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Rifiuti tossici e radioattivi. Smaltimenti illeciti di scorie. Faccendieri, trafficanti d’armi, servizi segreti, mafiosi... Navi affondate. Il giallo della Motonave Rosso. Ilaria Alpi.
L’Espresso pubblica un’inchiesta, a firma di Riccardo Bocca, su uno dei più intrigati gialli degli ultimi anni che vede la magistratura calabrese impegnata da oltre un decennio.
Sapremo la verità?... Quella vera?

 

UNA NAVE ROSSO VELENO

di Riccardo Bocca

Le parole di Ivano Tore, comandante del nucleo operativo dei Carabinieri di Reggio Calabria, sono nette e gravi: «È emerso uno scenario alquanto inquietante nel quale si muovono soggetti senza scrupoli, a costo di attentare all'incolumità della popolazione mondiale...» scrive in un'informativa al sostituto procuratore di Reggio, Francesco Neri. «La documentazione sequestrata supera anche l'umana immaginazione, facendo ipotizzare nel contempo che la stessa sicurezza dello Stato Italiano possa essere messa in pericolo». È il 25 maggio del 1995, e in Calabria è in corso da circa un anno un'indagine delicata quanto travagliata.
Un lavoro investigativo con al centro l'affondamento di una serie di navi avvenuto nei mari Tirreno e Jonio, ma che al suo interno racchiude molteplici altre ragioni di allarme. Il sospetto degli inquirenti è che a bordo di queste navi ci fossero rifiuti tossici e radioattivi, e che attorno a questa vicenda, legata a nazioni europee e non, si sia mossa un'impressionante rete di faccendieri, trafficanti d'armi, agenti dei servizi segreti, uomini di governo e mafiosi. Tutti connessi da affari che in alcuni passaggi s'incrociano con la Somalia e gli eventi che il 20 marzo 1994 sono costati la vita alla giornalista del Tg3 llaria Alpi e all'operatore Miran Hrovatin.
A questo intreccio si riferivano i Carabinieri nelle note per la Procura. E su questo è stata svolta dagli uomini di Reggio Calabria un'indagine durata sei anni, costellata da minacce e pressioni, alle quali si è aggiunta il 12 dicembre 1995 la morte sospetta di Natale De Grazia, capitano di corvetta e consulente chiave dei magistrati. Poi, malgrado le molte certezze acquisite, l'intera questione è stata archiviata dal giudice delle indagini preliminari, e a quel punto le decine di migliaia di pagine sono passate per un errore burocratico alla Procura di Lamezia Terme, presso la quali sono rimaste circa tre anni.
Ora La partita è nelle mani della Procura di Paola, dove una serie di nuovi e clamorosi indizi ha convinto il procuratore capo, Luciano d'Emmanuele, ad aprire l'ennesimo fascicolo, incentrato per competenza territoriale soprattutto su un caso: quello della motonave Rosso della compagnia Ignazio Messina, arenatasi dopo un principio di affondamento il 14 dicembre 1990 sulla spiaggia di Formiciche nel comune di Amantea, in provincia di Cosenza. Da qui sono partiti il sostituto procuratore Francesco Greco e la sua squadra per dimostrare il dolo nel tentativo di affondamento e l'occultamento dei rifiuti tossici o radioattivi, reato che in caso di fallimento rischia di cadere in prescrizione. E sempre da qui, dalla storia della motonave Rosso e dal cumulo di incongruenze che la contraddistingue, è partito anche "L'Espresso", ricostruendo con documenti e testimonianze esclusive una delle storie più sporche degli ultimi decenni.
