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“Il
Quotidiano della Calabria” – Venerdì
23 giugno 2006 - pag. 25 |
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Pino
Paolillo (Wwf Calabria) denuncia la cementificazione di buona
parte del litorale regionale
In
Calabria un turismo insostenibile
LA Calabria,
si sa, è la regione che si vanta dei suoi quasi ottocento
chilometri di costa, ma non si vergogna di averne cancellato
buona parte sotto un diluvio di cemento, proponendosi, anzi,
di eliminare i pochi lembi ancora sopravvissuti allo scempio
in nome di una perenne e mai raggiunta "valorizzazione
turistica".
Il paradosso, se non l'autentica follia, che ha caratterizzato
tutta la recente storia dell'assalto alle aree costiere della
terra dei Bruzi , consiste nell'aver deturpato e imbruttito
con il cemento quello che a parole si diceva di voler salvaguardare,
vale a dire il patrimonio di natura rappresentato dalle spiagge
e dalle scogliere della Regione; regalo del Padreterno ai Calabresi,
per chi ci crede, o prova a favore dell'ateismo se si considera
che, dopo averla creata, ci ha messo proprio quelli che l'avrebbero
distrutta.
Ma la cosa ancora più incredibile e inaccettabile è
che, nonostante il riconoscimento unanime degli sfregi inflitti
al territorio costiero da una dissennata politica del pilastro,
ancora oggi, il termine valorizzare continua a fare rima con
cementificare.
Non c'è comune costiero, foss'anche il più piccolo,
che non abbia nel cassetto un progetto di valorizzazione turistica
a base di campeggi, alberghi, campi da golf e megavillaggi,
porti e porticcioli, alla faccia delle Linee Guida e dei proclami
di salvare quello che è rimasto di questa terra disgraziata.
Questo dipende, a mio avviso, da diversi fattori, che elenco
in ordine sparso, a cominciare da quello che definirei della
megalomania tipica dei Calabresi.
Il guaio è che, per ogni calabrese, il suo è davvero
il paese più bello del mondo, non avendo elaborato, sin
dall'infanzia il concetto di bello ed essendo culturalmente
incapace di percepire tutto il degrado, il precario e il brutto
che lo circondano.
Ecco perché la Calabria è forse l'unica regione
in cui tutti i paesi ritengono di avere un patrimonio turistico
da "valorizzare", magari per la solita chiesa come
ce ne sono centomila, con "opere" dell'immancabile
artista locale o di un anonimo pittore purché sia "di
scuola napoletana". Per cui non è mancato chi ha
paragonato l'autore di un monumento nella piazza del Paese al
Bernini o al Brunelleschi. A ciò si aggiunge, solo in
apparente contraddizione, il disprezzo totale dei Calabresi
verso l'ambiente, spiegabile con il fatto che il calabrese,
la sua regione, la ama solo a parole, amando in realtà
solo se stesso e la famiglia che lo ha allevato. Per spiegare
questo atteggiamento i sociologi hanno coniato il termine "familismo
amorale" mentre noi, molto meno scientificamente, sintetizzeremo
nel vecchio adagio: "Fuori dalle mie tasche, a chi piglia,
piglia". Tornando al discorso della (mancata) tutela delle
coste, viene da chiedersi come mai lo scempio sia stato perpetrato
per decenni e continui tuttora, senza che sia sviluppato un
moto di ribellione, una rivolta civile dei calabresi contro
la distruzione della "loro" terra. La risposta al
quesito è semplice e drammatica al tempo stesso: perché
noi concepiamo come "nostro" e quindi difendibile
con le armi, solo quello che effettivamente risulta di nostra
proprietà, dalla casa, all'automobile, dal recinto delle
pecore, alla "tumulata" di uliveto. Tutto il resto,
cioè quello che materialmente non ci appartiene, il cosiddetto
"patrimonio della collettività", il "bene
pubblico", siano essi una strada o i giardinetti pubblici,
le cabine telefoniche o la pineta litoranea, li concepiamo come
cosa di nessuno, nel senso che ognuno può farne ciò
che vuole . Ma state pur certi che, di questi folli che in Calabria
lottano per il "bene di tutti", ce ne sono sempre
di meno, essendo ormai accertato da indagini geriatriche che
il principale fattore di longevità della regione, prima
ancora dell'aria e del vino buoni, è rappresentato dallo
stile di vita di chi ha pensato solo ed esclusivamente ai …
suoi.
Sta di fatto che tutti siamo convinti che la nostra sia una
regione turistica o meglio, per come sento ripetere da una vita,
una regione dalle "grandi potenzialità turistiche",
in grado di attrarre "importanti flussi turistici".
