Home Page              Tito e i suoi lager.

 

 

 

  La vita (in breve) di Tito.
  I lager titini.
  Anche migliaia di civili slavi vittime del maresciallo Tito (link a sito esterno).
  Tito, riappare il libro fatto sparire a Belgrado (tratto da "Il Piccolo" del 01/12/'04).

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La vita (in breve) di Tito.

Josip Broz (Cirillico serbo: Јосип Броз), più conosciuto con il soprannome di Tito (Тито), (7 maggio 1892 - 4 maggio 1980) è stato il capo politico della Jugoslavia dalla fine della seconda guerra mondiale sino la sua morte. Nacque a Kumrovec, nel nord-ovest della Croazia, una zona detta anche Zagorje che all'epoca faceva parte dell' Impero Austro-Ungarico. Era il settimo dei quindici figli di Franjo e Marija Broz. Suo padre era croato, mentre la madre era slovena.

Il soprannome “Tito” (a riguardo leggi un articolo polemico cliccando qui) gli è stato conferito durante i tempi in cui era capo dei comunisti nella seconda guerra mondiale.

- Cronologia essenziale.

1920: Josip Broz entra a far parte del Partito Comunista Jugoslavo (KPJ).

1934: Diventa membro del Dipartimento Politico del Comitato Centrale del KPJ (ed inizia ad utilizzare il soprannome di Tito).

4 luglio 1941: Richiama il popolo alle armi, nella lotta contro la Germania nazista.

1941 - 1945: È il comandante capo dell' "Armata Popolare di Liberazione" della Jugoslavia.

1945 - 1953: È il Capo del Governo e il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Federale della Jugoslavia (FNRJ).

1948: Inizia il conflitto con Stalin (Informbiro).

13 gennaio 1953: È Presidente della Repubblica Federale Socialista della Jugoslavia (SFRJ).

1961: Dà vita al "Movimento dei Non Allineati" con il leader egiziano Gamal Abd el-Nasser e il Primo ministro indiano Jawaharlal Nehru.

7 aprile 1963: Viene nominato Presidente a vita.

 

 

I fatti.

