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1) Il 5 maggio 1945 a Trieste.  

2) La "Guardia del Popolo".

3) Il "Tribunale del Popolo".

 

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Aggiornamento del 02 aprile 2006: Caduti di Via Imbriani (5 maggio 1945): verrà loro conferita la Medaglia d'oro al merito civile il 5 maggio p.v..

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Aggiornamento del 24 giugno 2005: il Governo sloveno è pronto ad aprire gli archivi per far luce sulle deportazioni di goriziani nel maggio ’45.

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1) Il 5 maggio 1945 a Trieste.

Premessa.


E' il terzo giorno (della famosa "quarantena titina") in cui la città di Trieste è sotto il controllo dell' "esercito" di Tito. In città il clima è di festa a seguito della capitolazione delle forze armate tedesche. Il popolo di Trieste però ancora non si è reso conto di ciò che lo attende.

(…) Il 5 maggio Trieste aspettava ancora di dimostrare la sua gioia per l'avvenuta liberazione. Il prepotente bisogno di esternare i proprio sentimenti in qualche modo non poteva più essere trattenuto. Era una mattina di sole e la primavera si faceva sentire con un impellente impulso di esultanza (...).
Così nacque quella manifestazione dopo tanti anni di schiavitù, in una presunta atmosfera di libertà, che doveva venir invece soffocata nel sangue innocente di 15 vittime. (...).
Già durante la prima mattinata si notava un movimento insolito (...).
Allorché dai quattro punti cardinali della città il popolo triestino saturo di impazienza si mosse, convergendo al centro, si effettuò il miracolo di fede tanto contenuto. Tutta la città si ammantò di tricolore. Vecchi e giovani, uomini e donne, radicali ed estremisti, tutti affratellati in un unico sentimento gridarono il nome della loro fede: Italia! (...) Mentre la marea di popolo si avviava lungo il Corso in direzione di Piazza Goldoni, cantando gli inni della propria passione, ad un tratto si udì un miagolare di mitragliatrice. Lo stupore più che il terrore, inchiodò per un attimo la massa del popolo allibita. Ma allorché si vide il terreno cospargersi di caduti e il sangue zampillare dalle ferite, il raccapriccio si impossessò degli animi ed un insano spavento primordiale attanagliò i cuori, Tutto sarebbesi aspettato tranne tale ignobile ed ingloriosa carneficina. I "drusi" ( l' "esercito" titino N.d.R.) curvi sulle armi, con il ceffo contratto in un'orribile smorfia di sadico piacere, sparavano all'impazzata sulla folla inerme. (...) Dopo l'inevitabile fuggi fuggi seguito alla sparatoria, e il conseguente ritiro delle bandiere tricolori dalle finestre per ovviare inutili rappresaglie, la calma tornò. Era una calma funebre però. Le strade ridivennero deserte e il corpo straziato delle vittime rimase in balia degli assassini i quali lo gettarono nel deposito mortuario all'ospedale (...).
Ecco i nomi delle vittime ( che non troverete nei libri di storia, N.d.R.):

Per i morti:
1- Graziano Novelli, anni 20;
2- Carlo Murra, anni 19;
3- Mirano Sanzin, anni 26;
4- Claudio Burla, anni 21;
5- Giovanna Drassich, anni 69.

 

Graziano Novelli,

anni 20.

Graziano Novelli

Carlo Murra,

anni 19.

Carlo Murra

Miran Sanzin

Miran Sanzin,

anni 26.

Claudio Burla

Claudio Burla,

anni 21.

 


Per i feriti:
  1- Albino Canaletti;
  2- Manlio De Mattia;
  3- Tancredi Kolarski, rimasto invalido;
  4- Camillo Carmeli;
  5- Angelo Cavezza;
  6- Antonio Kreiser
  7- Augusto Mascia;
  8- Pina Solimossi;
  9- Renato Artico
10- Marialuisa Fonda.
Il sangue di questi innocenti fece bella mostra di sé per parecchi giorni, sin tanto che la pioggia non lo lavò cancellando la traccia materiale, ma non riuscendo a togliere dall'animo dei triestini il ribrezzo e il disprezzo per i volgari assassini.
(...)
Tre mesi dopo, allorché il popolo triestino recavasi sul posto dell'eccidio per deporre delle corone in memoria dei suoi innocenti figli, una contro dimostrazione "progressista" tentò di turbare la sacra cerimonia, ma ebbe il fatto suo. Con coraggio, e meravigliati dell'inaspettata reazione, i manigoldi dell'unione antifascista italo-slava se la diedero a gambe. Più tardi quelle gentildonne del D.A.I.S. ( donne antifasciste italo-slave) approfittando dell'assenza di sorveglianza staccarono le corone e con i nastri si pulirono le scarpe (..).
Il 5 maggio tramontava in un'atmosfera cupa e tragica.

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- Caduti di Via Imbriani (5 maggio 1945): è stata loro conferita la Medaglia d'oro al merito civile.

