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“Calabria”
– Anno XXXIII - n° 220 - dicembre 2005 - pag.
44 |
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Vent’anni
fa i cittadini di dodici comuni tirrenici votarono no al carbone
Il
referendum che salvò Gioia Tauro
Oggi
si parla tanto, con ammirazione, dei referendum svizzeri. Ma
in questi giorni ricorre il ventennale di uno straordinario
esempio di partecipazione democratica tutta calabrese. Con un
maxireferendum che coinvolse dodici Comuni della Piana di Gioia
e del Vibonese venne fuori dalle urne una valanga di “No”
all’insediamento di una centrale a carbone dell’Enel.
Anche grazie a quell’iniziativa venne così bocciata
una enorme centrale di 2640Mw (quattro gruppi di 660 megawatt)
per la produzione di 15 milioni di Kwh e il progetto di ridurre
il porto e tutta l’area a un grande, devastante, terminal
carbonifero.
di
Nuccio Barillà
Storia di
un anniversario, di un avvenimento straordinario il cui ricordo
a distanza di 20 anni rimane impresso, vivo ed incancellabile,
nella mente e nell’animo di tanti che l’hanno vissuto.
La data – ventidue dicembre 1985 – richiama il giorno
in cui i cittadini di un’area importante e fragile della
nostra terra si presero la parola e la usarono, scrivendo una
delle pagine più significative, di lotta e di partecipazione
democratica, della storia recente non solo della Calabria ma
dell’intero Paese.
Quella domenica di fine anno, in ben dodici comuni della Piana
di Gioia Tauro e della fascia tirrenica si svolse il referendum
consultivo autogestito relativo alla megacentrale a carbone
che l’Enel ed il Governo, con un atto di inaudita arroganza,
avevano deciso di costruire, a tutti i costi, nel “deserto
artificiale” tra Gioia e San Ferdinando. Nello stesso
luogo dove da oltre un decennio si erano già consumate
tante cocenti illusioni e vergognosi inganni.
Fu una grande e rischiosa scommessa democratica, niente affatto
scontata. Fino all’ultimo, i promotori del referendum,
dai sindaci, ai volontari dell’Arci, alle associazioni
ambientaliste, a quelle produttive e culturali, dai partiti
ai sindacati e agli studenti, che si erano riuniti nel comitato
per i referendum, erano rimasti con il fiato sospeso. Nelle
settimane precedenti avevano girato a tappeto, in lungo ed in
largo, tutta la Piana, comune per comune, scuola per scuola,
piazza per piazza. Per ascoltare, sollecitare, discutere, spiegare.
Avevano avvertito, dappertutto, il soffio di un vento positivo
e la conferma di una sensibilità diffusa, ma nessuno
avrebbe potuto prevedere con esattezza quale sarebbe stata la
risposta, soprattutto in termini di partecipazione, dei cittadini
della Piana rispetto all’appuntamento inedito che avevano
fissato. C’era a temere che il clima natalizio distraesse,
invogliasse alla passività. Per non parlare delle eventuali
pressioni mafiose tese a fare disertare le urne. Infine il “fumo
negli occhi” diffuso copiosamente dai sostenitori della
centrale. L’Enel, in particolare, avendo fiutato i rischi
connessi al pronunciamento popolare, aveva affittato, a spese
della collettività, spazi pubblicitari presso le televisioni
private per la trasmissione ossessiva nelle settimane precedenti
il referendum, di un filmato su “le vie del carbone”,
distribuendo soldi a destra e a manca; mentre funzionari dello
stesso Ente elettrico, catapultati da Roma, andavano a tenere
“lezioni” nelle scuole sui problemi energetici.
Si votò nei comuni di Cinquefrondi, San Giorgio Morgeto,
Maropati, Melicucco, Polistena, Palmi, Cittanova, Taurianova,
Feroleto della Chiesa, Rosarno ed anche a Ioppolo e Nicotera,
nella fascia tirrenica vibonese. Come d’incanto i dubbi
furono spazzati via: la risposta popolare fu eccezionale, andò
ben oltre le più rosee previsioni.
Alle urne si presentarono complessivamente 36.583 cittadini
su circa 67 mila aventi diritto, addirittura più di quanti
ne erano andati il 12 maggio precedente in occasione del referendum
nazionale sulla scala mobile. Una percentuale media del 54 per
cento, con punte del 71 per cento o del 65 per cento in grossi
centri come Rosarno e Polistena. Le operazioni di voto si svolsero
in modo assolutamente regolare, in un contesto organizzativo
rigoroso ma anche ordinato e disteso. Più di cento sezioni
elettorali con scrutatori e presidenti di seggio, le guardie
municipali e le forze dell’ordine a vigilare, le schede,
i registri ufficiali dei votanti, l’esibizione dei certificati,
i consueti capannelli fuori dai seggi a commentare.
Schiacciante ed inequivocabile la vittoria dei No che totalizzò
35.295 voti, oltre il 97 per cento. A favore della Centrale
a carbone si espressero soltanto 933 elettori, appena il 2,6
per cento. La percentuale più alta di no si ebbe nei
Comuni di Maropati e Nicotera con il 99,2 per cento.