Dal 3 maggio 1945, per tre giorni e tre notti, le truppe del maresciallo Tito si scatenarono contro coloro che, da sempre, avevano dimostrato sentimenti di italianità. A Campo di Marte, a Cosala, a Tersatto, lungo le banchine del porto, in piazza Oberdan, in viale Italia, i cadaveri s'ammucchiarono e non ebbero sepoltura. Nelle carceri cittadine e negli stanzoni della vecchia questura, nelle scuole di Piazza Cambieri, centinaia di imprigionati attendevano di conoscere la propria sorte, senza che alcuno si preoccupasse di coprire le urla degli interrogati negli uffici di Polizia, adibiti a camere di tortura. Altre centinaia di uomini e donne, d'ogni ceto e d'ogni età, svanirono semplicemente nel nulla. Per sempre. Furono i "desaparecidos". Gli avversari da mettere subito a tacere vengono individuati negli autonomisti, cioè coloro che sognavano uno Stato libero; ai furibondi attacchi di stampa condotti dalla "Voce del Popolo" si accompagnò una dura persecuzione, che già nella notte fra il 3 e il 4 maggio portò all'uccisione di Matteo Biasich e Giuseppe Sincich, personaggi di primo piano del vecchio movimento zanelliano, già membri della Costituente fiumana del 1921. Assieme agli autonomisti, negli stessi giorni e poi ancora nei mesi che verranno, trovarono la morte a Fiume anche alcuni esponenti del CLN ed altri membri della Resistenza italiana, fra cui il noto antifascista Angelo Adam, mazziniano, reduce dal confino di Ventotene e dal lager nazista di Dachau secondo una linea di condotta che trova riscontro anche a Trieste ed a Gorizia, dove a venir presi di mira dalla Polizia politica jugoslava, sono in particolare gli uomini del Comitato di liberazione nazionale. La scelta appare del tutto conseguente, dal momento che sul piano politico il CLN è un'organizzazione direttamente concorrenziale rispetto a quelle ufficiali, delle quali è ben in grado di contestare l'esclusiva rappresentatività degli antifascisti italiani. Pertanto, per i titini, appare come l'avversario più pericoloso, sia perché potenzialmente in grado di diventare il punto di riferimento della popolazione di sentimenti italiani, sia in quanto l'eventuale accoglimento delle sue pretese di riconoscimento, quale legittima espressione della Resistenza italiana, farebbe cadere uno dei pilastri principali su cui si regge l'edificio dei poteri popolari. Ma la furia si scatenò con ferocia nei confronti degli esponenti dell'italianità cittadina. Furono subito uccisi i due senatori di Fiume, Riccardo Gigante e Icilio Bacci, e centinaia di uomini e donne, di ogni ceto e di ogni età, morirono semplicemente per il solo fatto di essere italiani. Oltre cinquecento fiumani furono impiccati, fucilati, strangolati, affogati. Altri incarcerati. Dei deportati non si seppe più nulla. Cercarono subito gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima guerra mondiale, i mutilati, gli ufficiali, i decorati e gli ex combattenti. Adolfo Landriani era il custode del giardino di piazza Verdi non era Fiumano, ma era venuto a Fiume con gli Arditi e per la sua piccola statura tutti lo chiamavano "maresciallino". Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque, imponendogli di gridare con loro "Viva la Jugoslavia!". Lui, pur cosi piccolo, si drizzò sulla punta dei piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve, e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: "Viva l'Italia!". Lo sollevarono, come un bambolotto di pezza, poi lo sbatterono contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui ogni volta: "Viva l'Italia! Viva l'Italia!" sempre più fioco, sempre più spento, finché il grido non divenne un bisbiglio, finché la bocca colma di sangue non gli si chiuse per sempre. Qualcuno morì più semplicemente, per aver ammainato in piazza Dante la bandiera jugoslava. Il 16 ottobre del 1945, un ragazzo, Giuseppe Librio, diede tutti i suoi diciott'anni, pur di togliere il simbolo di una conquista dolorosa. Lo trovarono il giorno dopo, tra le rovine del molo Stocco, ucciso con diversi colpi di pistola. Nel carcere di Fiume, il 9 ottobre 1945, Stefano Petris scrisse il suo testamento sui fogli bianchi dell' "Imitazione di Cristo".  

Questo è il testamento di un uomo, condannato a morte dai comunisti slavi.

... Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa, che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia di italiani, gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra istriana che è e sarà italiana. Se il Tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno. Non uccideranno il mio spirito, né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi, che lascio, così il mio grido, fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: viva l'Italia!".

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Tito, riappare il libro fatto sparire a Belgrado (tratto da "Il Piccolo" del 01/12/'04).

Ristampato dopo mezzo secolo il saggio di Stefano Terra con il mistero del «falso» Josip Broz

STORIA Riappare dopo mezzo secolo il saggio di Stefano Terra «Tre anni con Tito», pubblicato da Mgs Press Belgrado disse: fate sparire quel libro Il mistero del vero Josip Broz, lo «strappo» con Mosca studiato ad arte.

