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“Il
Domani” – Mercoledì 1 novembre 2006
- pag. 12 |
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Secondo
i risultati di un’indagine di Legambiente e Protezione
civile è molto alto il rischio idrogeologico nei paesi
della regione
Dall’ambiente
una lezione mai imparata
«La
Calabria non si può permettere di aspettare la prossima
catastrofe annunciata»
VIBO VALENTIA
– Una classe di “asini” in cui la sufficienza
è un traguardo per pochissimi: su 41 amministrazioni
comunali calabresi riescono a strapparla solo in sei (San Pietro
Apostolo, Pizzo, Taverna, San Nicola da Crissa, Rossano e Sersale).
Tutte le altre, comprese le città capoluogo di Crotone,
Vibo Valentia e Cosenza – ultima della classe insieme
a Spezzano Albanese, Mammola e Cervicati – sono bocciate
e senza pietà. Difficile, in effetti, fare appello alla
comprensione viso che la Calabria ha avuto tempo e modo per
imparare, a sue spese, che il rischio idrogeologico non è
un concetto astratto: dieci anni fa lo ha drammaticamente insegnato
l’alluvione di Crotone, poi lo ha ricordato la tragedia
di Soverato e, infine, il 3 luglio scorso, lo hanno richiamato
alla mente anche i 4 morti di Vibo Valentia. Ma nei 409 comuni
calabresi, tutti classificati a rischio frana o alluvione dal
ministero dell’Ambiente, le molte, dolorose lezioni non
sono state evidentemente ancora assimilate. I risultati dell’indagine
che Legambiente e il Dipartimento della Protezione civile hanno
realizzato nell’ambito di “Operazione Fiumi 2006”
non lasciano, da questo punto di vista, molti margini di dubbi.
«E’ l’unico caso in Italia in cui non abbiamo
individuato neppure un esempio positivo da poter additare agli
altri Comuni», ha ammesso ieri mattina a Vibo Valentia
Simone Andreotti, responsabile nazionale della
campagna di Legambiente, illustrando nella sede della Provincia
i dati di ”Ecosistema Rischio 2006”. Dati che, certo,
non potranno essere tacciati di faziosità visto che a
fornirli sono state direttamente le amministrazioni comunali
rispondendo a un questionario sulle loro attività di
prevenzione (piano di emergenza, manutenzione degli alvei dei
fiumi, sistemi di allerta, esercitazioni di protezione civile,
delocalizzazioni). Una sorta di “autocertificazione”,
quindi, che non offre possibilità di scampo: in 8 Comuni
su dieci case e quartieri sorgono ancora in zone a rischio,
solo sei Comuni su dieci hanno un piano di emergenza ma, nella
maggior parte dei casi, non aggiornato negli ultimi due anni.
Inoltre, non solo non si trasferiscono le strutture in zone
più sicure ma si continua a costruire in quelle a rischio
confidando in opere di messa in sicurezza mai ultimate o ancora
da venire.
«Cosa si può dire quando la stessa Università
di Reggio Calabria costruisce il suo ostello degli studenti
nel letto della fiumara?», si è polemicamente chiesto
Andreotti, aggiungendo che «la Calabria non si può
permettere di aspettare la prossima catastrofe annunciata, anche
perché i fenomeni idrogeologici sono ciclici».
Ma, da calabrese, il presidente regionale di Legambiente Antonio
Morabito sa che a questa latitudine si fa più
fatica che altrove a imparare la lezione: «Trentacinque
anni fa l’intero paese di Roghudi è stato costretto
da una frana a trasferirsi a valle, con dolorose conseguenze
psicologiche per la comunità. Ma da allora è evidente
che nulla è cambiato visto che, per esempio, il piano
di prevenzione del rischio della Regione attende da un anno
di essere approvato. E come se vivessimo in una “baraccopoli”
con le amministrazioni comunali che si occupano del superfluo,
invece di pensare a garantire prima di tutto fondamenta stabili.
Serve un sussulto di vergogna e soprattutto l’indignazione
della società civile».
Francesca
Chirico