Rifiuti
tossici e radioattivi. Smaltimenti illeciti di scorie.
Faccendieri, trafficanti d’armi, servizi segreti,
mafiosi... Navi affondate. Il giallo della Motonave Rosso.
Ilaria Alpi.
L’Espresso pubblica un’inchiesta, a firma
di Riccardo Bocca, su uno dei più intrigati gialli
degli ultimi anni che vede la magistratura calabrese impegnata
da oltre un decennio.
Sapremo la verità?... Quella vera?
UNA
NAVE ROSSO VELENO
di
Riccardo Bocca
Le
parole di Ivano Tore, comandante del nucleo operativo dei Carabinieri
di Reggio Calabria, sono nette e gravi: «È emerso
uno scenario alquanto inquietante nel quale si muovono soggetti
senza scrupoli, a costo di attentare all'incolumità della
popolazione mondiale...» scrive in un'informativa al sostituto
procuratore di Reggio, Francesco Neri. «La documentazione
sequestrata supera anche l'umana immaginazione, facendo ipotizzare
nel contempo che la stessa sicurezza dello Stato Italiano possa
essere messa in pericolo». È il 25 maggio del 1995,
e in Calabria è in corso da circa un anno un'indagine
delicata quanto travagliata.
Un lavoro investigativo con al centro l'affondamento di una
serie di navi avvenuto nei mari Tirreno e Jonio, ma che al suo
interno racchiude molteplici altre ragioni di allarme. Il sospetto
degli inquirenti è che a bordo di queste navi ci fossero
rifiuti tossici e radioattivi, e che attorno a questa vicenda,
legata a nazioni europee e non, si sia mossa un'impressionante
rete di faccendieri, trafficanti d'armi, agenti dei servizi
segreti, uomini di governo e mafiosi. Tutti connessi da affari
che in alcuni passaggi s'incrociano con la Somalia e gli eventi
che il 20 marzo 1994 sono costati la vita alla giornalista del
Tg3 llaria Alpi e all'operatore Miran Hrovatin.
A questo intreccio si riferivano i Carabinieri nelle note per
la Procura. E su questo è stata svolta dagli uomini di
Reggio Calabria un'indagine durata sei anni, costellata da minacce
e pressioni, alle quali si è aggiunta il 12 dicembre
1995 la morte sospetta di Natale De Grazia, capitano di corvetta
e consulente chiave dei magistrati. Poi, malgrado le molte certezze
acquisite, l'intera questione è stata archiviata dal
giudice delle indagini preliminari, e a quel punto le decine
di migliaia di pagine sono passate per un errore burocratico
alla Procura di Lamezia Terme, presso la quali sono rimaste
circa tre anni.
Ora La partita è nelle mani della Procura di Paola, dove
una serie di nuovi e clamorosi indizi ha convinto il procuratore
capo, Luciano d'Emmanuele, ad aprire l'ennesimo fascicolo, incentrato
per competenza territoriale soprattutto su un caso: quello della
motonave Rosso della compagnia Ignazio Messina, arenatasi dopo
un principio di affondamento il 14 dicembre 1990 sulla spiaggia
di Formiciche nel comune di Amantea, in provincia di Cosenza.
Da qui sono partiti il sostituto procuratore Francesco Greco
e la sua squadra per dimostrare il dolo nel tentativo di affondamento
e l'occultamento dei rifiuti tossici o radioattivi, reato che
in caso di fallimento rischia di cadere in prescrizione. E sempre
da qui, dalla storia della motonave Rosso e dal cumulo di incongruenze
che la contraddistingue, è partito anche "L'Espresso",
ricostruendo con documenti e testimonianze esclusive una delle
storie più sporche degli ultimi decenni.