MEDAGLIA D’ORO AI CADUTI PER LA LIBERTA’ E L’ITALIANITA’ DI TRIESTE

L’avv. Paolo Sardos Albertini ha reso noto che il Capo dello Stato ha conferito la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria di quei cinque cittadini di Trieste che, a guerra ormai finita, il 5 maggio 1945 mentre manifestavano in nome della libertà e dell’italianità di Trieste, vennero falciati dal fuoco delle truppe jugoslave nonché alla memoria di altri due triestini che, in epoche immediatamente successive, subirono anch’essi analogo tragico sacrificio. Era stata la Lega Nazionale, in una lettera del 4 maggio 2005, a chiedere al Presidente Carlo Azeglio Ciampi, la concessione di tale riconoscimento alla memoria di : Claudio Burla, Giovanna Drassich, Carlo Murra, Graziano Novelli, Mirano Sancin, Emilio Beltramini, Alino Conestabo. Alla richiesta della Lega Nazionale si erano poi associati gli Enti Locali, sia la Provincia che il Comune di Trieste. Quest’ultimo, in particolare, con delibera giuntale del 5 settembre 2005, aveva fatto proprie le motivazioni e le richieste della Lega Nazionale. Il Capo dello Stato, nell’erogazione di tale riconoscimento, ha dato testimonianza, una volta di più, della sua attenzione e sensibilità per la storia, per le vicende, e per i drammi di queste terre. L’onore che con questo atto viene reso a tali Caduti va in qualche modo a completare l’analogo riconoscimento concesso ai Caduti del 1953 e la legge istitutiva della “Giornata del Ricordo” , approvata pressoché all’unanimità dal Parlamento Italiano: il tutto a recupero di una memoria storica che per troppo tempo era stata ignorata ed a compimento di un atto di Giustizia e di Pietà che costituisce la premessa migliore per guardare al futuro con animo rasserenato. La cerimonia del conferimento delle onorificenze – ha concluso l’avv. Sardos – avrà luogo il 5 maggio p.v. nel corso dell’annuale cerimonia promossa dalla Lega Nazionale, cerimonia che quest’anno si svolgerà nella Sala del Consiglio Comunale, ove il Prefetto di Trieste conferirà ai familiari delle vittime la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria accompagnata dalla seguente motivazione: “Animato da profonda passione e spirito patriottico, partecipava ad una manifestazione per il ricongiungimento di Trieste al Territorio nazionale, perdendo la vita in violenti scontri di piazza. Mirabile esempio di elette virtù civiche ed amor patrio, spinti sino all’estremo sacrificio”.

Trieste, 24 marzo 2006

- Leggi un articolo tratto da "Il Piccolo" del 25/03/06 cliccando qui.

- Per ulteriori approfondimenti clicca qui, accederai al sito della Lega Nazionale di Trieste.

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Quattro articoli tratti dai giornali.

1) "Il Piccolo" del 04/05/2005 Storia - 5 maggio 1945: a Trieste si moriva per l’Italia

STORIA Dopo la fine della seconda guerra mondiale altro sangue venne sparso quel giorno per le vie della città.

Non fu un rigurgito di fascismo, ma un moto di rivolta di chi voleva tornare alla patria.
di Corrado Belci


Quelli del 5 maggio 1945 sono i primi morti nella battaglia per l'appartenenza di Trieste e dell'Istria all'Italia dopo la fine delle operazioni belliche. Come è noto, purtroppo, le vittime sono state tante, tanti gli scomparsi, prima e dopo quei 40 giorni di occupazione jugoslava.
Ma i morti di quel giorno, ricordati dalla lapide all'angolo tra il Corso e via Imbriani, sono stati uccisi dal piombo degli occupatori mentre manifestavano, inermi, invocando pubblicamente l'Italia. Nient'altro. È giusto onorarli, quei morti a sessant'anni dal loro sacrificio.
Naturalmente, la versione costruita per motivare la strage fu quella del rischio di un «ritorno fascista». Come documenta la ricostruzione di Roberto Spazzali, le vicende furono invece limpide e spontanee in tutto, tranne che nella sparatoria omicida.
Come era sorto quel corteo che invocava l'Italia? L'intuizione che ebbero gli improvvisati promotori non era affatto sbagliata, anche se muoveva da un impulso ingenuo. Quel giorno aveva raggiunto Trieste il generale americano Mark W. Clarke ed era andato ad alloggiare all'Hotel de la Ville, sulle rive. L'idea era semplice e candida: è importante che questo comandante americano capisca che Trieste è italiana. Ed era assai fondata l'intuizione che quel generale venuto da lontano potesse non sapere niente.
La città - e il resto della Venezia Giulia - era infatti ancora nell'incertezza dei poteri, sia militari che civili, anche se gli jugoslavi tentavano di accelerare i tempi di un insediamento stabile. E, dunque, il problema stava proprio nella diversità di progetti e di atteggiamenti delle due forze armate che convergevano da est e da ovest verso Trieste, quelle jugoslave e quelle alleate. Le prime avevano forzato la loro corsa verso occidente non solo per sconfiggere e cacciare i tedeschi, ma per realizzare una occupazione militare che preludesse alla annessione dei territori, Trieste e la Venezia Giulia. Le forze armate alleate avevano ragionato, invece, in termini prevalentemente militari, senza percepire il sottinteso espansionistico della avanzata jugoslava. Il loro problema principale era quello di non precludersi l'uso del porto di Trieste e il controllo delle vie di comunicazioni con l'Austria.
Mano a mano che il tempo rivelava la «fretta» jugoslava e faceva emergere i propositi annessionistici, Churchill percepì il risvolto politico-territoriale del problema che si sarebbe creato, anche se lo considerava sotto il più generale aspetto degli equilibri con l'Unione Sovietica ed i suoi alleati ed in una valutazione certamente secondaria rispetto al quadro del centro Europa (la Germania e Berlino).
Tuttavia, malgrado uno scambio di messaggi con Truman - restio a farsi coinvolgere in una complicazione «balcanica» - Churchill ottenne il via libera per recuperare il ritardo della marcia su Trieste, ma tutti sanno che al loro arrivo i neo-zelandesi si trovarono davanti al fatto compiuto. Cominciò subito, dunque, il braccio di ferro tra gli alleati e gli jugoslavi sull'assetto dell'occupazione militare nella Venezia Giulia, e proprio le violente reazioni di Tito rivelarono il proposito di una occupazione che pregiudicasse la soluzione territoriale.
Come è noto, il primo ministro inglese non aveva escluso nemmeno l'uso della forza per far sgomberare gli jugoslavi da Trieste, mentre assai più prudente si era rivelata la posizione americana.
L'idea di far percepire al generale Clark il vero volto di Trieste era, pertanto, quanto mai fondata in quei giorni. E la scintilla di un corteo scaturita dai gruppi che «curiosavano» davanti all'Hotel de la Ville si collocava proprio all'inizio della contesa che, pochi giorni dopo, avrebbe visto il generale Alexander usare toni durissimi nei confronti di Tito e spostare il conflitto sul piano della trattativa internazionale.
Ne sarebbe uscito l'accordo del 9 giugno, che con la creazione della «linea Morgan» determinò formalmente le zone di occupazione jugoslava e alleata della Venezia Giulia, pregiudicando in gran parte la sorte dell'Istria. Anche quell'accordo risentì della prevalenza dei criteri militari su quelli politici da parte alleata, o quanto meno di una valutazione piuttosto grossolana («questioni di giardinaggio») di quelli che venivano considerati dettagli. Infatti, gli alleati ottennero la zona di Trieste e l'enclave di Pola (abbandonato poi alla Conferenza della pace), ritenendo poco rilevante tutto il resto, compresi i famosi «ancoraggi» delle cittadine costiere dell'Istria.
E, del resto, la incomprensione sul problema tra l'Italia e gli Alleati non fu mai sciolta. Per l'Italia si trattava (e si è trattato) della perdita di una parte del territorio nazionale, per gli Alleati era una disputa «minore».I morti del 5 maggio di 60 anni fa si immolarono, dunque, nel tentativo di invocare una giustizia politica internazionale in luogo degli ambigui esiti militari. Per il loro sacrificio io credo che la Repubblica debba onorarli come meritano i primi morti per l'Italia dopo la fine della guerra.

