"Una montagna di ... Leggende"

Salendo la strada che porta a Sella Nevea sono, come al solito, preso dai miei pensieri. Ogni volta che mi avvicino al monte Canin, non posso fare a meno di pensare a quante leggende hanno ispirato questi fantastici luoghi. La vettura sale senza sforzo lungo la Val Raccolana ed in breve imbocca la curva sotto il Fontanòn di Goriuda, dal quale esce una cascata ghiacciata. L'occhio nero spicca sul candore della neve e ben capisco come poteva spaventare i villici che salivano lungo i sentieri degli alpeggi. Narra la leggenda: "Gli abitanti della Val Raccolana erano perseguitati da un orco maligno che si divertiva a spaventare i viandanti attardatisi dopo l'Ave Maria ed a fare alle donne ogni sorta di cattiverie. Un uomo di Stretti, stancatosi di queste continue prepotenze, decise di vendicarsi. Caricò il fucile da caccia con polvere benedetta, un pezzo di cero pasquale, due foglie di olivo ed un pallettone, sul quale incise una croce, poi si mise in attesa. Quando l'orco comparve al Pian de la Sega, egli ordinò ai figli di pregare e, presa accuratamente la mira, lasciò partire il colpo dicendo: "Santa Barbara benedetta, fa che il colpo vada dritto". L'orco lanciò un urlo ed arrancò zoppicando verso il Fontanòn ed i suoi lamenti si sentirono fino a Saletto. Dopo 15 giorni uscì dalla grotta e con tre passi raggiunse la casa del suo feritore, al quale si rivolse, gridando giù per il camino: "Me l'hai fatta, me ne vado e mai più mi vedrai da queste parti". Fu così che la valle fu finalmente liberata dall'orco". Del resto anche lo stesso nome di Goriuda sembra che derivi da quello dei "guriùz", i nani trogloditi che nelle leggende friulane abitano nelle forre e nelle grotte. Sono ancora rapito dalle mie fantasie quando la vettura si ferma. Siamo giunti a Sella Nevea e, per proseguire più speditamente, prendiamo la funivia, finchè, usciti dalla stazione superiore, entriamo nell'aria frizzante dei 2000 metri. Quassù il tempo sembra essersi fermato alla fine dell'ultima glaciazione. Il paesaggio ha un non so che di misterioso ed austero; non un albero, non uno specchio d'acqua, niente di ameno come in tanti altri luoghi di villeggiatura delle valli circostanti. Solo buchi e fratture che, in netto contrasto con la bianca roccia calcarea e la neve, ti osservano da ogni dove. Un paesaggio lunare, insomma, come ha scritto qualcuno. Eppure, pur con tutta la sua scabrosità e con tutta la sua severa bellezza, il Canin emana un fascino unico, che ti entra nel sangue e ti ammalia. In breve, ti senti conquistato ed inizi ad amare la semplice maestosità delle sue forme. Come in un antico rito, incomincio a guardarmi lentamente attorno ed a riconoscere, come vecchi amici, i luoghi che mi circondano: Ursich e Bila Pec alla mia destra, Poviz, Leupa, Prevala alla mia sinistra. Davanti la vista si ferma sull'inconfondibile sagoma del monte Forato, che sembra ricambiarmi lo sguardo attraverso la caratteristica finestra che lo buca da parte a parte. Non posso fare a meno di pensare che anche questo fenomeno naturale ha un suo riscontro nella leggenda: "Un montanaro, era andato con le sue figlie a raccogliere lamponi in un bosco ai piedi del monte Canin e, colto dall'oscurità incombente, pensò di rifugiarsi in una caverna. Presto il silenzio notturno fu rotto dai rintocchi lontani delle campane ed i gufi cominciarono a mandare i loro sinistri richiami. All'improvviso si levò un terribile baccano; urla, fragore di catene, cozzare di picconi e di pietre che rotolavano dall'alto. Erano le anime dei dannati che prestavano il duro servizio a cui erano state condannate. Dal grande foro del monte il diavolo controllava il lavoro delle sue vittime. L'uomo e le ragazze ascoltavano sempre più impauriti, scossi da brividi gelidi. Ora dopo ora quel terribile concerto continuò, finchè il canto del gallo cedrone annunciò il mattino; poi scese il silenzio ed i dannati disparvero