Tutto incomincia alle ore 7.55 del 14 dicembre 1990, quando il comandante Luigi Giovanni Pestarino della motonave Rosso lancia il suo mayday. In quel momento la nave si trova al largo della costa di Falerna località a 15 chilometri da Amantea, in provincia dì Catanzaro. Alle spalle ha un viaggio nel Mediterraneo: è salpata dal porto di La Spezia il 4 dicembre facendo prima scalo a Napoli e poi a Malta, da dove è ripartita il giorno 13. «Verso le 7 del mattino - racconta Pestarino durante un interrogatorio - sento un colpo proveniente dallo scafo sul lato sinistro, mi precipito sul ponte, ho mandato subito il marinaio a controllare la stiva e il garage e successivamente ho inviato anche il primo ufficiale di coperta». In quel momento, dice il comandante, è scattato l'allarme per la presenza di acqua nella nave, e «il primo ufficiale ed il marinaio, tornati sul ponte mi informano di aver riscontrato l'acqua in stiva, presumibilmente dovuta a una falla ma non visiva». La nave intanto continua a galleggiare ma sbanda, prima poco e poi sempre di più, finché il timone non risponde e a motori fermi non resta che attendere i soccorsi, sparando segnali luminosi e tenendosi in contatto con la Capitaneria.
Alle 10 e un quarto il capitano e gli altri 15 membri dell'equipaggio (più Domenico De Gioia, uomo della Messina, presente ma non registrato a bordo) vengono recuperati da due elicotteri che li portano all'aeroporto di Lamezia Terme, da dove vengono trasferiti all'ospedale civile. Nel frattempo anche la nave si è mossa. Invece di affondare, come tutti pensavano, ha proseguito la sua incerta navigazione fino ad arenarsi sulla spiaggia di Formiciche.
E qui si trova subito al centro di movimenti e decisioni singolari.
Fatti di cui parleremo più avanti, perché prima vanno sottolineati due elementi cruciali. «Il primo - scrive la guardia di Finanza - è che nel 1997 il comandante Pestarino ha di nuovo sostenuto che una falla era effettivamente presente in un locale della nave». E il secondo, si legge nel documento, che questo particolare (determinante, in quanto indizio di un naufragio involontario) viene smentito da Nunziante Cannavale, titolare della ditta che si occupò della demolizione della Rosso, il quale ha dichiarato: «Non siamo stati in grado di stabilire da dove poteva entrare l'acqua, e questa domanda ce la siamo posta anche più volte senza riuscire a darci una risposta». Una versione in sintonia con quella del sommozzatore incaricato dal Registro Navale Italiano di fare un'ispezione alla Rosso, il quale nega qualsiasi falla. E la riprova viene oggi da una videocassetta amatoriale, realizzata a Formiciche nei giorni dopo lo spiaggiamento e acquisita agli atti dalla Procura di Paola.
Il filmato, visionato da "L'Espresso", mostra che le fiancate della motonave al momento dello spiaggiamento erano integre, e che quindi la falla ipotizzata non c'era.
E’ con tali prove che oggi si ritiene possibile sostenere l’accusa di affondamento doloso.
E proprio in questo senso è importante la dichiarazione della Guardia di Finanza, secondo cui in considerazione della totale assenza di falle o vie d'acqua, l'unica spiegazione plausibile per l'ingresso di acqua all'interno della nave è l'accidentale o dolosa apertura della tubatura antincendio che corre lungo tutta la lunghezza della nave. Da parte di chi? E perché? Non ci sono certezze. Di sicuro c'è solo che alle 2 del pomeriggio del 14 dicembre 1990 la Rosso si arena a Formiciche, sollevando grande curiosità tra gli abitanti della zona. Una curiosità mista a preoccupazione, perché i precedenti della Rosso, quando ancora si chiamava Jolly Rosso, erano celebri e cupi. Nel 1988 la motonave era stata noleggiata dal nostro governo per andare a recuperare in Libano 9 mila 532 fusti di rifiuti tossici nocivi, esportati illegalmente da aziende italiane, e tornando in patria si era conquistata il nomignolo di "nave dei veleni", restando poi in disarmo nel porto di La Spezia dal 18 gennaio dell'89 al 7 dicembre del ‘90. Il timore istintivo era dunque che anche stavolta il carico della nave potesse essere pericoloso, e che inquinasse la costa. Un'ipotesi allora non supportata da prove, ma che oggi gli inquirenti considerano plausibile. Non a caso nei giorni successivi allo spiaggiamento, attorno e a bordo della Rosso si scatena un impressionante traffico. Alle 5 di mattina del 15 i carabinieri già ispezionano la motonave con i militari della Capitaneria di porto di Vibo Valentia.