C'è da chiedersi invece con molto realismo cosa sarebbe
del tanto decantato turismo calabrese, se non ci fosse il ritorno
estivo degli emigrati e la migrazione balneare verso le seconde
case di chi, per undici mesi all'anno, vive nelle città
dell'entroterra. A questo bisogna senz'altro aggiungere quel
po' di turismo nazionale, caratterizzato da un fortissima stagionalità
e un timido turismo straniero, estremamente concentrato geograficamente,
praticamente solo sulla costa vibonese, favorito da pacchetti
"tutto compreso" piuttosto allettanti dal punto di
vista economico . E capisco pure che a un Russo o ad un Ucraino,
poter fare un bagno fino a settembre o a ottobre, gli sembra
un miracolo, così come capii quel turista napoletano
che, intervistato davanti ad una fogna che finiva a mare perché
esprimesse tutto il suo disappunto, mi rispose che per lui quel
tratto di spiaggia "era oro". Ma se solo volgiamo
lo sguardo attorno, senza il paraocchi della retorica bugiarda
dei depliant turistici, quel che resta del panorama costiero
calabrese è davvero desolante.
Il trasferimento di nuclei insediativi dalla collina al mare,
con la nascita di interi paesi a ridosso delle due statali,
la 18 da un lato e la 106 dall'altro, la realizzazione, specie
a partire dagli anni settanta, dei condomini di seconde case,
insieme alla costruzione di villaggi turistici, hanno inferto
delle ferite ormai insanabili a quello che era il paesaggio
costiero calabrese, conservatosi praticamente intatto per secoli
anche a causa della scarsa propensione "storica" dei
calabresi ad abitare vicino al mare per via delle incursioni
saracene sulle nostre coste e della zanzara Anofele sulla nostra
pelle. Fallito il sogno industrialista di vari pacchetti (meglio
sarebbe chiamarli "pacchi") Colombo, per il popolo
Calabrese ecco scatenarsi la corsa al mattone litoraneo che
ha sfigurato letteralmente il volto "marino" della
regione, fino a far diventare la Calabria uno dei simboli negativi
dell'aggressione selvaggia al territorio.
La "città nastriforme" che accompagna monotonamente
il viaggiatore che da Praia a mare si dirige verso Sud, il coacervo
cementizio di villette, strade e villaggi di Capo Vaticano,
i pilastri piantati nella roccia di Copanello, immortalati nel
calendario della regione Calabria come fossero un'opera d'arte,
sono gli esempi della rapina scellerata portata avanti ai danni
dell'unica vera ricchezza di cui eravamo dotati. Non vorrei
trovarmi nei panni di un fotografo incaricato dalla Regione
Calabria o da una qualsiasi APT per una pubblicazione o per
un poster pubblicitario sulle bellezze paesaggistiche della
regione: di anno in anno dovrei restringere il campo visivo
per poter mostrare Le Castella di Isola Capo Rizzuto senza l'assedio
del cemento poco medievale, o il mitico Stretto di Scilla e
Cariddi senza l'inferno urbanistico della periferia reggina.
Se in Sicilia gli Arabi hanno lasciato i loro capolavori, al
di qua dello stretto l'unica architettura che abbiamo saputo
inventare è il "non finito" calabrese a base
di mattoni forati e ferri di richiamo.
Sembra proprio che la nostra presunzione sia talmente grande
da impedirci di guardare con coraggio alla realtà per
continuare invece a proporci ridicolmente ora come la "California
d'Europa" o il Mar dei Caraibi o persino la Svizzera se
solo si arriva a Camigliatello Silano. Siamo talmente abituati
al degrado che ci circonda, che non solo non ce ne vergogniamo,
ma addirittura lo giustifichiamo! Se provate a dire che il mare
è inquinato, qualche sindaco di sicuro vi risponderà
risentito che è "solo" sporco, o vi inviterà
a guardare al comune vicino, e tutti grideranno al complotto
degli albergatori riminesi per non far venire i turisti a godere
delle nostre belle spiagge piene di spazzatura o della proverbiale
ospitalità dei calabresi. O dei servizi impeccabili di
tanti locali estivi dove trovare un bagno (possibilmente pulito),
con tanto di sapone e carta per asciugarsi le mani, diventa
un'impresa. E' dunque sostenibile il turismo calabrese?