Tutto incomincia alle ore 7.55 del 14 dicembre 1990, quando
il comandante Luigi Giovanni Pestarino della motonave Rosso
lancia il suo mayday. In quel momento la nave si trova al largo
della costa di Falerna località a 15 chilometri da Amantea,
in provincia dì Catanzaro. Alle spalle ha un viaggio
nel Mediterraneo: è salpata dal porto di La Spezia il
4 dicembre facendo prima scalo a Napoli e poi a Malta, da dove
è ripartita il giorno 13. «Verso le 7 del mattino
- racconta Pestarino durante un interrogatorio - sento un colpo
proveniente dallo scafo sul lato sinistro, mi precipito sul
ponte, ho mandato subito il marinaio a controllare la stiva
e il garage e successivamente ho inviato anche il primo ufficiale
di coperta». In quel momento, dice il comandante, è
scattato l'allarme per la presenza di acqua nella nave, e «il
primo ufficiale ed il marinaio, tornati sul ponte mi informano
di aver riscontrato l'acqua in stiva, presumibilmente dovuta
a una falla ma non visiva». La nave intanto continua a
galleggiare ma sbanda, prima poco e poi sempre di più,
finché il timone non risponde e a motori fermi non resta
che attendere i soccorsi, sparando segnali luminosi e tenendosi
in contatto con la Capitaneria.
Alle 10 e un quarto il capitano e gli altri 15 membri dell'equipaggio
(più Domenico De Gioia, uomo della Messina, presente
ma non registrato a bordo) vengono recuperati da due elicotteri
che li portano all'aeroporto di Lamezia Terme, da dove vengono
trasferiti all'ospedale civile. Nel frattempo anche la nave
si è mossa. Invece di affondare, come tutti pensavano,
ha proseguito la sua incerta navigazione fino ad arenarsi sulla
spiaggia di Formiciche.
E qui si trova subito al centro di movimenti e decisioni singolari.
Fatti di cui parleremo più avanti, perché prima
vanno sottolineati due elementi cruciali. «Il primo -
scrive la guardia di Finanza - è che nel 1997 il comandante
Pestarino ha di nuovo sostenuto che una falla era effettivamente
presente in un locale della nave». E il secondo, si legge
nel documento, che questo particolare (determinante, in quanto
indizio di un naufragio involontario) viene smentito da Nunziante
Cannavale, titolare della ditta che si occupò della demolizione
della Rosso, il quale ha dichiarato: «Non siamo stati
in grado di stabilire da dove poteva entrare l'acqua, e questa
domanda ce la siamo posta anche più volte senza riuscire
a darci una risposta». Una versione in sintonia con quella
del sommozzatore incaricato dal Registro Navale Italiano di
fare un'ispezione alla Rosso, il quale nega qualsiasi falla.
E la riprova viene oggi da una videocassetta amatoriale, realizzata
a Formiciche nei giorni dopo lo spiaggiamento e acquisita agli
atti dalla Procura di Paola.
Il filmato, visionato da "L'Espresso", mostra che
le fiancate della motonave al momento dello spiaggiamento erano
integre, e che quindi la falla ipotizzata non c'era.
E’ con tali prove che oggi si ritiene possibile sostenere
l’accusa di affondamento doloso.
E proprio in questo senso è importante la dichiarazione
della Guardia di Finanza, secondo cui in considerazione della
totale assenza di falle o vie d'acqua, l'unica spiegazione plausibile
per l'ingresso di acqua all'interno della nave è l'accidentale
o dolosa apertura della tubatura antincendio che corre lungo
tutta la lunghezza della nave. Da parte di chi? E perché?
Non ci sono certezze. Di sicuro c'è solo che alle 2 del
pomeriggio del 14 dicembre 1990 la Rosso si arena a Formiciche,
sollevando grande curiosità tra gli abitanti della zona.
Una curiosità mista a preoccupazione, perché i
precedenti della Rosso, quando ancora si chiamava Jolly Rosso,
erano celebri e cupi. Nel 1988 la motonave era stata noleggiata
dal nostro governo per andare a recuperare in Libano 9 mila
532 fusti di rifiuti tossici nocivi, esportati illegalmente
da aziende italiane, e tornando in patria si era conquistata
il nomignolo di "nave dei veleni", restando poi in
disarmo nel porto di La Spezia dal 18 gennaio dell'89 al 7 dicembre
del ‘90. Il timore istintivo era dunque che anche stavolta
il carico della nave potesse essere pericoloso, e che inquinasse
la costa. Un'ipotesi allora non supportata da prove, ma che
oggi gli inquirenti considerano plausibile. Non a caso nei giorni
successivi allo spiaggiamento, attorno e a bordo della Rosso
si scatena un impressionante traffico. Alle 5 di mattina del
15 i carabinieri già ispezionano la motonave con i militari
della Capitaneria di porto di Vibo Valentia.