Ci mise poco a sparire dalle librerie, «Tre anni con Tito». Qualche settimana appena. E non perchè i lettori, a frotte, si fossero precipitati ad acquistare quel saggio controcorrente scritto da Stefano Terra nel 1953.
No, sembra piuttosto, come sostiene la moglie del giornalista e scrittore, che le autorità di Belgrado ordinarono alla loro ambasciata di Roma di comperare tutte le copie disponibili. Così, in un lampo, quel libro pubblicato dalla piccola casa editrice Bocca finì per diventare un oggetto misterioso. Un libro maledetto. Di cui si parlava soltanto a mezza voce. Di cui molti favoleggiavano il contenuto, senza averlo nemmeno sfogliato. E solo adesso, a distanza di mezzo secolo, «Tre anni con Tito» esce dall’oblio e ritorna in libreria. La settimana prossima sarà Mgs Press (con il contributo della Provincia di Trieste e della Lega Nazionale) a distribuire il saggio di Stefano Terra, il cui vero nome era Giulio Tavernari, morto a Roma nel 1986. Il 14 dicembre verrà presentato al Circolo della Stampa di Trieste, alle 18, da Giuseppe Parlato, Giorgio Cesare e dalla moglie Emilia Tavernari.
Non si accontentava di raccontare ai suoi lettori le verità di regime, Stefano Terra. Da buon borghese liberale, da antifascista che credeva negli ideali di Giustizia e Libertà, quando si trovò a spiegare la Jugoslavia di Tito ai lettori della «Stampa» e agli ascoltatori dei programmi Rai, decise di non basarsi sulle veline. Anche perchè, in quegli anni, era ancora aperta la «questione di Trieste». E chi guardava l’Europa, il mondo, da Belgrado aveva la sensazione che gli americani fossero disposti a cedere alle mire di Josip Broz sulla Venezia Giulia. Perchè solo lui aveva dimostrato di saper tenere testa all’Urss.
Così Terra, che anni dopo avrebbe vinto il Premio Campiello e il Viareggio con i romanzi «Alessandra» e «Le porte di ferro», decise di prendere sul serio la sua missione di inviato. E cominciò a indagare su alcune stranezze del regime di Tito. Rischiando la pelle, rivelò perchè i discorsi del leader jugoslavo, trasmessi dalla radio con grande enfasi, all’improvviso venivano interrotti e sostituiti da brani musicali. Semplice: di solito, dopo aver tracannato un bicchiere di vino, Josip Broz lasciava da parte il linguaggio forbito e si rivolgeva alla gente con espressioni a dir poco colorite. A Roma che insisteva per riavere Trieste mandava a dire: «L’Italia e De Gasperi non avranno nulla da noi, nemmeno una fava bagnata di piscio».
E poi, dietro l’apparente affabilità di Tito c’era un bel mistero. Tutti continuavano a interrogarsi: ma perchè parla con quell’accento marcatamente russo se dice d’essere croato? Terra cominciò a chiedere in giro e si spinse fino a Kumrovec, il paesone natale del Maresciallo. Lì raccolse testimonianze imbarazzanti. «Mi ricordo bene di Josip Broz - disse un vecchio - perchè quando andò apprendista meccanico a Sisak tornò senza due dita». E aggiunse che quel Josip Broz non venne arruolato nell’esercito, perchè gli mancavano l’indice e il medio della mano. Chi era, allora, lo Josip Broz Tito che aveva tutte e dieci le dita? Ecco, «Tre anni con Tito» è questo e molto di più. Un libro che, ancora oggi, racconta la Jugoslavia di Tito senza il timore di ridimensionare un mito costruito troppo in fretta. Con quarant’anni d’anticipo arriva a preconizzare il sanguinoso scontro etnico che avrebbe sconvolto i Balcani. E fa capire che perfino lo «strappo» con Mosca fu costruito e strombazzato ad arte.
Normale che Stefano Terra fosse arrestato, nel settembre del 1953. E poi espulso dalla Jugoslavia. Ancora oggi il suo libro scorre, pagina dopo pagina, come lava incandescente.
Alessandro Mezzena Lona

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I lager titini.

Nel '43 le prime stragi in Istria; nel '45 il secondo atto: le foibe. Con un gran finale: la deportazione e l'uccisione di migliaia di nostri connazionali. Così il maresciallo comunista voleva ripulire la Venezia Giulia e la Dalmazia. Roma sapeva, ma ha sempre preferito tacere per non rompere con Belgrado. "Il Borghese" ha scoperto un documento segreto della Marina Militare.

Leggi anche un articolo nel quale il giornalista Nicola Vacca racconta il suo incontro col poeta croato Ante Zemljar scampato al gulag titino di Goli Otok.

 

 

L'articolo del "Borghese".