Se guardiamo a tutti gli effetti negativi provocati dall'invasione
estiva (i famosi "due mesi all'anno"), che vanno dall'inquinamento
del mare al caos automobilistico, dalla congestione delle strade
litoranee, all'aumento dei prezzi, dall'inquinamento acustico
dei centri urbani, al consumo di suolo di parcheggi, strade
e tratti di costa, fino ai problemi connessi allo smaltimento
dei rifiuti solidi urbani, la risposta è sicuramente
negativa. Prova ne sia l'ormai consueto balletto di cifre sulla
balneabilità del nostro mare. Ve lo ricordate l'ex Governatore
Chiaravalloti che ci rassicurava sul 98% di mare limpido mentre
metà dei calabresi si domandava come mai a loro toccasse
fare il bagno in quel rimanente 2% di fogna? Del resto è
davvero e significativo che dei 183 Siti di Importanza Comunitaria
(SIC) calabresi individuati secondo la Direttiva CEE 92/43,
le aree costiere sono solo 21. Ovviamente le norme di tutela
sono rimaste sulla carta e la stessa esistenza di questi SIC
è sconosciuta ai più e anzi, l'alluvione cementizia
non solo non accenna a diminuire, ma continua a manifestarsi
persino nelle aree che dovrebbero essere tutelate. Si badi bene
però che non ci troviamo di fronte ad un problema tanto
di abusivismo edilizio, considerato che la maggior parte delle
strutture, anche in zone prossime al mare, godono di tutte le
autorizzazioni e le concessioni previste. Il problema vero è
che una concessione in Calabria non si nega a nessuno e in nessun
posto, con il rischio che buona parte delle aree individuate
per la designazione a Zone Speciali di Conservazione da parte
della Comunità Europea, tra non molto dovranno essere
semplicemente depennate dall'elenco, perché saranno state
cancellate dal cemento o da qualche villaggio turistico. Per
essere veramente sostenibile, una politica del turismo in Calabria,
stando così le cose, dovrebbe puntare non più
verso uno "sviluppo" del turismo in termini puramente
quantitativi, quanto sulla tutela del residuo patrimonio naturalistico
scampato alla frenesia edilizia da un lato e il miglioramento,
in termini qualitativi, dell'offerta turistica dall'altro. Il
riproporsi puntuale di tutte le problematiche connesse ad uno
sfruttamento eccessivo del territorio nel periodo estivo conferma
che in molte zone si è superato il limite di carico sopportabile,
oltre il quale subentrano il degrado progressivo prima e la
distruzione poi di quel patrimonio ambientale che rappresenta
il principale motivo di richiamo per un'offerta turistica compatibile.
Per far ciò occorre un grande sforzo di consapevolezza
e di analisi della realtà, riconoscendo il carattere
particolare del fenomeno turistico nella nostra regione. Che
non è né quello della riviera romagnola, schiacciati
come siamo da un atavico individualismo e incapaci di quelle
forme di organizzazione e di cooperazione tipiche di altre realtà,
né quello del turismo di élite della Sardegna
o della Liguria.
E qui veniamo alla "vexata quaestio" dei porti. Ci
sarà pure un motivo se i porti realizzati in Calabria,
quando non sono insabbiati o quando non manca la pompa per il
carburante, o quando non bisogna pagare la mazzetta, sono pieni
di barche di vetroresina tipo "ferro da stiro" dei
pescatori di "surici" e ricciole, mentre l'arrivo
di un battello americano fa parlare i giornali per una settimana,
com'è accaduto a Sibari, la famosa "Venezia del
sud" (sic!).
Altro che paragoni improponibili con le Cinque Terre (dove le
barche le sollevano con le corde per portarsele sotto casa)!
E' vero che la Sardegna, che non vuole sicuramente essere un
modello di turismo sostenibile, di porti ne ha, ma ha conservato
centinaia di chilometri di costa, dei suoi oltre 1800, dove
non c'è neanche l'ombra di un mattone e dove l'attuale
giunta regionale ha posto nuovi vincoli per fermare l'invasione
del cemento.
Qui abbiamo una serie di porti che non solo non hanno mai rappresentato,
per come si è sempre detto prima della loro realizzazione,
un volano economico per il territorio circostante, ma addirittura
sono diventati troppo spesso il simbolo, uno dei tanti purtroppo,
dell'improvvisazione, dello sperpero di denaro pubblico, della
cattiva gestione, se non addirittura di autentici fallimenti.
A Roccella ci sono voluti venti anni - lo ha dichiarato il Senatore
Zito - perché si aprisse al porto una pizzeria, le docce
e un ufficio informazioni e non mi pare che a Sibari i cassanesi
si siano arricchiti con il porto che si insabbia un anno sì
e l'altro pure.
Ma, ciò nonostante, ogni comune costiero continua ad
invocare il suo porto o approdo turistico, magari a poche miglia
l'uno dall'altro, senza pensare neanche per un attimo che, alla
fine, l'unica cosa che resterà da visitare in Calabria
dopo aver lasciato un porto, non sarà che un altro porto!
Evitiamo dunque di inseguire improponibili sogni di brulicame
umano tipo Cesenatico e Riccione e rimbocchiamoci le maniche
per salvare quel poco di bello che ci è rimasto, come
le scogliere di Capo Vaticano e della Costa Viola. Troviamo
finalmente il coraggio per dire basta a nuovo cemento, a nuovi
insediamenti che distruggono la base del nostro futuro e per
migliorare l'esistente.
Proviamo a rendere percorribili le strade colabrodo, eliminiamo
tutta la spazzatura e le discariche che in molti casi sono diventate
parte integrante del paesaggio e rendiamo il mare veramente
pulito, visto che il nostro, anziché essere un Mediterraneo
da scoprire, da troppo tempo è diventato un Mediterraneo
da pulire. Non saremo mai né la California d'Europa ,
né i Caraibi del Mediterraneo, ma basterebbe una spiaggia
dove d'estate fiorisce ancora il Giglio di mare e dei fondali
con la Posidonia agitata dalle onde o una Donzella pavonina
che scompare tra gli scogli. Sono convinto che, per un turista,
siano i ricordi più belli che vorrebbe conservare per
tutta la vita.
Quando i Calabresi lo capiranno, se mai lo capiranno, sarà
troppo tardi.
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Wwf Calabria