Lo stesso giorno accorrono i vigili del fuoco e poi salgono
a bordo i «rappresentanti della società armatrice
Messina . Un'ulteriore presenza è quella della Guardia
di Fi¬nanza. E a tutti questi interventi si aggiungono gli
agenti dei servizi segreti» di cui parla a verbale Giuseppe
Bellantone, comandante in seconda della Capitaneria di Vibo
Valentia. Alla fine, malgrado tante attenzioni, nessuna inchiesta
formale viene aperta dal ministero della Marina mercantile,
mentre i sospetti sul carico della nave anziché svanire
aumentano.
Il 22 dicembre l'armatore Messina affida infatti alle società
Siciliana Offshore e Calabria Navigazione le operazioni di bunkeraggio
(il recupero del combustibile sparso della Rosso) e stando ai
Carabinieri tale opera si conclude il 29 gennaio 1991. Ma quando
la società Mo.Smo.De di Cannavale acquista il relitto
per rottamarlo, «rinviene le sentine piene di liquidi
oleosi e nafta», vedendosi costretto a svolgere lavori
che verranno rimborsati dalla Messina con un risarcimento di
800 milioni di lire. Che cosa dunque hanno fatto, le società
incaricate del bunkeraggio? «Certamente operazioni di
bonifica di ben altra natura di quelle indicate dalla Capitaneria
di Vibo», scrivono i Carabinieri. E d'altro canto ancora
più oscuro è il successivo intervento di un'altra
società, l'olandese Smic Tak, «specializzata in
bonifiche a seguito di incidenti radioattivi, che nel 1981 partecipò
al recupero di materiale radioattivo contenuto in fusti, trasportato
da una nave che aveva avuto un incidente e si era spiaggiata
nel canale della Manica» (parole di Franco Scuderi, procuratore
capo di Reggio Calabria, davanti alla Commissione parlamentare
sul ciclo dei rifiuti). La Messina incarica la ditta olandese
di recuperare la motonave Rosso, ma i Carabinieri raccontano
che dopo 17 giorni di lavoro rinuncia all'incarico. Anche se
nel frattempo non è rimasta con le mani in mano: «Ricordo
di aver notato la presenza sul posto di un Tir e di qualche
altro mezzo di trasporto», dice Bellantone della Capitaneria
di Vibo. Ricorda anche «nella fase iniziale la presenza
di uno o più gommoni e di sommozzatori... Notai o comunque
mi fu riferito di una presenza praticamente costante di persone
nell'arco delle 24 ore... e un continuo andirivieni di persone
e di mezzi, in particolare nelle ore notturne».
L'altro lavoro che qualcuno ha svolto prima della demolizione
della Rosso (avvenuta malgrado la nave avesse solo 22 anni di
vita) è stato quello di aprire uno squarcio enorme nella
murata sinistra della stiva. «Detto squarcio», riferisce
ai Carabinieri il Cannavale, «non era assolutamente visibile
da terra», e a suo dire si era potuto verificare solo
dopo che la nave si era arenata. E' chiaro, dicono i Carabinieri,
che tale apertura è servita «per fare uscire dalla
stiva qualcosa di importante e voluminoso, e con assoluta certezza
si può dire che la “manomissione” è
stata fatta con professionalità e mezzi in possesso delle
ditte intervenute prima della demolizione». Circostanza
aggravata dal fatto che sul fondale marino vengono rinvenuti
un camion, un muletto da 40 tonnellate e tre container, malgrado
«non ci si spieghi come abbiano fatto a spostarsi da soli
verso lo squarcio e a cadere in mare, considerato che la nave
insabbiata non era soggetta a movimenti né longitudinali
né trasversali», scrive la Guardia di Finanza.
Inoltre, si legge, «corre l'obbligo di segnalare che nel
rapporto riassuntivo della Capitaneria di Porto di Vibo i container
vuoti stivati a prua del garage vengono quantificati in 25,
mentre quelli recuperati sono stati 17 vuoti dalla prua del
garage e tre nel fondo del mare in corrispondenza dello squarcio».