Lo stesso giorno accorrono i vigili del fuoco e poi salgono a bordo i «rappresentanti della società armatrice Messina . Un'ulteriore presenza è quella della Guardia di Fi¬nanza. E a tutti questi interventi si aggiungono gli agenti dei servizi segreti» di cui parla a verbale Giuseppe Bellantone, comandante in seconda della Capitaneria di Vibo Valentia. Alla fine, malgrado tante attenzioni, nessuna inchiesta formale viene aperta dal ministero della Marina mercantile, mentre i sospetti sul carico della nave anziché svanire aumentano.
Il 22 dicembre l'armatore Messina affida infatti alle società Siciliana Offshore e Calabria Navigazione le operazioni di bunkeraggio (il recupero del combustibile sparso della Rosso) e stando ai Carabinieri tale opera si conclude il 29 gennaio 1991. Ma quando la società Mo.Smo.De di Cannavale acquista il relitto per rottamarlo, «rinviene le sentine piene di liquidi oleosi e nafta», vedendosi costretto a svolgere lavori che verranno rimborsati dalla Messina con un risarcimento di 800 milioni di lire. Che cosa dunque hanno fatto, le società incaricate del bunkeraggio? «Certamente operazioni di bonifica di ben altra natura di quelle indicate dalla Capitaneria di Vibo», scrivono i Carabinieri. E d'altro canto ancora più oscuro è il successivo intervento di un'altra società, l'olandese Smic Tak, «specializzata in bonifiche a seguito di incidenti radioattivi, che nel 1981 partecipò al recupero di materiale radioattivo contenuto in fusti, trasportato da una nave che aveva avuto un incidente e si era spiaggiata nel canale della Manica» (parole di Franco Scuderi, procuratore capo di Reggio Calabria, davanti alla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti). La Messina incarica la ditta olandese di recuperare la motonave Rosso, ma i Carabinieri raccontano che dopo 17 giorni di lavoro rinuncia all'incarico. Anche se nel frattempo non è rimasta con le mani in mano: «Ricordo di aver notato la presenza sul posto di un Tir e di qualche altro mezzo di trasporto», dice Bellantone della Capitaneria di Vibo. Ricorda anche «nella fase iniziale la presenza di uno o più gommoni e di sommozzatori... Notai o comunque mi fu riferito di una presenza praticamente costante di persone nell'arco delle 24 ore... e un continuo andirivieni di persone e di mezzi, in particolare nelle ore notturne».
L'altro lavoro che qualcuno ha svolto prima della demolizione della Rosso (avvenuta malgrado la nave avesse solo 22 anni di vita) è stato quello di aprire uno squarcio enorme nella murata sinistra della stiva. «Detto squarcio», riferisce ai Carabinieri il Cannavale, «non era assolutamente visibile da terra», e a suo dire si era potuto verificare solo dopo che la nave si era arenata. E' chiaro, dicono i Carabinieri, che tale apertura è servita «per fare uscire dalla stiva qualcosa di importante e voluminoso, e con assoluta certezza si può dire che la “manomissione” è stata fatta con professionalità e mezzi in possesso delle ditte intervenute prima della demolizione». Circostanza aggravata dal fatto che sul fondale marino vengono rinvenuti un camion, un muletto da 40 tonnellate e tre container, malgrado «non ci si spieghi come abbiano fatto a spostarsi da soli verso lo squarcio e a cadere in mare, considerato che la nave insabbiata non era soggetta a movimenti né longitudinali né trasversali», scrive la Guardia di Finanza. Inoltre, si legge, «corre l'obbligo di segnalare che nel rapporto riassuntivo della Capitaneria di Porto di Vibo i container vuoti stivati a prua del garage vengono quantificati in 25, mentre quelli recuperati sono stati 17 vuoti dalla prua del garage e tre nel fondo del mare in corrispondenza dello squarcio».