  Premessa

-Giuseppe Spano aveva 24 anni e molta fame. In poco più di un mese aveva perso oltre 20 chili ed era diventato pelle e ossa. Quel 14 giugno 1945 non resistette e rubò un po' di burro. Fu fucilato al petto per furto.
-Ferdinando Ricchetti aveva 25 anni ed era pallido, emaciato. Il 15 giugno 1945 si avvicinò al reticolato per raccogliere qualche ciuffo d'erba da inghiottire. Fu fucilato al petto per tentata fuga.
-Pietro Fazzeri aveva 22 anni e la sua fame era pari a quella di centinaia di altri compagni. Ma aveva paura di rubare e terrore di avvicinarsi al reticolato. Il 15 luglio 1945 morì per deperimento organico.

 

Colonna di finanzieri condotti verso la deportazione.

Trieste, maggio 1945: colonna di finanzieri condotti verso la deportazione in Jugoslavia.

 

In quale campo della morte sono state scritte queste storie? A Dachau, a Buchenvald oppure a Treblinka? No, siamo fuori strada: questo è uno dei lager di Tito.
Borovnica, Skofja Loka, Osseh. E ancora Stara Gradiska, Siska, e poi Goh Otok, l'Isola Calva. Pochi conoscono il significato di questi nomi. Dachau e Buchenvald sono certamente più noti, eppure sono la stessa cosa.Solo che i primi erano in Jugoslavia e gli internati erano migliaia di italiani, deportati dalla Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale e negli anni successivi, a guerra finita, durante l'occupazione titina.

 

Uno dei tanti militari internati nei campi di concentramento titini.

 

I deportati dimenticati in nome della politica atlantica.

Una verità negata sempre, per ovvi motivi, dal regime di Belgrado, ma inspiegabilmente tenuta nascosta negli archivi del nostro ministero della Difesa. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra fino ad oggi per codardia, hanno accettato supinamente di sacrificare sull'altare della politica atlantica migliaia di giuliani, istriani, fiumani, dalmati. Colpevoli solo di essere italiani.
"Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica (40B-D2802) e all'ospedale di Skofjia Loka (11 -D-253 1) ambedue denominati della morte", titola il rapporto del 5 ottobre 1945, con sovrastampato "Segreto", dei Servizi speciali del ministero della Marina. Il documento, composto di una cinquantina di pagine, contiene le inedite testimonianze e le agghiaccianti fotografie dei sopravvissuti, accompagnate da referti medici e dichiarazioni dell'Ospedale della Croce Rossa di Udine, in cui questi ultimi erano stati ricoverati dopo la liberazione, e da un elenco di prigionieri deceduti a Borovnica. Il colonnello medico Manlio Cace, che in quel periodo ha collaborato con la Marina nel redigere la relazione che, se non è stata distrutta, è ancora gelosamente custodita negli archivi del ministero della Difesa, lasciò fotografie e copia del documento al figlio Guido, il quale lo ha consegnato alle redazioni del Borghese e di Storia illustrata.


Orrore: il carabiniere Damiano Scocca, classe 1921 fotografato all'ospedale di Udine nell'agosto del 1945 dopo la liberazione dal lager jugoslavo.

Damiano Scocca

 

 

Manca il cibo ma abbondano le frustate.

"Le condizioni fisiche degli ex internati", premette il rapporto, "costituiscono una prova evidente delle condizioni di vita nei campi iugoslavi ove sono ancora rinchiusi numerosi italiani, molti dei quali possono rimproverarsi solamente di aver militato nelle fila dei partigiani di Tito in fraterna collaborazione  con i loro odierni aguzzini..." Nel rapporto del carabiniere Damiano Scocca, 24 anni, preso dai titini il 1° maggio 1945, si può leggere quanto segue: " il vitto era pessimo e insufficiente e consisteva in due pasti al giorno composti da due mestoli di acqua calda con poca verdura secca bollita (...) A Borovnica non si faceva economia di bastonate; durante il lavoro sul ponte ferroviario nelle vicinanze del campo chi non aveva la forza di continuare a lavorare vi veniva costretto con frustate...".