Qual era dunque la reale entità del carico? E che fine
hanno fatto i cinque container mancanti all'appello? Su questo
e su molto altro, vedremo poi, lavora oggi la Procura di Paola.
Dopo tanti anni c'è chi ha ritrovato la memoria, e sta
indicando modi e luoghi di smaltimento del presunto carico di
rifiuti tossici e radioattivi. Nei giorni dopo lo spiaggiamento
della Rosso, però, va sottolineato un altro fatto incredibile,
che modifica la prospettiva degli eventi e li collega a nomi
e scenari di livello internazionale. Protagonista è ancora
una volta Bellantone, il comandante in seconda della Capitaneria
di Vibo, il quale sulla plancia della motonave rinviene strano
materiale. Si tratta di una serie di documenti che, dice lui
stesso, «richiamavano la natura della radioattività»
ed erano introdotti dalla sigla O.d.m., ossia Oceanic Disposal
Management Inc., società creata da un certo Giorgio Comerio,
nato a Busto Arsizio (Varese) nel 1945. Tra queste carte, ha
spiegato il procuratore capo Scuderi, c'era pure una mappa marittima
con evidenziati una serie di siti. In teoria simili documenti
avrebbero dovuto perlomeno insospettire Bellantone, e invece
l'ufficiale ha tutt'altra reazione: «Ho riferito al magistrato»,
racconta a verbale, «che tra i documenti esistenti in
plancia vi erano dei fogli come di battaglie navali, tant'è
che sorridendo dissi che mi sembrava strano che giocassero alle
battaglie navali in plancia. Ricordo anche che restituimmo il
documento relativo alle battaglie navali (al comandante della
Rosso, cinque giorni dopo, ndr)». Un atteggiamento che
non convince gli inquirenti, e che si somma a un altro elemento
da cui poi hanno preso il largo le indagini mondiali.
Nel '95, durante una perquisizione nella villa dello stesso
Comerio a Garlasco (Pavia), sede in quel momento di un club
di Forza Italia, viene trovata la riproduzione del materiale
scoperto dal Bellantone sulla Rosso. Mappa compresa, che sulla
copia ereditata dei magistrati di Paola riporta i nomi di una
lunga serie di navi affondate nel Mediterraneo. Ingegnere brillante,
di grande intelligenza, accattivante nei modi e con un'alta
considerazione di sé (cosi lo definisce chi lo ha incontrato
all'epoca), Comerio ha alle spalle una storia preoccupante.
«Negli anni Ottanta», testimonia da Bruxelles Roberto
Ferrigno, allora coordinatore internazionale di Greenpeace per
la campagna contro lo smaltimento dei rifiuti tossici nei Paesi
poveri, «aveva colla borato a un progetto dell'Agenzia
nucleare dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico)». Al lavoro, documenta Greenpeace,
aderivano l'Italia, gli Stati Uniti, il Canada. l'Australia,
il Giappone, l'Inghilterra, la Francia, la Germania dell'Ovest,
l’Olanda, la Svizzera, la Svezia e il Belgio in sintonia
con la Comunità europea. L'obiettivo, al quale si lavorò
dal 1977 all’87, era di mettere a punto un rivoluzionario
sistema di smaltimento dei rifiuti tossici e radioattivi, sparando
in mare siluri nei quali venivano appunto racchiuse le sostanze
pericolose, che penetravano i fondali. In questo modo si era
ipotizzato di risolvere il problema mondiale della "pattumiera
ad alto rischio", ma poi il tutto era stato abbandonato
dopo il clamore dell'incidente nucleare avvenuto a Chernobyl
(1986), con il conseguente scioglimento del gruppo di lavoro
e la precisazione che sarebbero state necessarie ulteriori ricerche.
Una raccomandazione che secondo Ferrigno non scoraggiò
Comerio. «L'ingegnere», testimonia, «aveva
collaborato al piano progettando per il Joint Restare Centre
di Ispra (Varese), boe con apparecchiature elettroniche per
il monitoraggio satellitare dei siluri penetratori sparati nei
fondali». E dai documenti di Greenpeace custoditi ad Amsterdam
risulta che alla società Marinine Electronic Industry
ltd, rappresentata da Comerio, nel 1986 furono pagati per questo
impegno più di 110 mila ecu (all'epoca 146 milioni di
lire). Ma a Comerio non bastava: «Quando il progetto fu
accantonato», riferisce Ferrigno, «apportò
una serie di modifiche e iniziò a proporlo alle nazioni
di mezzo mondo». D'altronde gli agganci non gli mancavano.