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2) Il Piccolo 12/05/05 - Lettere

Quel 5 maggio del 1945

In relazione all’interessante articolo firmato da Roberto Spazzali, riguardante il grave fatto di sangue avvenuto nella mattina del 5 maggio 1945, essendo stato presente e partecipe a quel tragico fatto, desidero dare la mia testimonianza. Già il 4 maggio si sparse la voce che all’indomani, dopo il ritiro dal centro città delle masse titine venute da fuori, sarebbe stata organizzata la prima manifestazione italiana. Ricordo che al termine della sfilata delle forze titine, gruppi di triestini, sempre più numerosi, si concentrarono nelle vie adiacenti a Barriera Vecchia.All’improvviso da un caseggiato di via delle Zudecche uscì un gruppo di manifestanti con le bandiere tricolori. Passando parola i gruppi di Barriera si unirono a quelli di via delle Zudecche, formando così una folla sempre più numerosa che si dirigeva compatta verso via Silvio Pellico, sede del «Piccolo».Uno dei manifestanti, arrampicatosi su un balcone dell’edificio, incitò tutti a proseguire per il Corso e arrivare in piazza dell’Unità. Con i tricolori in testa i manifestanti iniziarono la sfilata. Il sottoscritto, essendo fra i primi della fila, si trovò a camminare sul marciapiede accanto all’ex cartoleria Glessich. Da lì intravidi l’appostarsi, sul marciapiede opposto, di un gruppo di militari dell’esercito di Tito, i quali a un ordine spararono all’improvviso direttamente sui dimostranti.Vi fu un fuggi fuggi generale. Trovai un portone aperto e m’introdussi. Salendo le scale di corsa sentii delle voci che mi spronavano sia a raggiungere l’ultimo piano sia, dopo aver scavalcato una finestra soprastante un giardinetto, a scavalcare il muro che confinava con il vecchio cimitero ebraico. Mi trovai così in via del Monte. Proseguii la corsa per via Capitolina, scesi la scala che porta in via Madonnina e raggiunsi piazza Goldoni, dove a quell’epoca abitavo.
Lodovico Cufersin

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3) Il Piccolo del 04/05/05 - 5 maggio 1945: a Trieste si moriva per l’Italia

STORIA Dopo la fine della seconda guerra mondiale altro sangue venne sparso quel giorno per le vie della città