 

Il soldato Elio

Sandri fotografato

all'ospedale di Udine.

Elio Sandri

 


"...Durante tali lavori", afferma il finanziere Roberto Gribaldo, in servizio alla Legione di Trieste e "prelevato" il 2 maggio, "capitava sovente che qualche compagno in seguito alla grande debolezza cadesse a terra e allora si vedevano scene che ci facevano piangere. lì guardiano, invece di permettere al compagno caduto di riposarsi, gli somministrava ancora delle bastonate e tante volte di ritorno al campo gli faceva anche saltare quella specie di rancio".
Le mire di Tito sul finire del conflitto sono molto chiare: ripulire le zone conquistate dalla presenza italiana e costituire la settima repubblica jugoslava annettendosi la Venezia Giulia e il Friuli orientale fino al fiume Tagliamento.

 

Mario Palmarin

Il soldato Mario Palmarin (estate 1945).

Notare il particolare del braccio 

martoriato (a destra).

Mario Palmarin: particolare del braccio

 


Antonio Garbin, classe 1918, é soldato di sanità a Skilokastro, in Grecia. L'8 settembre 1943 viene internato dai tedeschi e attende la "liberazione" da parte delle truppe jugoslave a Velika Gorica. Ma si accorge presto di essere nuovamente prigioniero. "Eravamo circa in 250. Incolonnati e scortati da sentinelle armate che ci portarono a Lubiana dove, dicevano, una Commissione apposita avrebbe provveduto per il rimpatrio a mezzo ferrovia. Giunti a Lubiana ci avvertirono che la commissione si era spostata...". I prigionieri inseguono la fantomatica commissione marciando di città in città fino a Belgrado.

 

Prigionieri uccisi perché incapaci di rialzarsi.

"In 20 giorni circa avevamo coperto una distanza di circa 500 chilometri, sempre a piedi", racconta ancora Garbin ai Servizi speciali della Marina italiana. "La marcia fu dura, estenuante e per molti mortale. Durante tutto il periodo non ci fu mai distribuita alcuna razione di viveri. Ciascuno doveva provvedere per conto proprio, chiedendo un pezzo di pane ai contadini che si incontravano... Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti però sono stati molti di più... Ci internarono nel campo di concentramento di Osseh (vicino Belgrado, ndr). Avevamo già raggiunto la cifra di 5 mila fra italiani, circa un migliaio, tedeschi, polacchi, croati...".
Chi appoggia Tito nel perseguire il suo obiettivo di egemonia sulla Venezia Giulia? Naturalmente il leader del Pci Palmiro Togliatti, che il 30 aprile 1945, quando i partigiani titini sono alle porte di Trieste, firma un manifesto fatto affiggere nel capoluogo giuliano: "Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con loro nel modo più assoluto". 

 


A confermare che la pulizia etnica é continuata anche a guerra finita sono le affermazioni di Milovan Gilas, segretario della Lega comunista jugoslava, che, in un'intervista di sei anni fa a un settimanale italiano, ammette senza giri di parole: "Nel 1946 io ed Edvard Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Cosi fu fatto". 

 

Il soldato Mario Cena,

 classe 1924.

Mario Cena

 


Skofja Loka, l'ospedale chiamato "cimitero".