O almeno così viene da pensare leggendo il ritratto di
Comerio fatto da Maria Luigia Giuseppina Nitti, sua compagna
dal 1986 al 1992, la quale nel '95 dichiara ai Carabinieri:
«Verso la fine del nostro rapporto mi esternò di
appartenere ai servizi segreti... A seguito di attentati terroristici
avvenuti in quel periodo si assentò, dicendo che era
stato convocato per collaborare alle indagini. Preciso che si
trattava di attentati avvenuti in Italia nella primavera del
'93. Mi pare si trattasse dell'attentato all'Accademia dei Georgofili
di Firenze. All'inizio del nostro rapporto mi confidò
pure che per conto del governo brasiliano o argentino aveva
avuto incarico di vendere armi ad altri Paesi... Ancora con
riferimento alla vendita delle armi, devo fare presente che
tra la fine del '92 e l'inizio del '93 il Comerio ebbe contatti
con due fratelli da lui stesso definiti mafiosi». Nel
corso delle loro indagini i magistrati hanno trovato numerose
tracce delle operazioni su scala mondiale del Comerio. Nel 1995,
per esempio, è di scena il Sudafrica, Stato con cui l'ingegnere
trattava un piano di smaltimento di rifiuti radioattivi. In
seguito l'Atomic energy corporation del Sudafrica annunciò
pubblicamente di rinunciare al piano, ma questo non frenò
Comerio. Renato Pent, definito dagli inquirenti «noto
trafficante di rifiuti tossico-nocivi», ha raccontato
«che il Comerio si è verosimilmente accordato con
il governo austriaco, tanto che in sua compagnia ha tenuto un
incontro con ben quattro ministri». Pent ha parlato anche
di rapporti con la Svizzera, ma in entrambi i casi ha detto
che «i due governi non avrebbero concluso niente per timore
dell'opinione pubblica», aggiungendo però che «non
poteva escludere che Comerio autonomamente avesse potuto concludere
il contratto con detti Stati». Inoltre ha precisato che
«Comerio aveva trasmesso a un tale Arullani (definito
dagli inquirenti «noto trafficante di rifiuti tossici
e nocivi, nonché di armi») un fax con il quale
gli comunicava di avere ricevuto una prima grossa commessa.
Da chi? L'elenco delle nazioni con cui Comerio e i suoi hanno
preso contatti in quegli anni è lungo. Gli inquirenti
segnalano le trattative con l'Ucraina. Sono rimaste tracce di
accordi in Sierra Leone. Ci sono segnali di contatti tra l'O.d.m.
e il Gambia. Greenpeace sostiene che nel '96 Comerio ammise
trattative col governo delle Bermuda. E nel 1997 a Odessa ci
fu chi parlò di manovre dell’O.d.m. nel Mar Nero.
Tutte pratiche che il faccendiere ha svolto con apparente trasparenza,
al punto da aprire un sito Internet in cui illustrava i suoi
progetti, coltivando nel frattempo una serie di rapporti sotterranei
che gli ambientalisti hanno chiamato "The network"
per l'incredibile vastità.
Una rete in cui i dossier di Greenpeace inseriscono anche colui
che è stato il legale inglese di Silvio Berlusconi, David
Mills, il quale ha dichiarato al quotidiano inglese “The
Independent” di avere avuto un contatto telefonico con
Comerio. E sempre Mills, documenta Greenpeace, sarebbe stato
in affari con Filippo Dollfus, azionista della O.d.m. Quello
che sarebbe interessante sapere, a questo punto, è se
anche una sola volta le trattative del Comerio e dei suoi uomini
abbiano portato all'effettivo smaltimento sotto il mare dei
rifiuti radioattivi. Le caratteristiche stesse dell'operazione
(fondali profondissimi e in luoghi segreti) non lasciano troppe
speranze di recupero per la “pattumiera ad alto rischio”,
ma nonostante ciò, parlando degli affari di Comerio in
Parlamento, il procuratore capo di Reggio Calabria Scuderi ha
detto: «Dalle sue carte emerge che gli sarebbero stati
affidati incarichi dai governi che avrebbe portato a termine.