5 maggio 1945: a Trieste si moriva per l’Italia

Non fu un rigurgito di fascismo, ma un moto di rivolta di chi voleva tornare alla patria

di Corrado Belci

Quelli del 5 maggio 1945 sono i primi morti nella battaglia per l'appartenenza di Trieste e dell'Istria all'Italia dopo la fine delle operazioni belliche. Come è noto, purtroppo, le vittime sono state tante, tanti gli scomparsi, prima e dopo quei 40 giorni di occupazione jugoslava.
Ma i morti di quel giorno, ricordati dalla lapide all'angolo tra il Corso e via Imbriani, sono stati uccisi dal piombo degli occupatori mentre manifestavano, inermi, invocando pubblicamente l'Italia. Nient'altro. È giusto onorarli, quei morti a sessant'anni dal loro sacrificio.
Naturalmente, la versione costruita per motivare la strage fu quella del rischio di un «ritorno fascista». Come documenta la ricostruzione di Roberto Spazzali, le vicende furono invece limpide e spontanee in tutto, tranne che nella sparatoria omicida.
Come era sorto quel corteo che invocava l'Italia? L'intuizione che ebbero gli improvvisati promotori non era affatto sbagliata, anche se muoveva da un impulso ingenuo. Quel giorno aveva raggiunto Trieste il generale americano Mark W. Clarke ed era andato ad alloggiare all'Hotel de la Ville, sulle rive. L'idea era semplice e candida: è importante che questo comandante americano capisca che Trieste è italiana. Ed era assai fondata l'intuizione che quel generale venuto da lontano potesse non sapere niente.
La città - e il resto della Venezia Giulia - era infatti ancora nell'incertezza dei poteri, sia militari che civili, anche se gli jugoslavi tentavano di accelerare i tempi di un insediamento stabile. E, dunque, il problema stava proprio nella diversità di progetti e di atteggiamenti delle due forze armate che convergevano da est e da ovest verso Trieste, quelle jugoslave e quelle alleate. Le prime avevano forzato la loro corsa verso occidente non solo per sconfiggere e cacciare i tedeschi, ma per realizzare una occupazione militare che preludesse alla annessione dei territori, Trieste e la Venezia Giulia. Le forze armate alleate avevano ragionato, invece, in termini prevalentemente militari, senza percepire il sottinteso espansionistico della avanzata jugoslava. Il loro problema principale era quello di non precludersi l'uso del porto di Trieste e il controllo delle vie di comunicazioni con l'Austria.
Mano a mano che il tempo rivelava la «fretta» jugoslava e faceva emergere i propositi annessionistici, Churchill percepì il risvolto politico-territoriale del problema che si sarebbe creato, anche se lo considerava sotto il più generale aspetto degli equilibri con l'Unione Sovietica ed i suoi alleati ed in una valutazione certamente secondaria rispetto al quadro del centro Europa (la Germania e Berlino).
Tuttavia, malgrado uno scambio di messaggi con Truman - restio a farsi coinvolgere in una complicazione «balcanica» - Churchill ottenne il via libera per recuperare il ritardo della marcia su Trieste, ma tutti sanno che al loro arrivo i neo-zelandesi si trovarono davanti al fatto compiuto. Cominciò subito, dunque, il braccio di ferro tra gli alleati e gli jugoslavi sull'assetto dell'occupazione militare nella Venezia Giulia, e proprio le violente reazioni di Tito rivelarono il proposito di una occupazione che pregiudicasse la soluzione territoriale.
Come è noto, il primo ministro inglese non aveva escluso nemmeno l'uso della forza per far sgomberare gli jugoslavi da Trieste, mentre assai più prudente si era rivelata la posizione americana.
L'idea di far percepire al generale Clark il vero volto di Trieste era, pertanto, quanto mai fondata in quei giorni. E la scintilla di un corteo scaturita dai gruppi che «curiosavano» davanti all'Hotel de la Ville si collocava proprio all'inizio della contesa che, pochi giorni dopo, avrebbe visto il generale Alexander usare toni durissimi nei confronti di Tito e spostare il conflitto sul piano della trattativa internazionale.
Ne sarebbe uscito l'accordo del 9 giugno, che con la creazione della «linea Morgan» determinò formalmente le zone di occupazione jugoslava e alleata della Venezia Giulia, pregiudicando in gran parte la sorte dell'Istria. Anche quell'accordo risentì della prevalenza dei criteri militari su quelli politici da parte alleata, o quanto meno di una valutazione piuttosto grossolana («questioni di giardinaggio») di quelli che venivano considerati dettagli. Infatti, gli alleati ottennero la zona di Trieste e l'enclave di Pola (abbandonato poi alla Conferenza della pace), ritenendo poco rilevante tutto il resto, compresi i famosi «ancoraggi» delle cittadine costiere dell'Istria.
E, del resto, la incomprensione sul problema tra l'Italia e gli Alleati non fu mai sciolta. Per l'Italia si trattava (e si è trattato) della perdita di una parte del territorio nazionale, per gli Alleati era una disputa «minore».
I morti del 5 maggio di 60 anni fa si immolarono, dunque, nel tentativo di invocare una giustizia politica internazionale in luogo degli ambigui esiti militari. Per il loro sacrificio io credo che la Repubblica debba onorarli come meritano i primi morti per l'Italia dopo la fine della guerra.

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4) Il Piccolo del 04/05/2005 - Trieste 5 maggio 1945: pallottole sulla folla, e il selciato di via Imbriani si tinse di rosso.

Quattro persone che facevano parte del corteo rimasero uccise dal fuoco dei soldati jugoslavi, oltre quaranta furono portate in ospedale ferite

Pallottole sulla folla, e il selciato di via Imbriani si tinse di rosso

di Roberto Spazzali

Il 5 maggio 1945 la guerra non si era ancora allontanata dalla Venezia Giulia. A pochi chilometri dal capoluogo giuliano si combatteva: a San Pietro del Carso stava trincerato il 97° Corpo d'Armata del generale Kuebler, ora subordinato al Gruppo d'Armate E del generale Loehr, di stanza a Zagabria.
Nella periferia di Trieste i combattimenti erano cessati due giorni prima, ai quali aveva fatto immediato seguito l'assunzione dei poteri da parte del generale Dušan Kveder, affiancato da Giorgio Jaksetich e Franc Štoka, leader indiscusso dell'Osvobodilna Fronta. A Trieste e a Gorizia subito erano state organizzate le manifestazioni, uniche ammesse, inneggianti Tito e l'annessione alla Jugoslavia.