Qual era dunque la reale entità del carico? E che fine hanno fatto i cinque container mancanti all'appello? Su questo e su molto altro, vedremo poi, lavora oggi la Procura di Paola. Dopo tanti anni c'è chi ha ritrovato la memoria, e sta indicando modi e luoghi di smaltimento del presunto carico di rifiuti tossici e radioattivi. Nei giorni dopo lo spiaggiamento della Rosso, però, va sottolineato un altro fatto incredibile, che modifica la prospettiva degli eventi e li collega a nomi e scenari di livello internazionale. Protagonista è ancora una volta Bellantone, il comandante in seconda della Capitaneria di Vibo, il quale sulla plancia della motonave rinviene strano materiale. Si tratta di una serie di documenti che, dice lui stesso, «richiamavano la natura della radioattività» ed erano introdotti dalla sigla O.d.m., ossia Oceanic Disposal Management Inc., società creata da un certo Giorgio Comerio, nato a Busto Arsizio (Varese) nel 1945. Tra queste carte, ha spiegato il procuratore capo Scuderi, c'era pure una mappa marittima con evidenziati una serie di siti. In teoria simili documenti avrebbero dovuto perlomeno insospettire Bellantone, e invece l'ufficiale ha tutt'altra reazione: «Ho riferito al magistrato», racconta a verbale, «che tra i documenti esistenti in plancia vi erano dei fogli come di battaglie navali, tant'è che sorridendo dissi che mi sembrava strano che giocassero alle battaglie navali in plancia. Ricordo anche che restituimmo il documento relativo alle battaglie navali (al comandante della Rosso, cinque giorni dopo, ndr)». Un atteggiamento che non convince gli inquirenti, e che si somma a un altro elemento da cui poi hanno preso il largo le indagini mondiali.
Nel '95, durante una perquisizione nella villa dello stesso Comerio a Garlasco (Pavia), sede in quel momento di un club di Forza Italia, viene trovata la riproduzione del materiale scoperto dal Bellantone sulla Rosso. Mappa compresa, che sulla copia ereditata dei magistrati di Paola riporta i nomi di una lunga serie di navi affondate nel Mediterraneo. Ingegnere brillante, di grande intelligenza, accattivante nei modi e con un'alta considerazione di sé (cosi lo definisce chi lo ha incontrato all'epoca), Comerio ha alle spalle una storia preoccupante. «Negli anni Ottanta», testimonia da Bruxelles Roberto Ferrigno, allora coordinatore internazionale di Greenpeace per la campagna contro lo smaltimento dei rifiuti tossici nei Paesi poveri, «aveva colla borato a un progetto dell'Agenzia nucleare dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico)». Al lavoro, documenta Greenpeace, aderivano l'Italia, gli Stati Uniti, il Canada. l'Australia, il Giappone, l'Inghilterra, la Francia, la Germania dell'Ovest, l’Olanda, la Svizzera, la Svezia e il Belgio in sintonia con la Comunità europea. L'obiettivo, al quale si lavorò dal 1977 all’87, era di mettere a punto un rivoluzionario sistema di smaltimento dei rifiuti tossici e radioattivi, sparando in mare siluri nei quali venivano appunto racchiuse le sostanze pericolose, che penetravano i fondali. In questo modo si era ipotizzato di risolvere il problema mondiale della "pattumiera ad alto rischio", ma poi il tutto era stato abbandonato dopo il clamore dell'incidente nucleare avvenuto a Chernobyl (1986), con il conseguente scioglimento del gruppo di lavoro e la precisazione che sarebbero state necessarie ulteriori ricerche. Una raccomandazione che secondo