Comerio e i suoi emissari hanno avuto specialmente la disponibilità
di esponenti di Stati africani che mettevano a disposizione
siti prossimi alle coste dei loro Paesi ove effettuare gli affondamenti,
in cambio di versamenti di milioni di dollari dei quali risulta
traccia nelle carte che abbiamo trovato». Inoltre Scuderi
ha sottolineato come Comerio abbia dedicato la sua attenzione
anche all'altro fronte caldo dello smaltimento rifiuti, ossia
l'affondamento di navi nel mare Mediterraneo. Un capitolo delicato,
in quanto la Commissione parlamentare, parlando delle cosiddette
“navi a perdere”, segnala nel '96 «l'esistenza,
documentalmente provata, di intense attività di intermediazione
poste in essere tra i titolari delle presunte attività
di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi e la Somalia»,
sottolineando le coincidenze tra le indagini in corso e le vicende
che hanno portato alla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin.
Lo stesso Comerio viene indicato il 25 ottobre 2000 dalla Commissione
parlamentare come «faccendiere italiano al centro di una
serie di vicende legate alla Somalia». Un elemento che
si aggiunge all'esito della perquisizione nella villa di Garlasco,
dove oltre ai citati documenti dell‘O.d.m. viene rinvenuta
l'agenda di Comerio, sulla quale il 21 settembre 1987 c'è
scritto in inglese: «La nave è affondata».
Un chiaro riferimento alla maltese Rigel, che proprio quel giorno
fece naufragio al largo di Capo Spartivento e che, secondo Scuderi
non solo si sospetta trasportasse rifiuti radioattivi, ma «è
implicata in una vicenda truffaldina ai danni della società
di assicurazione». Anche la Rosso al momento dello spiaggiamento
era assicurata: dalla S.i.a.t, per un valore di 2 miliardi 500
mila lire. E anche la società Ignazio Messina, armatrice
della motonave, dopo “l'incidente” ha incassato
la polizza. Una questione che, qualora in tribunale si dimostrasse
il dolo dell'affondamento, si riaprirebbe. E altrettanto interessante
sarebbe rivalutare il ruolo della società Ignazio Messina,
continuando il lavoro svolto da Natale De Grazia, capitano di
corvetta e prezioso consulente dei magistrati nell'inchiesta
di Reggio Calabria, morto nel 1995 in circostanze sospette (malore
improvviso) mentre andava a La Spezia per interrogare i marinai
della Rosso. In una nota informativa i Carabinieri scrivono:
«La società Ignazio Messina imbarca presso il porto
di Napoli e presso altri porti del Sud merci pericolose e rifiuti
radioattivi con destinazione sconosciuta... Per quanto riguarda
la parte “delle indagini” riferita ai rifiuti radioattivi,
un ruolo importante è assunto da Giorgio Comerio... La
Ignazio Messina risulta inoltre collegata a importanti personaggi
legati a Giorgio Comerio, e precisamente Gabriele Molaschi socio
del Comerio per il progetto O.d.m.. Nel corso di perquisizioni
presso l'abitazione del Molaschi, oltre ad avere trovato la
documentazione sulla Rosso identica a quella rinvenuta al Comerio,
veniva acquisita importante documentazione circa continui traffici
internazionali di armi tra Paesi esteri, nonché varie
tecnologie anche militari a servizio di altri Stati».