UNA CITTA’ DIVISA. Tito aveva avanzata una formale richiesta al generale Alexander con la quale chiedeva il ritiro angloamericano dal territorio della Venezia Giulia: dal 3 maggio Trieste è divisa al suo interno da una sorta di linea di demarcazione: il porto e il lungomare urbano, separati dal resto della città col filo spinato, sono controllati dai Britannici, il rimanente agli Jugoslavi.
In questo clima maturano i «fatti del 5 maggio», in una combinazione di episodi, casualità e coincidenze.
Il 3 maggio la città aveva visto una prima manifestazione, pomeridiana, filojugoslava, animata tanto dalla popolazione delle contrade periferiche, quanto da quella dei rioni operai. Nella stessa giornata alcuni gregari del Cln e della brigata azionista «Pisoni», guidati dal dott. Callipari, che tre giorni prima aveva occupato e difeso il Palazzo del Governo, si radunano in piazza Garibaldi per dare vita a una manifestazione, bandiera italiana in testa, Il corteo s'ingrossa lungo la via ma viene intercettato da militari jugoslavi alla cui reazione si sbanda disperdendosi.

5 MAGGIO: IL GENERALE CLARK A TRIESTE. Nel corso della mattina del 5 maggio si sparge la voce di una manifestazione italiana in Piazza dell'Unità: effettivamente in piazza si stava svolgendo una manifestazione di donne e lavoratori italiani ma appartenenti alle organizzazioni filojugoslave.
Proprio là una folla consistente si è formata in piazza dell'Unità e fa da argine, più che da ala, ai manifestanti filojugoslavi. Qualcuno inizia a scandire il nome di «Italia». Secondo una versione una donna allora annodò un fazzoletto tricolore italiano al collo di un soldato neozelandese e questi venne issato sulle spalle di alcuni giovani che si diressero, seguiti da altra gente, verso l'Hotel de la Ville, dov'era installato il comando della 9th Brigade neozelandese.
Su quanto accadde davanti all'albergo ci sono alcuni documenti fotografici e cinematografici assai interessanti: in una serie di fotografie scattate da operatori britannici si vede una piccola folla davanti l'ingresso e in mezzo a essa una bandiera italiana. Nelle sequenze successive si può notare l'uscita dall'edificio del generale Mark Wayne Clark, comandante della V Army US, accompagnato da ufficiali britannici, che allarga le braccia come se volesse aprire la folla. Clark era a Trieste dal giorno prima. Non è un generale qualsiasi, ma colui che aveva liberato Roma.
In un breve spezzone cinematografico si vedono distintamente le seguenti sequenze: alcune persone tracciano indisturbate delle scritte filojugoslave sulla facciata dell'albergo; una sentinella neozelandese li osserva. Poi le immagini si fanno più mosse e frettolose. L'operatore non riesce a tenere l'obiettivo su una sola inquadratura, per cui decide di riprendere tutto quanto vede. Così entrano in sequenza: alcuni soldati jugoslavi che imbracciano fucili e mitragliatrici e in lontananza delle persone in abiti civili che si allontanano a passo svelto in direzione di corso Cavour. Cambia bruscamente la scena e l'operatore inquadra, distante e alle spalle, due individui che si allontanano con passo deciso verso piazza d'Unità: uno dei due stringe in mano qualcosa che sembra una bandiera italiana. Come se l'assembramento fosse stato sciolto in seguito ad un intervento di forza.

I BERSAGLIERI IN PIAZZA GOLDONI. Secondo alcune ricostruzioni, la folla risale il tratto iniziale di via Mazzini e parallelamente quello del Corso. In prossimità delle vie Cassa di Risparmio, Roma e San Spiridione, la gente confluisce nella principale arteria raggiungendo rapidamente piazza Goldoni sostando nei pressi via Pellico, già sede del «Piccolo». A un balcone si affacciano tre giovani e uno di questi, Bruno Gallico, ex ufficiale dell'esercito italiano, tiene un breve discorso inneggiante i vincoli italiani di Trieste alla madrepatria. Il tutto avvenire sotto lo sguardo di diversi militari jugoslavi appostati alle finestre. La situazione è tesa ma nulla lascia presagire una drammatica svolta.
In piazza Goldoni accade un altro episodio, mai citato nella letteratura e recentemente emerso da un documento del Cln: improvvisamente sopraggiunge un automezzo con a bordo una ventina di bersaglieri italiani di scorta alla salma del tenente Galliano Marchioli, goriziano di origine ma triestino di adozione, del Gruppo di combattimento «Legnano», battaglione «Goito» del Corpo italiano di liberazione, caduto a Bergamo per fatto di guerra il 3 maggio 1945. La folla riconosce il guidoncino sul parafango, circonda l'automezzo invocando l'Italia e su molte finestre compaiono bandiere italiane. I militari italiani, però, proseguono per il cimitero e la folla, orami imponente quanto eterogenea, si muove nuovamente verso l'inizio del Corso; alcune voci volevano che il corteo marciasse verso piazza dell'Unità, ma è più probabile che intendesse raggiungere, attraverso via Imbriani, il sacello di Guglielmo Oberdan.