Ferrigno non scoraggiò Comerio. «L'ingegnere», testimonia, «aveva collaborato al piano progettando per il Joint Restare Centre di Ispra (Varese), boe con apparecchiature elettroniche per il monitoraggio satellitare dei siluri penetratori sparati nei fondali». E dai documenti di Greenpeace custoditi ad Amsterdam risulta che alla società Marinine Electronic Industry ltd, rappresentata da Comerio, nel 1986 furono pagati per questo impegno più di 110 mila ecu (all'epoca 146 milioni di lire). Ma a Comerio non bastava: «Quando il progetto fu accantonato», riferisce Ferrigno, «apportò una serie di modifiche e iniziò a proporlo alle nazioni di mezzo mondo». D'altronde gli agganci non gli mancavano. O almeno così viene da pensare leggendo il ritratto di Comerio fatto da Maria Luigia Giuseppina Nitti, sua compagna dal 1986 al 1992, la quale nel '95 dichiara ai Carabinieri: «Verso la fine del nostro rapporto mi esternò di appartenere ai servizi segreti... A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo si assentò, dicendo che era stato convocato per collaborare alle indagini. Preciso che si trattava di attentati avvenuti in Italia nella primavera del '93. Mi pare si trattasse dell'attentato all'Accademia dei Georgofili di Firenze. All'inizio del nostro rapporto mi confidò pure che per conto del governo brasiliano o argentino aveva avuto incarico di vendere armi ad altri Paesi... Ancora con riferimento alla vendita delle armi, devo fare presente che tra la fine del '92 e l'inizio del '93 il Comerio ebbe contatti con due fratelli da lui stesso definiti mafiosi». Nel corso delle loro indagini i magistrati hanno trovato numerose tracce delle operazioni su scala mondiale del Comerio. Nel 1995, per esempio, è di scena il Sudafrica, Stato con cui l'ingegnere trattava un piano di smaltimento di rifiuti radioattivi. In seguito l'Atomic energy corporation del Sudafrica annunciò pubblicamente di rinunciare al piano, ma questo non frenò Comerio. Renato Pent, definito dagli inquirenti «noto trafficante di rifiuti tossico-nocivi», ha raccontato «che il Comerio si è verosimilmente accordato con il governo austriaco, tanto che in sua compagnia ha tenuto un incontro con ben quattro ministri». Pent ha parlato anche di rapporti con la Svizzera, ma in entrambi i casi ha detto che «i due governi non avrebbero concluso niente per timore dell'opinione pubblica», aggiungendo però che «non poteva escludere che Comerio autonomamente avesse potuto concludere il contratto con detti Stati». Inoltre ha precisato che «Comerio aveva trasmesso a un tale Arullani (definito dagli inquirenti «noto trafficante di rifiuti tossici e nocivi, nonché di armi») un fax con il quale gli comunicava di avere ricevuto una prima grossa commessa. Da chi? L'elenco delle nazioni con cui Comerio e i suoi hanno preso contatti in quegli anni è lungo. Gli inquirenti segnalano le trattative con l'Ucraina. Sono rimaste tracce di accordi in Sierra Leone. Ci sono segnali di contatti tra l'O.d.m. e il Gambia. Greenpeace sostiene che nel '96 Comerio ammise trattative col governo delle Bermuda. E nel 1997 a Odessa ci fu chi parlò di manovre dell’O.d.m. nel Mar Nero. Tutte pratiche che il faccendiere ha svolto con apparente trasparenza, al punto da aprire un sito Internet in cui illustrava i suoi progetti, coltivando nel frattempo una serie di rapporti sotterranei che gli ambientalisti hanno chiamato "The network" per l'incredibile vastità.