nella parte rocciosa del Forato, la dimora del diavolo in cui sono confinati durante il giorno." Salutati i gestori del rifugio Gilberti, iniziamo la salita verso Sella Bila Pec e, in poco più di mezz'ora, il nostro sguardo può spaziare sulla brulla distesa dell'acrocoro caninico. A detta dei valligiani, anche la desolazione di questi luoghi è opera del diavolo. Nelle leggende della Val Resia e della Val Raccolana questo altipiano era il luogo di tormento delle anime dannate ed i vivi vi potevano trovare solo disgrazie. Come se non bastassero le dicerie, ad accrescere il timore di una presenza infernale, contribuiva l'accanimento dei temporali sulla zona e la loro inspiegabile violenza. Prova ne sia che certe relazioni di salita al monte del secolo scorso narrano che le portatrici (a quei tempi piuttosto di moda), attendendo il ritorno degli alpinisti, pregavano in continuazione per tenere lontani gli spiriti maligni. Spiriti, streghe, demoni o quant'altro si voglia, l'unica cosa sicura è che noi dobbiamo attraversare quel deserto di neve e roccia per giungere alla nostra destinazione: il Foran del Muss. La marcia di avvicinamento sul sentiero da poco innevato non risulta comunque tanto tragica: i sacchi con il materiale speleologico sono già stati lasciati all'ingresso della grotta la settimana scorsa, durante un sopralluogo per verificare la possibilità di accedere ai vani sotterranei dell'abisso Giovanni Mornig. Comunque procediamo con cautela perchè, vista l'ora mattutina, il ghiaccio copre ancora parte delle rocce nei punti in cui il sentiero è ancora in ombra. La giornata promette bene, ma chiunque conosca il monte Canin sa che il tempo qui può cambiare in un batter d'occhio. Siamo in quattro: Mauro, Moreno, Lorenzo ed io. Il programma prevede che in una notte si debba recuperare le corde dal fondo e risalire fino a circa 200 metri di profondità, dove una nuova galleria aspetta di essere esplorata. Mauro nutre delle perplessità per la mia partecipazione all'esplorazione, non perchè pensa che non ne sia capace, ma perchè a suo avviso avrò dei problemi nel passare la strettoia a -120: non gli sorride quindi molto l'idea che, mentre loro proseguono per il fondo, io debba ritornare da solo in bivacco. Vedremo! Giungiamo al bivacco Elio Marussich in Sella Grubia con i primi raggi di sole. Qui, dopo una breve colazione a base di the e "Muesli", ci cambiamo gli abiti da alpinista per indossare quelli da speleologo. Un controllo all'attrezzatura, il pieno alla lampada a carburo e giù per la costa del Pic di Grubia per giungere dapprima al vecchio campo base, che il Club Alpinistico Triestino ha usato dal 1974 al 1984, e poi alla sommità del Foran del Muss, dove a poca distanza si apre il gelido ingresso dell'abisso. Mentre i miei compagni controllano ancora una volta il materiale, salgo sulla quota 2036 e mi guardo attorno. So già cosa cerco. Lo sguardo si posa sullo sperone della Punta Rop alla cui base vi è un anfiteatro quasi inaccessibile; sono anni che vorrei andarci, ma non ne ho mai avuto l'occasione. L'anfiteatro ha anche un nome: i valligiani lo chiamano Calderino Robel e naturalmente anche su questo luogo aleggia una leggenda: "Il Calderino era un tempo una meravigliosa conca fiorita, dove si raccoglieva in grande quantità un ottimo foraggio. La bellezza del luogo suscitò l'invidia delle streghe del Canin, che in un giorno distrussero il giardino alpestre, trasformandolo in una landa di roccia desolata. Anche i sentieri che salivano dalla valle furono cancellati, ma i montanari, pazientemente, li riadattarono per un buon tratto, lastricandoli con croci di pietra bianca. Molti anni dopo un cacciatore di Sotmedòns osò tornare nella conca e nel fervore della battuta fu sorpreso dalla sera. Subito apparvero in turbine le streghe, che incalzandolo da ogni lato cercarono di farlo precipitare nelle voragini che si andavano aprendo intorno a lui e che tuttora