D'altro canto, che i vertici della Ignazio Messina e Comerio
si conoscessero lo dimostra la trattativa che secondo la Guardia
di Finanza ci fu nel giugno 1988 tra la società Navimar,
rappresentante della Comerio Industry of Malta, e la Ignazio
Messina per l'acquisto della Jolly Rosso: la stessa motonave
che sarebbe poi divenuta Rosso e si sarebbe spiaggiata coi documenti
dell'O.d.m. a bordo, Comerio, scrivono i finanzieri, «voleva
acquistare la nave per trasformarla in una sorta di officina»,
e la Ignazio Messina confermava di voler la vendere per 1 miliardo
50 milioni di lire, comunicando però successivamente
che rinunciava per scadenza dei termini. Particolari, coincidenze,
retroscena, che nel loro complesso hanno destato enorme preoccupazione
in tutti coloro che hanno investigato. Eppure il pubblico ministero
Alberto Cisterna, pur riconoscendo la gravità dei molti
elementi emersi, come il fatto «che la Rosso fosse destinata
al suo u¬timo viaggio», pur definendo «non tranquillizzante
in questo contesto» l’interesse del Comerio alla
Rosso, «anche ammettendo che lo stesso Comerio abbia avuto
parte nell'affondamento della Rigel», il 25 giugno del
1999 chiede l'archiviazione del caso delle “navi a perdere”,
non avendo a suo avviso prove concrete dello smaltimento delle
scorie radioattive. Una richiesta che viene accolta dal giudice
delle indagini preliminari, Adriana Costabile, la quale il 14
novembre 2000 archivia scrivendo che «certamente c'è
traccia in atti dello scellerato disegno criminale di smaltimento
in mare di rifiuti radioattivi ordito da Giorgio Comerio e dai
suoi complici, tutti soci della Holding O.d.m.», ma che
«mancano elementi che consentano di ricondurre in tale
programma l'affondamento delle navi Rigel e Rosso, non essendo
emerso... che le stesse trasportassero rifiuti radioattivi...».
Per questo oggi è cruciale il lavoro del sostituto procuratore
di Paola, Francesco Greco. A distanza di anni qualcuno ha parlato,
e ripensando allo spiaggiamento della Rosso ha riferito episodi
definiti dai Carabinieri «estremamente importanti».
Un testimone oculare, ad esempio, ha detto che «dopo circa
due mesi dall'avvenuto spiaggiamento, iniziarono i conferimenti
di rifiuti provenienti dalla motonave Rosso presso la discarica
in località Grassuilo» (nel comune di Amantea,
provincia di Cosenza). Tali conferimenti avvenivano di giorno,
e ogni automezzo veniva scortato dalla Guardia di Finanza o
dai vigili urbani. Negli stessi giorni (il testimone) notò
effettuare scarichi presso la discarica che avvenivano di notte
e senza scorta da parte degli organi di polizia. Tale materiale
la mattina successiva veniva subito interrato con l'utilizzo
di mezzi meccanici... «In particolare», scrivono
i Carabinieri, «il testimone riferiva che sarebbe tuttora
in grado di indicare con estrema precisione il punto in cui
furono sotterrali tali rifiuti, che si troverebbero a una profondità
di circa 40 metri».
Ma c'è dell'altro. Un secondo testimone ha raccontato
di aver visto i camion che la notte partivano dalla Rosso e
arrivavano a scaricare in località Foresta (comune di
Serra D'Aiello, provincia di Cosenza). Qui lo scorso aprile
sono stati effettuati con l'Arpacal (Agenzia regionale per la
protezione dell'ambiente della Calabria) sondaggi su un'area
di 10mila metri quadrati a circa otto metri di profondità,
dai quali è risultata la massiccia presenza di fanghi
industriali. «Successive analisi chimiche che»,
ha scritto il sostituto procuratore Greco alla Regione Calabria,
«hanno evidenziato in questi fanghi la presenza di alcuni
metalli pesanti... in concentrazioni tali da potersi configurare
un pericolo concreto ed attuale per il suolo, sottosuolo e corpi
idrici, con il superamento dei limiti accettabili di inquinanti».
Durante i rilievi, un terzo testimone ha inoltre ammesso di
aver trovato nel 1999 fusti gialli arrugginiti nella briglia
del fiume Oliva, contigua alla zona sondata. In seguito il testimone
ha negato, tornando però poi ad ammettere di avere visto
un fusto. Ora la Procura di Paola ha una grande speranza: ottenere
i mezzi per scavare a fondo nei due siti. Il primo problema,
dicono a Paola, sono le scadenze. Il timore è l'archiviazione
del reati ipotizzato, cioè l'affondamento doloso con
rischio per la salute pubblica. Non c'è tempo da perdere.
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