Una rete in cui i dossier di Greenpeace inseriscono anche colui che è stato il legale inglese di Silvio Berlusconi, David Mills, il quale ha dichiarato al quotidiano inglese “The Independent” di avere avuto un contatto telefonico con Comerio. E sempre Mills, documenta Greenpeace, sarebbe stato in affari con Filippo Dollfus, azionista della O.d.m. Quello che sarebbe interessante sapere, a questo punto, è se anche una sola volta le trattative del Comerio e dei suoi uomini abbiano portato all'effettivo smaltimento sotto il mare dei rifiuti radioattivi. Le caratteristiche stesse dell'operazione (fondali profondissimi e in luoghi segreti) non lasciano troppe speranze di recupero per la “pattumiera ad alto rischio”, ma nonostante ciò, parlando degli affari di Comerio in Parlamento, il procuratore capo di Reggio Calabria Scuderi ha detto: «Dalle sue carte emerge che gli sarebbero stati affidati incarichi dai governi che avrebbe portato a termine. Comerio e i suoi emissari hanno avuto specialmente la disponibilità di esponenti di Stati africani che mettevano a disposizione siti prossimi alle coste dei loro Paesi ove effettuare gli affondamenti, in cambio di versamenti di milioni di dollari dei quali risulta traccia nelle carte che abbiamo trovato». Inoltre Scuderi ha sottolineato come Comerio abbia dedicato la sua attenzione anche all'altro fronte caldo dello smaltimento rifiuti, ossia l'affondamento di navi nel mare Mediterraneo. Un capitolo delicato, in quanto la Commissione parlamentare, parlando delle cosiddette “navi a perdere”, segnala nel '96 «l'esistenza, documentalmente provata, di intense attività di intermediazione poste in essere tra i titolari delle presunte attività di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi e la Somalia», sottolineando le coincidenze tra le indagini in corso e le vicende che hanno portato alla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Lo stesso Comerio viene indicato il 25 ottobre 2000 dalla Commissione parlamentare come «faccendiere italiano al centro di una serie di vicende legate alla Somalia». Un elemento che si aggiunge all'esito della perquisizione nella villa di Garlasco, dove oltre ai citati documenti dell‘O.d.m. viene rinvenuta l'agenda di Comerio, sulla quale il 21 settembre 1987 c'è scritto in inglese: «La nave è affondata». Un chiaro riferimento alla maltese Rigel, che proprio quel giorno fece naufragio al largo di Capo Spartivento e che, secondo Scuderi non solo si sospetta trasportasse rifiuti radioattivi, ma «è implicata in una vicenda truffaldina ai danni della società di assicurazione». Anche la Rosso al momento dello spiaggiamento era assicurata: dalla S.i.a.t, per un valore di 2 miliardi 500 mila lire. E anche la società Ignazio Messina, armatrice della motonave, dopo “l'incidente” ha incassato la polizza. Una questione che, qualora in tribunale si dimostrasse il dolo dell'affondamento, si riaprirebbe. E altrettanto interessante sarebbe rivalutare il ruolo della società Ignazio Messina, continuando il lavoro svolto da Natale De Grazia, capitano di corvetta e prezioso consulente dei magistrati nell'inchiesta di Reggio Calabria, morto nel 1995 in circostanze sospette (malore improvviso) mentre andava a La Spezia per interrogare i marinai della Rosso. In una nota informativa i Carabinieri scrivono: «La società Ignazio Messina imbarca presso il porto di Napoli e presso altri porti del Sud merci pericolose e rifiuti radioattivi con destinazione sconosciuta... Per quanto riguarda la parte “delle indagini” riferita ai rifiuti radioattivi, un ruolo importante è assunto da Giorgio Comerio... La Ignazio Messina risulta inoltre collegata a importanti personaggi legati a Giorgio Comerio, e precisamente Gabriele Molaschi socio del Comerio per il progetto O.d.m.. Nel corso di perquisizioni presso l'abitazione del Molaschi, oltre ad avere trovato la documentazione sulla Rosso identica a quella rinvenuta al Comerio, veniva acquisita importante documentazione circa continui traffici internazionali di armi tra Paesi esteri, nonché varie tecnologie anche militari a servizio di altri Stati».