L’esito dello scrutinio venne giudicato quasi unanimemente
sulla stampa “un plebiscito, un evento straordinario,
un esercizio collettivo e maturo di democrazia, un segnale di
chiarezza e di speranza per la Calabria”. Non era sfuggito,
ai commentatori più oculati, il fatto che la gente si
fosse recata alle urne non solo per protestare e per ribadire
un corale e deciso no alla centrale a carbone “che uccide”
ma anche per rivendicare l’aspirazione corale ad un futuro
diverso per sé stessi, per i propri figli e per i propri
territori, fondato sul lavoro pulito e stabile, sul rispetto
dell’ambiente e della vocazione dei luoghi, sul proprio
diritto di decidere. La notizia trovò buono spazio anche
a livello nazionale, sebbene non ebbe l’evidenza che avrebbe
meritato un esperimento di partecipazione diretta e una battaglia
ambientalista di massa, senza precedenti nel Paese. Una mobilitazione
di popolo certamente più poderosa della stessa Montalto
di Castro. Ancora più significativa in quanto effettuata
in un’area del profondo sud che tanti consideravano “terra
di conquista”, persa alla legalità e alla democrazia.
Legittima la soddisfazione dei rappresentanti del fronte del
no, a partire dal battagliero presidente, e “anima”,
del comitato dei sindaci Mommo Tripodi che dichiarò a
caldo: «Il risultato plebiscitario evidenzia la volontà
popolare di partecipare alle scelte economiche e politiche che
interessano la Piana, sconfigge ogni volontà centralistica
ed autoritaria e la politica di tipo coloniale che si vorrebbe
perseguire con la centrale ed esalta il ruolo dei comuni che
hanno condotto una battaglia di civiltà e di progresso».
Sferzante l’onorevole Giacomo Mancini: «La libera
e schietta volontà delle popolazioni ha prevalso in modo
chiaro e limpido nei confronti delle mediazioni furbe, delle
manovre e dei tentativi di persuasione occulta operate dai centri
di potere esterni agli interessi della regione». Unanime
il coro dei rappresentanti nazionali e locali dei partiti, da
Bassolino a Ronchi, da Valenzise a Zavettieri. Il segretario
provinciale del PCI di Reggio Calabria (attuale presidente del
Consiglio regionale), Giuseppe Bova, consegna ai taccuini la
enorme soddisfazione per un risultato «in cui si esprimono,
insieme, le tradizioni positive della Calabria laboriosa, i
bisogni, i progetti, la volontà di decidere e di contare
delle giovani generazioni».
Ma cosa ci fu davvero dietro quei 36 mila no? Ci fu soprattutto
– come evidenziò bene in un articolo su “Calabria”
(gennaio 1986), Santino Salerno - «una popolazione variegata,
anche divisa sul piano delle ideologie e della politica, multiforme
per cultura, condizioni sociali ed economiche, situazioni ambientali….
Il legante che tenne insieme tutti fu la paura del “mostro
inquietante”, dunque la difesa dell’ambiente e della
salute, quali beni assoluti e non barattabili. Ma a creare unità
e compattezza fu anche la presa di coscienza collettiva che
una diversa via di sviluppo – scelta dal basso, capace
di valorizzare, anziché depredare, le risorse, tenendo
insieme le ragioni dell’ambiente e del lavoro –
non solo era possibile ma era l’unica, dati alla mano,
utile e proponibile per la Piana».
Veniamo ad oggi: il ventesimo anniversario del referendum sulla
centrale a carbone per una felice circostanza coincide con il
decennale dell’avvio delle attività del Porto di
Gioia Tauro, diventato in questi anni il più importante
approdo strategico del Mediterraneo, una porta aperta sui mercati
orientali, il nodo di distribuzione dei container e dei traffici
“da” e “per” il Vecchio Continente:
una infrastruttura straordinaria simbolo di modernità
vera e di potenzialità enormi, anche se solo parzialmente,
finora, espresse e utilizzate.
Con legittimo orgoglio va rimarcato il fatto che di questo “miracolo”
(già oggi nelle attività del Porto sono occupate
circa quattromila persone) non ci sarebbe stata traccia se grazie
alla lotta determinata delle popolazioni, delle Istituzioni,
dei movimenti e dei partiti calabresi non fosse stata a suo
tempo respinta la prospettiva della costruzione della Centrale
a Carbone e, soprattutto il progetto di utilizzo del Porto quale
enorme terminal carbonifero.
Proprio questa considerazione deve spingere a proiettare il
nostro sguardo nel futuro. L’occasione dell’anniversario
va utilizzata per una riflessione sugli scenari che si prospettano
oggi per la Piana. Per rilanciare un impegno di lotta teso a
valorizzare, a partire dal Porto, un modello di sviluppo “virtuoso”
ed ecosostenibile (che ha radici lontane). E’ fondamentale
sapere tornare a tessere con sapienza il filo della responsabilità
e dell’impegno comune. L’anniversario del referendum
deve rappresentare lo stimolo non solo per rivendicare con orgoglio
il passato ma soprattutto per preparare un “ritorno al
futuro”.