VIA IMBRIANI: QUANTE VITTIME? Proprio dalla via Imbriani esce una pattuglia jugoslava accantonata nell'atrio di palazzo Diana, mentre un'altra risale il Corso disponendosi a terra in posizione di tiro. Vengono esplosi diversi colpi in direzione del corteo e con l'intenzione di colpire ed uccidere. La folla si sbanda: sul selciato rimangono Graziano Novelli, di anni 30; Carlo Murra, classe del 1927, studente del «Da Vinci» ; Mirano Sanzin di anni 26. Claudio Burla di anni 21, studente dell'Istituto Magistrale morirà quattro giorni più tardi. Claudio Burla quattro giorni prima era stato tra gli insorti del Corpo volontari della libertà, nella brigata «Timavo» agli ordini del capitano Rodolfo Orel. Anche il giovane Murra aveva contribuito all'insurrezione. Si diffuse la voce che le salme raccolte erano state sepolte in una fossa comune. Dagli atti notori si apprende che la sparatoria avvenne alle ore 11.30 del 5 maggio; dodici giorni più tardi il Cln giuliano inviò alle famiglie delle vittime le partecipazioni al cordoglio.
Sulla lapide posta in via Imbriani nel 1947 compare pure il nominativo di Giovanna Drassich, ma è frutto di un'errata trascrizione, in quanto la signora spirò alle 5 di mattina del 5 maggio, all'Ospedale Maggiore dov'era stata ricoverata in precedenza per una ferita d'arma da fuoco.
Oltre una quarantina i feriti accertati. Molti altri ricorsero alle cure del medico di famiglia per evitare la segnalazione del ricovero. In documento del Cln viene indicato tra i morti il nominativo di Vittoriano Stefani, originario di Cherso, ma non sembra trovare conferma.

CHI SPARO’ E PERCHE’?
Per quanto si può dedurre dalla letteratura, vengono esplose non meno di tre scariche, sentite distintamente da Quarantotti Gambini che si trovava in quel momento in piazza della Borsa e che vide, dopo la seconda, la folla ondeggiare e cercare riparo nei portoni degli stabili.
Probabilmente vennero sparati dei colpi di fucile dalle finestre del «Piccolo» a scopo intimidatorio e in direzione dello stabile che ospita il caffè Italia. Sulla facciata di un piccolo stabile del Corso, quasi sull'angolo di piazza Goldoni, fino a pochi anni fa si notavano ancora dei fori di proiettile ma di difficile attribuzione, poiché nella medesima direzione aveva sparato quattro giorni prima una mitragliera tedesca.
Poco o nulla si sa sulla composizione e sull'identità degli sparatori e su chi decise ed ordinò di aprire il fuoco.

GLI ANGLOAMERICANI NON CAMBIANO OPINIONE SU TITO. Le ricostruzioni hanno offerto versioni anche contrastanti sull'esatta direzione del corteo ma non sull'opinione che esso segnò un netto punto a sfavore di Tito: l'eccidio di via Imbriani scuote più la popolazione locale che gli alleati angloamericani: l'indomani gli Americani alzeranno la propria bandiera sul pennone del castello di San Giusto, e la banda scozzese si esibirà pubblicamente sul tratto di Rive dirimpetto l'albergo Savoia Excelsior, occupato dai Britannici. Il fatto di sangue non cambiava affatto opinione ed atteggiamento negli angloamericani, salvo che per le osservazioni sull'invadenza di Tito nelle zone attribuite al controllo occidentale.
Certo è che in seguito alla manifestazione, si dovettero registrare una ondata di nuovi arresti per opera dell'Ozna e della Guardia del popolo, e la generica proibizione di ogni manifestazione pubblica.

PER I FILOJUGOSLAVI ERA STATA UNA PROVOCAZIONE «NAZISTA». Già l'indomani «Il Nostro Avvenire» imbastì tutto un teorema non sulla premeditazione «fascista» nella manifestazione ma di una provocazione della Gestapo hitleriana, esibendo sulla stampa alcuni documenti rinvenuti addosso ai feriti e nei pressi nel luogo dell'eccidio, giustificando così la reazione col pretesto che la città si trovava ancora in zona di guerra, per cui la repressione era assolutamente legittima.

IL CLN DAVANTI ALL'IPOTESI DI SOMMOSSA.
È stata attribuita al Cln la paternità della manifestazione e nel 1951 Antonio Fonda Savio confermò pubblicamente l'opinione confutando Federico Pagnacco che aveva inteso sminuire l'apporto.
Nel 1951 Fonda Savio rivelò sulla stampa che tre mesi più tardi, il 5 agosto (quindi conclusa la conferenza di Postdam e note le risoluzioni) si tenne a Trieste la prima grande manifestazione di commemorazione dei caduti di via Imbriani: il corteo era guidato dagli stessi uomini che stavano in prima fila il 5 maggio ma non poté deporre le corone sul luogo dell'eccidio, anzi dovette aprire con fatica la strada verso il Corso, presidiato in forze da elementi comunisti e filojugoslavi. Scoppiò un violento tafferuglio e le corone furono infine deposte nel luogo dove oggi c'è la lapide: fu collocata una targa provvisoria dirimpetto. Quello scontro, però, diede convinzione ai partiti del Cln che era giunto il tempo di contendere la piazza agli avversari, potendo contare su un largo seguito finalmente uscito allo scoperto e deciso a dare voce ai propri sentimenti nazionali.