si possono vedere. Quando il malcapitato stava ormai per soccombere, il suo piede montò sopra una delle croci; le streghe si dileguarono all'istante ed egli potè trovare la via del ritorno". Un sordo rumore mi distoglie ancora una volta dalle mie fantasticherie. E' Moreno che con una pala lavora nella neve che quasi chiude l'ingresso per rendere il passaggio più "umano", anche se resta sempre necessario strisciare tra le pareti ghiacciate per infilarsi nella stretta e bassa condotta che ne caratterizza la prima parte. Uno alla volta cominciamo ad entrare nel cuore della montagna ed in breve giungiamo ad una vasta caverna dove il suolo è abbondantemente coperto da grandi massi di crollo. Qui e là, si sente qualche pietra che, liberata dalla morsa del ghiaccio, cade dalla volta o dai camini intasati di detrito. I primi due sacchi giacciono alla sommità del successivo pozzo, gentile omaggio di quelli che ci hanno preceduto la settimana scorsa. Continuiamo a scendere e Mauro, sempre un po' preoccupato per la mia presenza, mi rimane dietro, nel caso dovessi avere bisogno di un aiuto per disincastrarmi. Giungiamo al punto critico: Moreno passa senza dare l'impressione di aver appena superato una strettoia, ma Lorenzo, pur riuscendo anche lui a passare agevolmente, scuote la testa guardandomi. Tento ugualmente, come San Tommaso. I primi metri sono stretti, ma non terrificanti; poi la trappola lentamente si chiude. Il budello verticale perfettamente levigato e schifosamente infangato si stringe sempre di più attorno alla mia persona fino a bloccarmi. Forse solo liberandomi completamente dell'attrezzatura potrei avere qualche possibilità, ma, visto che sotto il pozzo continua per altri 80 metri, non mi sembra il caso di compiere manovre azzardate; senza considerare poi il fatto che il mio peso non mi avrebbe poi certamente aiutato in risalita. Con l'appoggio dell'unico compagno rimasto dietro di me, riesco a disincastrarmi e a guadagnare centimetro per centimetro la libertà di movimento fuori dalla strettoia.Niente da fare: il vecchio Mauro aveva ancora una volta ragione e non mi rimane che rinunciare. Risalgo i pochi metri che mi separano dall'orlo del pozzo e prendo accordi con Mauro per il giorno dopo. Concordiamo che risalendo verso l'uscita mi accollerò i due sacchi rimasti più in alto e me li trasporterò fino al bivacco, dove attenderò il loro arrivo per la mattina seguente. Dev'essere ormai il mio destino di speleologo quello di limitarmi a curare la parte logistica delle uscite. Peccato! Una stretta di mano e con invidia rimango affascinato nel vedere come il fisico asciutto dell'amico si fa beffe dello stretto passaggio. Attendo sino a che la luce scompare sotto la fenditura e la corda su cui è appeso il compagno cessa di vibrare, dopodichè, salutati mentalmente i tre amici, mi avvio verso l'uscita. Dal fondo lontano arriva un canto indistinto: "Essa mi pare una testa imbecille", ritornello tipicamente triestino con cui quei tre balordi mi salutano a modo loro, prendendomi naturalmente per i fondelli. In un paio d'ore sono quasi all'aperto. Come già detto, in Canin capita spesso che il tempo cambi con la massima velocità e la conferma mi viene già a pochi metri dall'uscita. Fuori non si vede più il cielo limpido ed azzurro di prima, ma un turbinio lanuginoso che promette solo una cosa: nebbia. La peggior sorpresa che questo monte possa riservare ad una persona. Già sono uscito col morale a terra per la mancata performance speleologica, ora ci manca solo la nebbia! Mi illudevo di raggiungere il bivacco prima che facesse buio e magari di riuscire a scendere nelle Forchie di Terra Rossa per prendere un po' d'acqua per i tre balordi, che all'indomani l'avrebbero gradita come se fosse stata birra alla spina. Invece dovrò stare bene attento alla strada che percorrerò, perchè anche con pochi metri di deviazione puoi trovarti tutto dall'altra parte del monte; non sarebbe