E nei campi di concentramento finiscono anche i civili, come Giacomo Ungaro, prelevato dai titini a Trieste il 10 maggio 1945. "Un certo Raso che attualmente trovasi al campo di Borovnica", è la dichiarazione di Ungaro, "per aver mandato fuori un biglietto è stato torturato per un'intera nottata; è stato poi costretto a leccare il sangue che perdeva dalla bocca e dal naso; gli hanno bruciacchiato il viso e il petto così che aveva tutto il corpo bluastro. Sigari accesi ci venivano messi in bocca e ci costringevano ad ingoiarli". 
I deperimenti organici, la dissenteria, le infezioni diventano presto compagni inseparabili dei prigionieri. "...Fui trasferito all'ospedale di Skotja Loka. Ero in gravissime condizioni", è il lucido resoconto del soldato di sanità Alberto Guarnaschelli, "ma dovetti fare egualmente a piedi i tre chilometri che separano la stazione ferroviaria dall'ospedale. Eravamo 150, ammassati uno accanto all'altro, senza pagliericcio, senza coperte. Nella stanza ve ne potevano stare, con una certa comodità, 60 o 70. Dalla stanza non si poteva uscire neppure per fare i bisogni corporali. A tale scopo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Eravamo affetti da diarrea, con porte e finestre chiuse. Ogni notte ne morivano due, tre, quattro. Ricordo che nella mia stanza in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva...".

 

Il soldato

Ezio Vito.

Ezio Vito


"Non dimenticherò mali maltrattamenti subiti", è la testimonianza del soldato Giuseppe Fino, 31 anni, deportato a Borovnica ai primi di giugno 1945, "le scudisciate attraverso le costole perché sfinito dalla debolezza non ce la facevo a lavorare. Ricorderò sempre con orrore le punizioni al palo e le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare un'ora o anche due legati e sospesi da terra; ricorderò sempre con raccapriccio le fucilazioni di molti prigionieri, per mancanze da nulla, fatte la mattina davanti a tutti...".
"Le fucilazioni avvenivano anche per motivi futili...", scrive il rapporto segreto riportando il racconto dei soldati Giancarlo Bozzarini ed Enrico Radrizzali, entrambi catturati a Trieste il 1° maggio 1945 e poi internati a Borovnica.

 

 

Per ore legati ad un palo con il filo di ferro.

«La tortura al palo consisteva nell'essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un'altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore. Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacché, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all'osso causandogli un'infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skoija Loka. Ma ormai non c'era più niente da fare, nel braccio destro già pul­lulavano i vermi... Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero...»

 

Antonio Foschi

visto di spalle.

Antonio Foschi

 

Nel lager di Borovnica furono internati circa 3 mila italiani, meno di mille faranno ritorno a casa. A questi ultimi i soldati di Tito imposero di firmare una dichiarazione attestante il «buon trattamento» ricevuto. «I prigionieri (liberati, ndr) venivano diffidati a non parlare», racconta ancora Giacomo Ungaro, liberato nell'agosto 1945 «e a non denunziare le guardie agli Alleati perché in tal caso quelli che  rimanevano al campo avrebbero scontato per gli altri».  

 

 

Il bersagliere

Gino Santamaria.

Gino Santamaria

 

 

I principali sistemi di tortura.

Per conoscere gli orrori di un campo di concentramento titino è opportuno riassumere i vari tipi di punizione, come emergono dai racconti dei sopravvissuti. La prima è la fucilazione decretata per la tentata fuga o per altri fatti ritenuti gravi da chi comanda il campo, il quale commina pena sommarie. Spesso il solo avvicinarsi al reticolato viene considerato un tentativo d’evasione. L’esecuzione avviene al mattino, di fronte a tutti gli internati. 
C’è poi il "palo" che è un’asta verticale con una sbarra fissata in croce: ai prigionieri vengono legate le braccia con un fil di ferro alla sbarra in modo da non toccare terra con i piedi. Perdono così l’uso degli arti superiori per un lungo tempo se la punizione non dura troppo a lungo. Altrimenti per sempre. 
Altra pena è il "triangolo" che consiste in tre legni legati assieme al suolo a formare la figura geometrica al centro della quale il prigioniero è obbligato a stare ritto sull’attenti pungolato dalle guardie finché non sviene per lo sfinimento. 
Infine, c’è la "fossa", una punizione forse meno violenta ma sempre terribile, che consiste in una stretta buca scavata nel terreno dell’esatta misura di un uomo. Il condannato, che vi deve rimanere per almeno mezza giornata, non ha la possibilità nè di piegarsi nè di fare alcun movimento. 