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2) La "Guardia del Popolo".

Premessa.


(…) Oggi dopo un anno di vita civile (era il 1946 N.d.R.) pare incredibile che tali istituzioni siano esistite e soprattutto che ci sia stato qualcuno che le abbia considerate seriamente. Ma purtroppo durante i quaranta giorni ebbero oltre che l'appoggio incondizionato, anche una tangibile prova di simpatia da parte delle Autorità allora inquirenti, simpatia dovuta forse ad un sentimento d'affinità morale. 

I compiti della Guardia del Popolo.


Ufficialmente le funzioni di polizia avrebbero dovuto essere sostenute dagli organi della polizia militare - logicamente inesistenti nell'esercito titino - e questa mansione venne devoluta alla G.d.P.. Si può immaginare in che razza di mani era caduta la tutela dei cittadini.

I componenti.


Della famigerata "Guardia del Popolo" fece parte il fior fiore della delinquenza regionale. Ecco una lista dei più rappresentativi esponenti di questa eroica milizia:

- Fabietti Mario: autore del furto di 13 milioni al Banco di Sicilia a Catania, autore di numerosi altri furti con iscasso e di evasioni;
- Zholl Ottorino: autore di omicidi, lesioni e furti.
- Antoni (Antunovich) Marcello: autore di numerosi furti con iscasso;
- Rossi Ferruccio Giusto: autore di furti con iscasso, rapine e evasioni;
- Furlan Ettore: autore di omicidio, furti e rapine.
- Zerial Luigi: autore di furti e rapine.
- Destradi Luciano: autore di furti, truffe, contrabbando e resistenza.
- Musina Carlo: autore di numerosi furti.
- Steffe' Giovanni: autore di furti;
- Stoppar Mario: autore di furti e evasioni;
- Cermeli Mario (detto Mario Griso): autore di numerosi furti e otto evasioni;
- Groppazzi Giuseppe: autore di numerosi furti.
- Groppazzi Silvio: idem;
- Belle Giuseppe (complice di Fabietti): autore di furti;
- Cresciani Carlo: scassinatore di casseforti;
- Michelich Agostino: idem;
- Bertolini Eugenio: già condannato all'ergastolo per omicidio a scopo di rapina;
- Pierazzi Bruno: autore di rapine (appartenente alla banda Wellenik);
- Romagnoli Riccardo: autore di rapine idem;
- Wolninski Giorgio: condannato a 28 anni di reclusione per rapina;
- Peternelli Eugenio: autore di furti;
- Comel Aldo: autore di tre rapine;
- Paoli Lodovico: autore di furti;
- Suber Ettore: scassinatore di casseforti;
- Bella Antonio: autore di furti;
- Coloni Attilio: condannato a 39 anni per rapina:
- De Marco Mario: autore di rapine:
- Rish Giorgio: autore di rapine;
- Lenardon Luciano: autore di rapine;
- Gironda Vittorio: autore di furti;
- Butti Leonardo: scassinatore di casseforti.
E non proseguiamo, unicamente per non tediare il lettore. (…) 

Le malefatte

(…) Vogliamo illustrare le malefatte che questa milizia di delinquenti consumò ai danni della popolazione civile. La prima operazione effettuata da questi galantuomini fu la distruzione di una parte dell'archivio della Questura e precisamente quella che conteneva la storia del loro passato tutt'altro che cristallino. Dopo aver distrutto queste prove, loro seconda operazione fu quella d'iniziare una caccia spietata a tutti gli ex agenti della squadra criminale, - abbiamo detto criminale e non politica, - con i quali così spesso avevano a che fare in un passato non ancora molto lontano. Era giusto che si prendessero la rivincita. Sgombrato così il campo da tutti gli inciampi, iniziarono la loro normale attività, cioè il furto e la rapina. Le Autorità jugoslave, per ragioni di simpatia e di interesse, lasciavano fare, anzi sancivano tale operato con la loro augusta firma. Per i colpi grossi, a questi messeri spettavano le decime soltanto perché il grosso della refurtiva andava ai "liberatori". Siccome la voracità dei nuovi padroni non conosceva limiti, le decime erano piuttosto misere e perciò si venne ad un compromesso: Si permetteva ai componenti la sedicente Guardia Popolare di rubare per conto proprio, limitandosi però a furti moderati altrimenti oltrepassando un dato valore, bisognava consegnare la refurtiva ed accontentarsi delle decime (…) .

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3) Il "Tribunale del Popolo".

Premessa.

Nasceva questo pseudo Tribunale il giorno 21 Maggio e la sua prima apparizione venne resa nota dalla stampa cittadina con la pubblicazione del decreto di costituzione. In sintesi tale decreto precisava che il neo Tribunale era sorto per giudicare fascisti e collaborazionisti.

I componenti

Presidente: dott. Sajovitz Umberto, italiano, laureato in scienze economiche e commerciali, assistente universitario.
Membri:
  1.) Stradi Walter, italiano, impiegato;
  2.) Giorgi Mario, italiano, gerente cooperative;
  3.) Maule Bruno, italiana, operaio;
  4.) Bignami Alberto, italiano, commerciante;
  5.) Sorta Giordano, italiano, operaio;
  6.) Ressauer Giovanni, italiano, operaio;
  7.) Vigna Libero, italiano, proprietario d'officina;
  8.) Nardin Milan, sloveno, operaio;
  9.) Suban Mirco, sloveno, proprietario osteria;
10.) Sauli Nino, italiano, ragioniere e perito commerciale, laureando in scienze economiche.