la prima volta e temo non sarà neppure l'ultima. Mi carico alla meglio i sacchi di materiale. Il pvc con il quale sono costruiti è gelato e perle di umidità si stanno rapidamente formando sulla loro superficie. Anche la tuta, che dovrebbe essere traspirante, non svolge più la sua funzione, e per di più i capelli, sotto il casco, cominciano a grondare sudore e a prudere fastidiosamente. Mi guardo attorno attentamente. Bene, nella piccola valletta c'è ancora qualche metro di visibilità. Mi porto con una breve arrampicata sul ciglione del Foran del Muss e rimango fermo ad ammirare il panorama. Fantastico, visibilità poco meno di zero, l'ideale per una scampagnata. Inoltre il perfetto connubio tra neve e nebbia non lascia scampo; tutto risulta perfettamente piatto. Lentamente l'udito viene ovattato dal fastidioso rumore del nulla, accompagnato da quella sensazione di impotenza che opprime chi deve operare delle scelte, senza però sapere cosa fare. Rimanere qui è impensabile; sudato e infreddolito come sono, non rischio certo di morire, ma con il calare della notte un accidente me lo piglio di sicuro. Quindi, bisogna andare, a costo di dover camminare a vuoto fino a domani mattina, naturalmente sperando che nel frattempo la nebbia svanisca o perlomeno si diradi. Inizio a seguire con non poca difficoltà il filo della cresta in direzione del Bila Pec. Qui, da qualche parte, dovrebbe esserci una fenditura nella roccia che porta alla cengia inferiore. Passo dopo passo, cerco di ricordare ogni piccolo particolare del colle, mi sforzo di risvegliare nella mente i ricordi di vent'anni di spedizioni speleologiche su questo monte, mi appiglio ad ogni sensazione di "deja vue" pur di riuscire nell'intendo di raggiungere, indifferentemente per quale percorso, il bivacco Marussich. Ecco, ce l'ho fatta! Lo stretto passaggio verticale è a pochi metri da me. Lo riconosco dal gruppo di stelle alpine che all'epoca avevamo eletto a "giardino pensile sociale", onorandolo persino di un piccolo cordolo di sassetti per delimitarne il perimetro. Ora mi viene da ringraziare chi all'epoca ha perso del tempo in stupidaggini del genere e giuro che in futuro mi farò promotore di altre iniziative di questo tipo. Scendo la decina di metri che mi divide dal tratto sottostante, bagnandomi abbondantemente sulla vegetazione brinata. Bene, un tratto è fatto. Ora devo procedere in direzione sud, fino alle rocce rosa e da qui, lungo una stretta dorsale erbosa, giungere al vecchio campo base del CAT. Facile a dirsi! Questo tratto che, con un tempo normale, avrei percorso in una decina di minuti, mi fa perdere un paio di ore e qualche litro di sudore. Mi siedo alquanto teso alla base del grande masso che porta ancora dipinti gli stemmi e le date delle precedenti spedizioni. Sembrerà stupido, o forse solo infantile, ma la vista di queste piccole presenze familiari mi dà un senso di sicurezza e di protezione. Vorrei non dovermi staccare da questo luogo, vorrei che sotto il masso ci fosse ancora il grande bidone di plastica con dentro la tendina "Moretti" per due persone che tenevamo pronta sul luogo "per un mal de note". Con l'installazione del bivacco Marussich sulla sovrastante Sella Grubia, non aveva più scopo mantenere efficiente il campo e così tutto il materiale era stato spostato in bivacco o, come la tenda, riportato a Trieste. Purtroppo sta rapidamente calando la sera e con essa il freddo umido che ti penetra nelle ossa. Accendere fuochi quassù è praticamente impossibile sia perchè i primi pini mughi si trovano solo sul versante che dà sulla Val Raccolana, sia perchè tutto è talmente fradicio che neppure la fiamma della mia lampada a carburo potrebbe asciugare qualche scampolo di legno trovato sotto la neve. Non mi rimane quindi che proseguire. Mentalmente ripercorro il tracciato che dal campo base porta al bivacco: diritto ancora a sud fino alla grande frana gialla sotto il Pic di Grubia e poi a