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Nicola Vacca racconta il suo incontro col poeta croato Ante Zemljar scampato al gulag titino di Goli Otok.

Si scrive quando in un momento di inquietudine, di disagio e di dolore attraversa la mente e il cuore. La vera letteratura, la poesia autentica, nascono dalla sofferenza, dalla privazione del sentimento e della libertà. Queste impressioni le ho ricavate incontrando in un albergo romano un poeta croato, Ante Zemljar, giunto in Italia per promuovere il suo nuovo libro L'inferno della speranza (Multimedia edizioni). È vero quello che scrive Pessoa, cioè che l'opera del poeta coincide in maniera imprescindibile con le vicende della sua vita. La conferma è giunta dopo aver ascoltato la tragica esperienza esistenziale di questo ottantunenne personaggio straordinario e letto la sua opera che finisce per narrare le vicissitudini del suo esistere. Ante Zemljar è nato nel 1922 nell'isola di Pago in Croazia. Laureato all'Università di Zagabria in lettere comparate, si dedica all'attività letteraria, come narratore, saggista e poeta. Dapprima partigiano della prima ora, combatte e scrive poesie tra le montagne della sua terra. La sua opera non soggiace alle regole del realismo socialista e i dirigenti di Tito si oppongono alla sua pubblicazione. Nel 1949 viene arrestato perché non condivide la rottura sovieto-jugoslava. Viene deportalo a Goli Otok, una delle prigioni più feroci dell'universo concentrazionario dello spietato regime comunista. Questa esperienza lo segnerà per tutta la vita. Ma lui non si sottrae al dovere della memoria, e con lucidità e dovizia di particolari mi racconta le atrocità commesse dai comunisti titini in quella prigione disumana. Mentre mi narra con le lacrime agli occhi i particolari cruenti della sua vita da prigioniero politico mi mostra le fotografie che testimoniano le atroci condizioni di vita nelle quali lui e suoi sventurati compagni erano costretti a vivere. Mi dice tutto di Goli Otok, c di come quel soggiorno forzato abbia influenzato la sua opera poetica. Il suo sguardo, smarrito e commosso, ancora non riesce a credere come tutto questo sia potuto accadere e si sente in dovere di raccontare al mondo intero la sua esperienza, e quella di chi con lui l'ha vissuta, perché tutto ciò non accada più. Nell'inferno dell'Isola Nuda, Ante scriveva all'insaputa dai suoi aguzzini. «Anche qui, in questa nuova prigione – mi racconta - scrivevo poesie, ma di nascosto, su dei foglietti strappali dai sacchi di carta con cui si trasportava il cemento. Nascondevo poi i foglietti sotto i sassi. Sapevo di rischiare molto, anche di essere ucciso, ma non mi importava, e al termine del periodo di prigionia riuscii a portar via tutti i foglietti. Potei pubblicare le mie poesie solamente dopo quarant'anni che le avevo tenute nascoste dalla polizia che seguiva ogni mio passo e mi rendeva la vita impossibile. Il libro, intitolato Braccata sull'isola n. 2, apparve nel 1985, mentre la seconda edizione vide la luce nel 1997, con il titolo L'inferno della speranza. È una vera fortuna che ora siano giunti fino a noi i versi di Zemljar, un vero e proprio atto d'accusa contro tutti gli oppressori di qualsiasi tempo. Tutto quello che leggo ne L'inferno della speranza coincide terribilmente con il racconto che il poeta croato mi fa del luogo della sua prigionia. Non conoscevo nei dettagli i segreti di Goli Otok, e Ante, senza rancore per i suoi carnefici e con la calma del testimone lucido che avverte il bisogno interiore di raccontare tutto affinché il mondo intero conosca l'efferatezza dei crimini del comunismo, mi coinvolge nelle sue storie ed io prendo appunto mentre lo sento parlare diventando a mia volta testimone pronto a farmi portavoce della sua esperienza di vittima. In questo modo lo sento parlare di Goli Otok come di un'isola situata tra le isole Rab, Grgur e Prvic, dal 1949 campo di concentramento, istituito dopo la risoluzione dell'Informburo sovietico su iniziativa di Josip Broz Tito, che vi ha fatto internare gli avversari della sua dittatura (sotto "Affogamento nell'acqua" disegno di un ex-internato a Goli Otok).

