle sue maturate esperienze. Di tale percorso detto anche della Tana, offre una succinta descrizione il Pegolotti quale introduzione alla Pratica della Mercatura, ponendo in risalto la sicurezza del percorso: "il cammino d'andare dalla Tana del Gattajo [Catay] è sicurissimo e di dì e di notte secondo che si conta per gli mercatanti che l'hanno fatto". Da Tana (Azov), allora colonia genovese, si giungeva a Gintarkan (Astrakhan) sul delta del Volga e a Sara (Sarajc) sull'Ural; indi si attraversavano le steppe del bassopiano Turanico in direzione sud-est raggiungendo Sarancanco (forse una località del Karakalpakstan) e Organci (Urgenc) sull'Amudarja, città un po' fuori dell'itinerario che era però opportuno toccare perché sede di attivissimi mercati. Il viaggio poi proseguiva verso levante, sfiorando a sud la steppa della Fame, per Oltrarre (Octabr) e Armalicco (Almalik) sul'Ili, nel paese degli Uiguri. L'ingresso nell'attuale territorio cinese avveniva alle porte di Zungaria o attraverso la più settentrionale valle dell'Irish. Nel tratto cinese le indicazioni sono vaghe: difficile capire a quale città ( posto che esista ancora) corrispondesse Camexu che, a oltre due mesi di viaggio da Almalik, dovrebbe trovarsi in pieno deserto Zungarico. Cassai, che, in quanto centro di cambio, era anch'essa "spacciativa terra di mercatanzia", dovrebbe corrispondere ad uno dei moltissimi centri nella grande ansa che l'Huanghe descrive spingendosi sino alla soglia dei deserti mongolici (la fiumara citata dal Pegolotti non poteva che essere il fiume Giallo), separata da Gamalecco (Pechino) da circa un mese di viaggio. Complessivamente otto mesi e mezzo di viaggio in battello, su carri trinati da cammelli e da buoi, a dorso d'asino e di cavallo.
Viaggio estremamente arduo, con lunghissimi tratti in aree deserte, clima gelido in inverno e caldissimo in estate, attraversamento di sconfinate steppe, superamento di montagne, passaggio di grandi fiumi. Quanto meno viaggio per persone dal fisico robustissimo e dalla ferrea determinazione.
Il fatto che Andalò sia il solo di cui si sappia che, nel Trecento, sia andato tre volte in Cina testimonia della sua non comune personalità. Ma la sua resta ancora in parte una figura esclusiva, come la definì il Lopez. Nulla si sa della sua vita anteriormente al 1330 e posteriormente al 1346, e quindi solo ipoteticamente lo si può ritenere nato nell'ultimo decennio del XIII secolo e morto dopo metà del XIV. Mancano inoltre, e ciò è anche più grave, informazioni circa la sua formazione e sul suo spessore umano tranne quella, induttiva ma importante, relativa alla sua generosità che si ricava dal citato documento del 1346.
Il personaggio resta comunque interessante: colto, esperto, affidabile. Se non fosse stato così non avrebbe potuto entrare in dimestichezza con il Papa e con il Gran Khan. Ciò ha fatto sorgere nel Lopez la tentazione di una identificazione con il genovese Andalò di Negro, dottissimo maestro a Napoli di Giovanni Boccaccio che lo definì insigne virum atque venerabilem, gran cultore di matematica ed astronomia nonché conoscitore di pressoché tutto il mondo, sapiente per esperienza diretta e non per sentito dire, come spesso accadeva (e accade). Nell'elogio del Certaldese colpisce per quella allora eccezzionale conoscenza del mondo attribuita ad un personaggio del quale, come di Andalò da Savignone, si sa ben poco. Un'ipotesi affascinante che non regge: Andalò di Negro morì ottuagenario nel 1334, poco prima che il giovane Boccaccio si orientasse definitivamente (1336) verso l'attività letteraria.
Sembra anche da escludere che il nome del Savignonese possa essere messo in rapporto con la voce dotta araba Al-Andalos (= l'occidente) con la quale fu indicata genericamente la penisola Iberica e che, con progressivo restringersi del dominio islamico, si ridusse da ultimo alla sola Andalusia; Andalò non è che un derivato di Andreolo (o Andriolo) diminutivo di Andrea, un po' come Nicolò da Nicola e Bernabò da Barnaba. Lo dimostra senza alcun dubbio l'atto del notaio benedetto de' Vivaldi, rogato a Genova il 27 marzo 1333, nel quale si ha la conferma che l'Andrea franco ambasciatore del Gran Khan al Papa è Andalò da Savignone il quale viene indicato quattro volte come Andriolus e cinque come Andalus.
Molto incerta è invece la qualifica attribuitagli di appartenente al rango nobiliare nel documento veneziano riportato dal Lopez: l'attribuzione può semplicemente essere riferita alla carica altissima che al tempo egli ricopriva e non alla sua persona, ma è anche possibile che il da che indica origine, sia stato scambiato con un dei che indica appartenenza entrambi traducibili con il de latino: si spiegherebbe così il plurale Savignonis inteso come un cognome e il successivo de riferito a genova: in pratica un Andalò de' Savignoni da Genova.
Manca, infine, ogni notizia che ponga in relazione Andalò con il suo paese: allo stato attuale delle conoscenze si direbbe che i rapporti fra Andalò e Savignone siano stati nulli. Non è escluso che ciò corrisponda a verità, dal momento che presumibilmente dovette lasciare Savignone in giovanissima età per apprendere a Genova la non facile arte del mercante ed intraprendere quella carriera che l'avrebbe portato per circa due decenni in giro per il mondo. ritiratosi poi dalle pesanti attività connesse ai viaggi, è facile pensare che a Genova abbia trovato collocazione adatta per mantenere contatti e rapporti con il mondo degli affari: quindi che al suo paese, divenuto per lui estraneo, non sia più tornato. Comunque Andalò personaggio affascinante ma ancora poco noto resta, nonostante il buio dei suoi rapporti con Savignone il figlio più illustre del Comune dell'Alta Valle Scrivia: uno che rientra a pieno titolo nella storia della conoscenza del mondo 8che non è stata fatta solo dai Colombo e dai Cook) e che rientra nella storia di Genova proprio nello specifico settore che l'ha fatta grande.


Pietro Barozzi
professore associato di Geografia presso l'Ateneo genovese