est, seguendo rigorosamente la base del picco fino alla sella dove si trova il bivacco. Facile a farsi, dice la memoria. Ora però che il buio è quasi totale, gli occhi cominciano a farmi male; la luce della fiamma sul casco rende ancora più confuso il paesaggio circostante. D'altra parte non posso nemmeno continuare al buio, visto che la luna non riesce a penetrare la fitta coltre nebbiosa. Mi fermo alla base della frana gialla e mi riparo sotto un masso con la speranza di potermi riposare un poco. Scaldo le mani con la lampada a carburo e almeno momentaneamente gioisco dell'effimero calore. Ma quanto durerà? Sono ormai quattro ore che la uso e presto dovrò fare a meno del suo confortante calore. Poi, comunque, potrò fare affidamento sulla lampada elettrica, ma con quella sarà assai improbabile riuscire a scaldarsi. Resto ancora un poco immobile sotto il masso; chiudo gli occhi e respiro a fondo. Forza! Mi alzo in piedi e, contemporaneamente, la fiamma della lampada si affievolisce per poi spegnersi del tutto. Accendo la luce elettrica, mi risiedo ed apro la lampada. Dentro è tutto una poltiglia di carburo; rovisto con il dito rischiando di ustionarmelo, ma non c'è più nemmeno un pezzettino intero di composto. Amen, richiudo la lampada e mi rassegno. Decido di abbandonare qui i due sacchi di materiale, perchè tanto conosco bene il luogo e potrò recuperali senza alcun problema l'indomani. Ma, mentre sistemo il materiale sotto il masso, noto sulla sinistra in alto un fioco bagliore. So per certo che, ad un centinaio di metri dalla frana, c'è una caverna di discrete dimensioni. Guardo davanti a me, in direzione del bivacco, ed un muro di nebbia fagocita il bianco fascio di luce. Mi volgo quindi di nuovo a sinistra: il bagliore persiste e, stranamente, mi infonde un senso di tranquillità. In quella direzione la nebbia è più rada ed il percorso più evidente. Riesco persino a vedere, una decina di metri più avanti, un ometto di pietra che io stesso mi ricordo di aver eretto l'anno prima per segnare il percorso da seguire verso la "sorgente" delle Forchie di Terra Rossa. Bene, forse qualcun'altro è stato colto all'improvviso dalla nebbia ed è riuscito a ripararsi nella caverna; se non altro avrò compagnia. Avanzo comunque con cautela sul terreno reso viscido dall'umidità e, girata la costa del monte, sono in vista della caverna. Effettivamente dall'interno esce un fioco bagliore, contro cui si staglia la pallida silouette di una figura in piedi sull'ingresso. Salgo sollevato verso l'imbocco e, quando giungo a pochi metri, vedo che la figura intravvista prima appartiene ad un militare di guardia all'ingresso dell'antro. "Ahi, Ahi" penso tre me e me "Qui col piffero che mi fanno entrare!". Continuo comunque a salire e, per sicurezza, cerco di farmi riconoscere, sperando che il piantone non sia nervoso. L'uomo non mi risponde, sembra che neanche mi veda; guarda fisso davanti a sè e si tiene rigidamente eretto appoggiandosi al suo fucile. Mi avvicino con circospezione e rimango stupito nel vedere che l'abbigliamento del militare è, a dir poco, fuori moda. Che le truppe alpine abbiano cambiato il loro "look"? Che strano! Avrei giurato che gamasse e mantellina non fossero più in uso dalla Prima Guerra Mondiale. Comunque sono troppo attratto dalla sicurezza che quella caverna può offrirmi per crearmi dei problemi di carattere estetico. Mi fermo davanti all'alpino di guardia e, con un po' di soggezione, gli spiego che mi sono perso, che sono stanco e bagnato e che vorrei passare le ore notturne con loro, se l'ufficiale lo consente. Quando finisco, ho come l'impressione di aver parlato da solo. Il militare continua a non degnarmi di uno sguardo mentre fissa lontano chissà che cosa. Non poco perplesso, gli passo davanti e getto uno sguardo all'interno della caverna. Resto praticamente allibito nel vedere il fermento che ne anima l'interno; una quarantina di alpini, tutti vestiti