Affogamento nell'acqua.

In questo modo la Jugoslavia era diventata un lager poliziesco, essendo state soffocate la democrazia e la libertà per le quali avevano lottato i suoi partigiani. «Questa è stata - racconta Zemljar - una delle peggiori prigioni in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Qui Tito aveva internato gli avversari politici: un cospicuo numero dei suoi fedeli combattenti, ufficiali, generali, contadini, studenti, giornalisti, professori, scrittori, economisti, tra i quali anche un numero cospicuo di donne. Sull'isola si giungeva a causa del lavoro organizzato di opposizione, per lo più per l'aver parlato in pubblico (il cosiddetto delitto verbale), per aver espresso dei dubbi sulle scelte politiche, o per aver dato qualche piccolo aiuto alle famiglie degli internati». Un mondo crudele e spietato, nel quale veniva calpestata la dignità della persona, e i crimini commessi dagli uomini di Tito ancora oggi pesano come un macigno sul corso della Storia. Il poeta croato continua a raccontarmi delle torture e delle punizioni inflitte ai detenuti e mi dice di essere in possesso di alcuni filmati inediti che documentano il clima di terrore che si respirava su quell'isola maledetta e molto presto li mostrerà in pubblico. «I detenuti venivano puniti in modi più crudeli, peggio che in Siberia, con lo scopo di privarli della loro personalità, o semplicemente per liquidarli. L’isola era completamente priva di vegetazione, battuta dalla fortissima e gelida bora invernale. Gli stessi detenuti vi hanno eretto delle costruzioni e piantato la vegetazione. Il durissimo lavoro si svolgeva nelle cave, ma quelli che scontavano pene speciali venivano picchiati ogni giorno a sangue. Quasi tutti i detenuti avevano subìto quella sorte, alcuni anche più volte. Oltre a venire picchiati venivano umiliali dagli sputi, dalla sporcizia e dai pidocchi, oppure dovevano stare fermi sopra i recipienti colmi di feci e di orina, o sopportare il peso di sassi enormi». Ascolto la sua storia, così densa di dettagli e particolari, senza battere ciglio; annoto tutto in silenzio, e il mio interlocutore non ha voglia di lasciarmi andare. Sul nostro incontro sarà posta la parola fine soltanto quando egli avrà finito di rilasciare un resoconto dettagliato di quell'inferno. Perché tutti devono sapere che la violenza spietata degli oppressori si è abbattuta sulla sua vita, e il peso di quella tragedia ha cambiato il suo destino e quello di una rilevante parte dell'umanità, che insieme a lui ha sofferto per le medesime cause, e che oggi incontra nel dovere della memoria il riscatto per quegli anni di vita perduti nell'assurdo mondo dell'Arcipelago Gulag. Il dramma dell'inferno della speranza, da Goli Otok, un tempo il carcere più terribile per i prigionieri politici di tutta l'Europa, grazie al racconto della memoria mai tradita, arriva fino a noi attraverso l'innocenza violata del poeta Ante Zemljar, che considera la poesia «l'audacia dell'incompetenza» che appartiene solo a chi è originale. Gli altri belano nel gregge protetti dal rumore, che resta impresso nelle nostre coscienze che insieme a lui non vogliono dimenticare. Dopo un'ora e mezzo il nostro incontro termina. Il tempo è volato via e Ante vorrebbe ancora raccontarmi altre storie di quei terribili anni. Desidera continuare a donarmi la sua parola ansiosa di rendere testimonianza. Lo vedo allontanarsi, già pronto a raccontare la sua storia ad altri amici per continuare a ricordare. Mentre lo saluto sfoglio il suo libro, venuto fuori dalle nude ferite non ancora rimarginale del gulag.

 

 

 

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