D'altro canto, che i vertici della Ignazio Messina e Comerio si conoscessero lo dimostra la trattativa che secondo la Guardia di Finanza ci fu nel giugno 1988 tra la società Navimar, rappresentante della Comerio Industry of Malta, e la Ignazio Messina per l'acquisto della Jolly Rosso: la stessa motonave che sarebbe poi divenuta Rosso e si sarebbe spiaggiata coi documenti dell'O.d.m. a bordo, Comerio, scrivono i finanzieri, «voleva acquistare la nave per trasformarla in una sorta di officina», e la Ignazio Messina confermava di voler la vendere per 1 miliardo 50 milioni di lire, comunicando però successivamente che rinunciava per scadenza dei termini. Particolari, coincidenze, retroscena, che nel loro complesso hanno destato enorme preoccupazione in tutti coloro che hanno investigato. Eppure il pubblico ministero Alberto Cisterna, pur riconoscendo la gravità dei molti elementi emersi, come il fatto «che la Rosso fosse destinata al suo u¬timo viaggio», pur definendo «non tranquillizzante in questo contesto» l’interesse del Comerio alla Rosso, «anche ammettendo che lo stesso Comerio abbia avuto parte nell'affondamento della Rigel», il 25 giugno del 1999 chiede l'archiviazione del caso delle “navi a perdere”, non avendo a suo avviso prove concrete dello smaltimento delle scorie radioattive. Una richiesta che viene accolta dal giudice delle indagini preliminari, Adriana Costabile, la quale il 14 novembre 2000 archivia scrivendo che «certamente c'è traccia in atti dello scellerato disegno criminale di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi ordito da Giorgio Comerio e dai suoi complici, tutti soci della Holding O.d.m.», ma che «mancano elementi che consentano di ricondurre in tale programma l'affondamento delle navi Rigel e Rosso, non essendo emerso... che le stesse trasportassero rifiuti radioattivi...». Per questo oggi è cruciale il lavoro del sostituto procuratore di Paola, Francesco Greco. A distanza di anni qualcuno ha parlato, e ripensando allo spiaggiamento della Rosso ha riferito episodi definiti dai Carabinieri «estremamente importanti». Un testimone oculare, ad esempio, ha detto che «dopo circa due mesi dall'avvenuto spiaggiamento, iniziarono i conferimenti di rifiuti provenienti dalla motonave Rosso presso la discarica in località Grassuilo» (nel comune di Amantea, provincia di Cosenza). Tali conferimenti avvenivano di giorno, e ogni automezzo veniva scortato dalla Guardia di Finanza o dai vigili urbani. Negli stessi giorni (il testimone) notò effettuare scarichi presso la discarica che avvenivano di notte e senza scorta da parte degli organi di polizia. Tale materiale la mattina successiva veniva subito interrato con l'utilizzo di mezzi meccanici... «In particolare», scrivono i Carabinieri, «il testimone riferiva che sarebbe tuttora in grado di indicare con estrema precisione il punto in cui furono sotterrali tali rifiuti, che si troverebbero a una profondità di circa 40 metri».
Ma c'è dell'altro. Un secondo testimone ha raccontato di aver visto i camion che la notte partivano dalla Rosso e arrivavano a scaricare in località Foresta (comune di Serra D'Aiello, provincia di Cosenza). Qui lo scorso aprile sono stati effettuati con l'Arpacal (Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente della Calabria) sondaggi su un'area di 10mila metri quadrati a circa otto metri di profondità, dai quali è risultata la massiccia presenza di fanghi industriali. «Successive analisi chimiche che», ha scritto il sostituto procuratore Greco alla Regione Calabria, «hanno evidenziato in questi fanghi la presenza di alcuni metalli pesanti... in concentrazioni tali da potersi configurare un pericolo concreto ed attuale per il suolo, sottosuolo e corpi idrici, con il superamento dei limiti accettabili di inquinanti». Durante i rilievi, un terzo testimone ha inoltre ammesso di aver trovato nel 1999 fusti gialli arrugginiti nella briglia del fiume Oliva, contigua alla zona sondata. In seguito il testimone ha negato, tornando però poi ad ammettere di avere visto un fusto. Ora la Procura di Paola ha una grande speranza: ottenere i mezzi per scavare a fondo nei due siti. Il primo problema, dicono a Paola, sono le scadenze. Il timore è l'archiviazione del reati ipotizzato, cioè l'affondamento doloso con rischio per la salute pubblica. Non c'è tempo da perdere.

 

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