all'antica come la guardia, stanno svolgendo varie mansioni. Mi volto ancora una volta ad osservare il piantone che finalmente mi sorride lievemente. Un ufficiale mi viene incontro e mi indica un angolo della cavità dove, su di una banconata calcarea, è stesa una coperta militare. Mi presento, tendendo la mano, ma l'uomo si limita a sorridermi, non parla e mi indica ancora il giaciglio. Penso che non ha il coraggio di ricacciarmi all'esterno, ma che non può nemmeno mettermi al corrente della loro destinazione. Forse per questo nessuno mi parla ... i segreti militari! Accetto per buona questa ipotesi e tutto sommato non me ne frega niente. Avevo bisogno di un rifugio e l'ho trovato, per cui mi spoglio velocemente della tuta bagnata che lascia il posto alla sottotuta in "pile" che comincia a fumare. Controllo se qualcuno mi guarda, ma tutti sono impegnati a fare qualcosa. Comincio a sentirmi a disagio. Ho come la sensazione di essere fuori luogo e di disturbare, pur non facendo nulla. Poi mi accorgo di un'altra cosa strana: non si sente nessun rumore. Eppure c'è chi prepara da mangiare, chi si prepara per dormire, chi si prende cura delle armi. Nessuno parla e nessuno emette il minimo rumore; mi sembra di essere ritornato nella bambagia della nebbia. Anche il fuoco acceso verso il fondo è strano, dà calore, ma non c'è fumo e non c'è il rassicurante scoppiettio della legna che brucia. L'ufficiale, come se avesse captato i miei pensieri, mi si avvicina nuovamente e con un sorriso mi porge un'altra coperta, per poi tornare in silenzio assieme agli altri. Che abbia voluto farmi capire di non curiosare? Decido di farmi i fatti miei e di mettermi a dormire, ma, mentre sto per coricarmi, il graduato ritorna da me ed appoggia per terra una gavetta con un liquido fumante che profuma di caffè. Lo ringrazio e mi attacco subito al corroborante liquido che il mio organismo accetta con gratitudine. Ripongo la gavetta a terra, ma quando sto finalmente per stendermi a godere l'agognato riposo un botto improvviso lacera il silenzio finora opprimente, subito seguito da altri. Non sono tuoni quelli che sento, sono deflagrazioni d'artiglieria. Mi alzo di scatto e cerco di guadagnare l'ingresso, ma l'ufficiale mi si para davanti e mi invita a tornare nel mio angolino. Gli chiedo se è in corso qualche manovra dell'esercito, ma l'uomo si limita ad indicarmi la coperta, con un gesto silenzioso, ma che non ammette repliche. Con un po' d'agitazione in corpo, mi distendo nuovamente e provo a chiudere gli occhi. Una sensazione di pace e benessere mi pervade quando alle orecchie, ma forse di più nella testa, mi giunge un melanconico coro degli alpini che stanno intonando una delle loro belle canzoni. L'atmosfera, attorno a me, si fa calda e accogliente. Avrei voglia di alzarmi e di aggregarmi al loro canto, ma quando volgo lo sguardo agli alpini che stanno cantando, ho come l'impressione che nessuno muova le labbra. Il solito ufficiale si gira verso di me e mi fa un cenno di assenso con il capo. Mi copro per bene e rimango sospeso tra sogno e realtà, cullato da quella incredibile melodia che adesso copre completamente ogni mio pensiero ... in breve mi addormento. Un raggio di sole entra dal largo portale d'ingresso ed illumina l'altro lato della caverna. Guardo il soffitto e penso che non ricordo di aver mai dormito così bene in vent'anni di Canin. Nemmeno in bivacco. Faccio per scostare la coperta, ma mi accorgo di non averla più addosso. Mi volto su di un fianco e mi guardo intorno; non c'è più nessuno. Se ne sono andati via tutti senza svegliarmi ed io naturalmente non li ho minimamente sentiti; devo aver dormito come un sasso. Guardo un po' meglio attorno e lo sguardo si posa su di una vecchia gavetta che giace rovesciata tra i miei piedi. La raccolgo. E' ridotta piuttosto male. Il fondo è quasi consumato ed alcuni minuscoli fori fanno passare la luce quando la osservo contro lo specchio