 

I compiti del Tribunale del Popolo.

(...) Il Tribunale del Popolo non aveva alcun metodo di procedura. La difesa non sapeva su quale corpo giuridico appoggiarsi. Tutto proseguiva a seconda dell'umore dei giudici i quali si intendevano di legge come noi ci occupiamo di papato. Di quanti delitti si sia macchiato questo Tribunale, non sappiamo ancora e forse non lo sapremo mai. Vero è però che i tiranni, preoccupati dalla accuse che tutto il mondo civile scagliava loro per gli atroci crimini commessi, vollero con la creazione di questo pseudo Tribunale, dare una certa parvenza di legalità ai loro crimini. Ma non ci riuscirono affatto. I loro ceffi, anche coperti dalla toga, rimanevano sempre l'espressione del delitto.

(...)
Questo Tribunale, che doveva giudicare i collaborazionisti, aveva per Presidente un collaborazionista. Il sig. dott. Sajovitz aveva collaborato con il Comando marina tedesco sino al 1° Maggio '45, facendo i propri sporchi interessi fino all'ultimo istante della dominazione tedesca. Perché la scelta a presidente del tribunale fantoccio era caduta proprio su di un ex collaborazionista? Per la semplice ragione che solamente colui che aveva la coscienza sporca poteva divenire un docile strumento nelle mani dei panslavisti. Quale altro uomo d'onore si sarebbe prestato al turpe mercato diventando il carnefice dei propri fratelli?
Terminata la seduta ed eletti i membri, il comitato ritenne opportuno inviare telegrammi al Maresciallo Tito ed al Maresciallo Alexander. Mentre il resto del telegramma a Tito era tutto un inno di ringraziamento per la "liberazione" effettuata dalle gloriose unita jugoslave, quello diretto al Maresciallo Alexander esprimeva tutto lo stupore per le aspre parole che quest'ultimo aveva proferito all'indirizzo del Maresciallo di tutte le Jugoslavie. 
Il giorno 29 Maggio veniva eletto ad Accusatore Pubblico il dott. Adelmo Nedoch. Questo signore dalle ambizioni smodate, ex combattente in Croazia e in Russia contro la "libertà dei popoli", accolse con entusiasmo l'incarico e per non deludere i propri padroni si mise con accanimento a perseguitare tutti coloro che dimostravano sentimenti italiani. Per fortuna di molti questo mancato statista ebbe corta vita come Pubbico Accusatore. (…). Sugli altri componenti questo Tribunale, il pudore ci vieta ogni apprezzamento.

Dal libro "Fasti e nefasti della quarantena titina a Trieste" di G. Holzer (Trieste, 1946)

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Aggiornamenti: il Governo sloveno è pronto ad aprire gli archivi per far luce sulle deportazioni di goriziani nel maggio ’45.

Tratto da "Il Piccolo" del  24/06/2005 - Deportati goriziani: Lubiana apre gli archivi

La ricerca della verità sul quel tragico maggio ’45 sarà al centro di un incontro congiunto fissato per il 5 luglio

L’appello dei sindaci Brulc e Brancati è stato raccolto dal ministro Rupel

di Luigi Turel

Il Governo sloveno è pronto ad aprire gli archivi per far luce sulle deportazioni di goriziani nel maggio ’45. L’appello del sindaco Brulc è stato raccolto dal ministro degli Esteri Dimitrij Rupel. Che lo ha invitato a Lubiana. E sarà un incontro congiunto quello in programma il 5 luglio.Perché l’invito è stato esteso anche a Brancati.Rimarca il sindaco: «Dò atto a Brulc che ha avuto il coraggio di affrontare temi scabrosi per queste nostre terre e al ministro Rupel per l’impegno assunto. È un fatto di estrema importanza che si affronti la dolorosa questione dei deportati. Del resto io ho sempre detto che continuerò a battermi perché vengano aperti gli archivi sloveni. Noi sindaci, Brulc ed io, facciamo la nostra parte, chiediamo che anche gli altri facciano la loro».Gli fa eco il sindaco di Nova Gorica: «La premessa a quest’incontro con Rupel sta nelle difficoltà che incontriamo per farci sentire a Lubiana: poco o nulla si sa di quanto si sta facendo per consolidare la collaborazione transfrontaliera, né dei progetti che stiamo realizzando con il Comune di Gorizia». Del resto Brulc aveva avuto una riprova, ma non era necessaria, di quanto fosse «lontana» Lubiana lo scorso sabato accompagnando, lungo la cresta del Sabotino, il presidente del parlamento sloveno France Cukjati.Ed entra nel merito della questione: dare una risposta ai familiari dei deportati nel maggio ’45 che chiedono di sapere dove siano sepolti i loro congiunti, dove poter portare un fiore, dove recitare una preghiera. RimarcaBrulc: «Gli anni sono passati, gli archivi devono essere aperti: è una questione etica, non politica. Potrebbe essere che le informazioni che cerchiamo siano invece custodite negli archivi di Belgrado ma questo non ci fermerà».L’incontro con il ministro Rupel deve servire per trovare la «chiave» che apra tutti gli archivi, compresi quelli italiani, dove di tanto in tanto spuntano i cosiddetti «armadi della vegogna». Perché anche nell’ex Jugoslavia non sono poche le famiglie che vivono il dramma dei congiunti dei deportati goriziani come testimonia il diario di don Pietro Brignoli «Santa messa per i miei fucilati».

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