dell'ingresso. Mi alzo e controllo anche il luogo dove ho dormito: in un anfratto della roccia rimane un brandello di coperta che, una volta raccolto, mi si sbriciola tra le mani. La curiosità mi fa avvicinare al luogo dov'era acceso il fuoco. Sul terreno non ci sono né il cerchio di pietre, né le ceneri, né i resti di legna carbonizzati. Il suolo, in quel punto, è costellato da un velo congelato di neve dal quale spunta qualche corta stalagmite di ghiaccio. Alzo gli occhi al soffitto e respiro a fondo. E' tutto annerito, ma non dal fuoco della notte precedente. Mi sento, a dir poco, frastornato. Frugo ancora un po' nel terreno semi-ghiacciato e dalla terra escono alcune suppellettili militari. Un coltellino a serramanico, un resto di scarpone, alcune fibie dello zaino ed alcune scatolette indecifrabili. Esco dalla caverna e rimango estrefatto. Sulla neve all'esterno sono impresse le orme di una sola persona. Le mie! Della quarantina di alpini uscita dal riparo neanche un'impronta sul pur sottile manto nevoso. Ancora incredulo, guardo verso la vallata sottostante e vedo nitidamente il percorso che ho compiuto il giorno precedente per giungere fino a qui. E' indubbiamente il percorso di un ubriaco; con illogici saliscendi per aggirare ostacoli immaginari. Beh!, l'importante è stato riuscire, bene o male, a trovare un ricovero. Un ricovero. Mi volto ancora una volta a guardare verso l'interno della caverna. Il raggio di sole che incomincia a penetrare mostra pareti levigate dall'acqua e un terreno in parte ghiacciato. Adesso non mi sembra più il confortevole riparo nel quale ho appena trascorso la notte. Indosso nuovamente la sottotuta in "pile" e getto la tuta sulle spalle, visto che il sole mi sta nuovamente scaldando. Esco e seguo le mie stesse tracce fino al cospetto del masso sotto la grande frana gialla. Sotto, i due sacchi brillano per il sottile strato di brina che li ricopre e che mi causa un brivido di freddo nel caricarmeli in spalla. Inizio a risalire sotto le pareti del Pic di Grubia e, in poco più di dieci minuti, sono davanti al bivacco. Apro la porta. Naturalmente è vuoto; gli ultimi a passare di qua, siamo stati noi, ieri. Sistemo un po' gli interni e mi porto sulla banconata calcarea che dà sulla conca sottostante. Tra poco i miei compagni dovrebbero apparire sul filo di cresta del Foran del Muss e infatti, come evocate dai miei pensieri, tre figure si stagliano lontane contro la neve che ricopre uniformemente il pianoro del Montasio. Tra poco meno di un'ora saranno nel bivacco. Cerco di non pensare troppo, ma non vedo l'ora di raccontare agli amici quanto ho passato durante la notte. Rientro nel bivacco e preparo un thè piuttosto forte, con "correzione", naturalmente. Quando entrano, sono visibilmente stanchi e accettano molto volentieri la bevanda ed ancora più volentieri la "correzione". Mentre bevono, racconto loro le mie vicissitudini, ma, ammesso che mi stiano ad ascoltare, mi liquidano con un "quanto hai bevuto stanotte?". Devo rassegnarmi. Com'era prevedibile, non mi danno retta. Mentre prepariamo gli zaini per il ritorno, cerco più volte di tornare sull'argomento, ma inutilmente. Un paio d'ore più tardi siamo in vista del Rifugio Gilberti e, dopo alcuni minuti, entriamo, accolti dal gestore che, vedendoci scendere da Sella Bila Pec, ha ben pensato di prepararci un angolino accanto alla stufa, dove ci sistemiamo con gratitudine. Mentre aspettiamo la moglie che apparecchia per il pranzo, Toni ci offre una delle sue insuperabili grappe, "tanto per stimolare l'appetito". I miei amici immediatamente incominciano a sconsigliarlo di darmi da bere, ricordando sarcastici le visioni della notte precedente. Il gestore però, valligiano di Resia e cultore di tutte le storie e leggende che riguardano i monti della sua terra, insiste perchè gli racconti la mia avventura. Tra i lazzi degli altri che insistono nel darmi dell'avvinazzato, inizio a narrare la mia storia. Toni mi segue attentamente ed è visibilmente pensieroso, tanto che anche gli altri, ad un certo punto, smettono di ridere. Quando finisco, il gestore rimane per qualche secondo silenzioso finchè, sistemandosi meglio sulla sedia, ci chiede che se abbiamo voglia di ascoltare una storia vera successa su quei monti. "Ricordo che un mio anziano parente mi raccontava che tutto ebbe inizio con la XII Battaglia dell'Isonzo. Era il 24 ottobre 1917, ed il vecchio si ricordava anche l'ora: le 2. Con un rombo terrificante di artiglieria, sulle linee della conca di Plezzo si abbattè il fuoco di preparazione più micidiale che si sia mai ricordato su tutto il fronte. In poche ore la brigata Friuli viene semidistrutta; vengono interrotti i collegamenti e la visibilità è praticamente nulla a causa del maltempo; le truppe che difendono il Rombon rimangono inesorabilmente isolate. Per evitare l'accerchiamento, viene ordinato loro di ripiegare sulla Sella Prevala. Il movimento di truppe inizia a sera e si protrae penosamente per tutta la notte, su di un terreno insidioso e coperto dalla neve profonda. E' il mattino del giorno 25 quando, circa 1200 uomini, raggiungono finalmente l'agognata Sella Prevala, dove si organizzano subito per approntare la difesa. Alle prime luci del 26 ottobre le truppe austriache si schierano contro Sella Prevala. Nonostante i ripetuti attacchi, proseguiti anche durante tutta la notte, gli austriaci non riescono però ad avere ragione dei difensori della Sella. Nella mattina del 27 vengono rinnovati gli attacchi contro Sella Prevala e Nevea; in alto, sulle vette, gli stremati superstiti del Rombon non cedono di un solo metro. Poco dopo, però, giunge l'ordine di ripiegare. Nel pomeriggio, a Nevea gli austriaci travolgono le esigue forze di copertura rimaste e i coraggiosi difensori di Sella Prevala, isolati, senza più viveri nè munizioni, non potendo scendere a valle, devono ripiegare con una lunga marcia nella neve fresca attraverso tutto l'acrocoro del Monte Canin per cercare poi di scendere dai valichi montani della Val Resia. Gli alpini oltrepassano la Forchia di Terra Rossa e si radunano al ricovero militare di Sella Buia. Il 29 ottobre alcuni reparti scendono a Chiusaforte, ma la maggior parte decide di scendere in Val Resia. Gli austriaci, però, hanno già occupato Stolvizza, tagliando così ai militari italiani l'ultima possibile via di fuga. Verranno tutti avviati ai campi di prigionia. All'appello manca un reparto di alpini che non è mai giunto alle Forchie di Terra Rossa e all'appuntamento in Sella Buia". Da questo episodio nasce la leggenda del "Battaglione Fantasma". Molte persone che frequentano il Canin giurano di aver visto i fantasmi di quel reparto, mentre altri sostengono di aver sentito chiaramente il passo cadenzato delle truppe alpine nella notte o nella nebbia". Ci guardiamo increduli; è possibile che sia capitato proprio a me di incontrare il "Battaglione Fantasma" o, forse, più semplicemente ho sognato tutto quanto? Ho paura che non lo saprò mai. Toni sembra pensare che il mio racconto sia vero e, battendomi la mano sulla spalla, mi fa capire che sono stato fortunato. "Dobbiamo brindare all'incontro" ci dice alzandosi e avviandosi verso il bancone. Ritorna dopo un poco con dei bicchierini di grappa e, levatone uno, propone un brindisi. "Al Battaglione". "Al Battaglione" ripetiamo all'unisono. Poi, appoggiato il bicchiere, ci fa presente che, se non ci sbrighiamo, rischiamo di veder partire per la valle l'ultima funivia e, visto la mole di materiale che ci portiamo appresso, non è il caso di perderla. Tutte queste storie ci hanno fatto dimenticare per un momento la realtà. Percorrendo la strada che da Sella Nevea ritorna a valle sono, come al solito, preso dai miei pensieri. Ogni volta che mi allontano dal monte Canin, non posso fare a meno di pensare a quante leggende hanno ispirato questi fantastici luoghi.

Franco Gherlizza