la Locanda 'il Gallo d'Oro' di Vintenberg


Le memorie di un vecchio Frack




I

Ero soltanto un ragazzino povero e mi chiamavo Anthony Modugno, vivevo al sud, nei bassi fondi vicino al porto di Zarak. Mio padre era navigante, partì un giorno con la sua nave e non tornò più. Mia madre morì di malattia pochi mesi dopo. Io avevo otto anni e la mia sorellina Lucida cinque, entrambi venimmo affidati alle cure di una vecchia zia monaca, che dimorava in un monastero fuori città.
Mentre Lucida cresceva bella come un fiore e dolce come un angelo, io diventavo giorno dopo giorno più ribelle e insofferente. Ogni occasione era buona per uscire dal monastero e scappare fino al porto, dove potevo guardare le navi e ascoltare le storie dei marinai, contemplare i tesori portati da paesi lontani, sbirciare in segreto tra le mappe geografiche. Sognavo di andare lontano e di conoscere il mondo.
Le monache, che adoravano la mia sorellina, erano intimorite da me, poiché già a dodici anni sembravo un uomo. Lavoravo nel giardino del monastero, studiavo la storia, la geografia, le lingue dei paesi lontani; poi, appena potevo, scendevo al porto, dove scoprivo i segreti delle bettole, imparavo a combattere, a difendermi, a cantare le musiche di Delos e di Zedghazt. La mia prima donna fu una bellissima mora, più grande di me, con la pelle nera come la notte e gli occhi brillanti, il suo nome era Mahari. Dopo di lei conobbi Eyal, una fanciulla elfica dai lineamenti delicati, di ritorno con suo padre, un mercante, verso il nord. E poi Rosa, Myrabelle, Katarina, Sharleme.
Avevo sedici anni quando mia zia morì, lasciandomi solo con Lucida. Le altre monache decisero di dare in sposa la mia sorellina ad un venditore di tessuti di Delos, un uomo ricco che già più volte aveva manifestato il desiderio di avere una moglie giovane e graziosa; in cambio avrebbe offerto molti benefici economici al monastero.
Naturalmente mi opposi con forza al matrimonio della mia piccola Lucida, che aveva solo tredici anni ed era terrorizzata all'idea di diventare sposa di un uomo di trent'anni più vecchio.
Lei era disperata ed io le proposi di fuggire con me dal monastero, Lucida accettò.
Ma la sera prima della nostra segreta partenza una monaca, che forse sospettava stessimo progettando qualcosa, introdusse il mercante che voleva mia sorella nella sua stanza, e permise che la piccola Lucida venisse oltraggiata.
Al mattino seguente fui il primo a trovare il cadavere di mia sorella suicida, entrai nella sua stanza e lei giaceva stesa sul suo lettino completamente rifatto, in un lago di sangue. Sul suo scrittoio c'era una breve lettera, che qui riporto:

per Anthony
fratello mio, perdonami se non potro' fuggire assieme a te, ma stanotte sono stata venduta ignobilmente e profanata, non posso tollerare piu' di vivere.
Ti prego solo di non dimenticarmi e di spingere al pentimento i responsabili della mia morte. Addio, mio unico affetto, addio Anthony, ti vorro' sempre bene.
Tua Lucida

Ed io, ancora incredulo, presi il coltello insanguinato dalle mani immacolate di mia sorella ed uccisi quattro monache, una dopo l'altra. Quindi, come ebbro, uscii dal convento e mi recai alla locanda in cui dimorava il mercante. Entrai nella sua stanza, mi nascosi ed attesi che tornasse. Tornò: lo aggredii di sorpresa, lo spinsi al pentimento, infine lo sgozzai.
Era mezzogiorno quando raggiunsi il porto e mi imbarcai sulla prima nave in partenza, come mozzo. In una mattina avevo ucciso cinque persone e abbandonato tutto ciò a cui tenevo: mia sorella.


II

Arrivai a Surok dopo alcuni giorni di viaggio. La città mi accolse con un cupo acquazzone, l'atmosfera soleggiata delle mie terre d'origine era scomparsa d'incanto, per lasciare il posto ad un cielo plumbeo, pesante, che si specchiava nella densa schiuma delle onde.
Il porto era molto grande, assai più che a Zarak, enormi bastimenti ormeggiati dondolavano mesti nei pressi del molo. Trovai ricovero in una bettolaccia, assieme ai miei compari marinai che avevo avuto ben poca occasione di conoscere, in così breve tempo.
Avrei voluto proseguire subito la mia fuga verso nord, ma non trovai nessuna nave disposta ad accogliermi, quindi fui costretto a fermarmi. D'altro canto non giunse alcuna notizia del massacro di Zarak, né io osai informarmi, temendo di attirare l'attenzione. Così mi impiegai in una bottega di un birraio, Joe, dove rimasi alcuni mesi. Il lavoro era noioso, la paga scadente, e l'unica attrattiva di quel posto era la dolce Grethel, la figlia del mastro birraio. Il buon Joe mi cacciò dalla sua bottega dopo qualche mese, quando scoprì la passione che la sua figlia provava per me. Così partii nuovamente.
Avevo conosciuto, in quei mesi, un giovanotto assai schietto, coraggioso, Archie. Assieme anche a suo fratello Leonard, accettammo un incarico di un signorotto, di scortarlo in un viaggio di lavoro. Fummo una scorta eccellente, nonostante l'incontro in ben due occasioni con gruppi di briganti. Così fummo assoldati stabilmente come guardie del corpo e ci trasferimmo ad Ammerung.
A questo periodo risale la nostra amicizia con Neal, un giovane praticante di magia dal passato abbastanza burrascoso. Insieme iniziammo a girare nelle zone di Ammerung, per svolgere vari incarichi.
Le cose andavano molto bene, cominciammo a mettere da parte un po' di soldi. La mia passione per le graziose fanciulle mi portava a dilapidare in fretta gran parte delle mie entrate ed erano tempi allegri e spensierati.
La malattia di Archie fu un fulmine a ciel sereno: per garantirgli le cure migliori abbandonammo tutto e raggiungemmo la capitale, Greyhaven, dove il mio povero amico rimase a lungo dai guaritori. Assieme a Neal e Leonard allora rimanemmo nella grande città, dove iniziarono i nostri primi incarichi illegali. Alternavamo l'attività di cacciatori di taglie ad azioni che, se conosciute, sarebbero valse a regalare una grossa taglia sulle nostre stesse teste.
Due anni dopo tutti e quattro, in cambio di una grossa ricompensa, accettammo di accompagnare un losco figuro fino a Benson. Si chiamava Annibal. Allora ignoravo quanto marcio ci fosse in quel remoto ducato, così, fiducioso, mi misi in viaggio con i miei più cari amici.


III

Benson.. il solo ricordo di quei territori mi fa rabbrividire. Le campagne povere, le casette che sembrano delle capanne per animali, gli occhi della gente ignoranti e feroci.
Più ci addentravamo in quel ducato, più le condizioni delle terre e delle persone si facevano miserabili. Per miglia e miglia non si incontrava per le strade che qualche contadino lacero e spesso menomato di qualche arto, un cane rabbioso, poche baracche nel fango e nella miseria.
Dalle anguste finestrelle gli occhi sanguigni di vecchie streghe sospettose ci scrutavano al nostro passaggio, i bambinelli sudici razzolavano nel fango come porci.
Raggiungemmo infine la nostra meta, una cittadina maleodorante e sordida, in cui trovammo riparo in locanda. E qui il nostro datore di lavoro, Annibal, ci spiegò esattamente in cosa sarebbe consistito il nostro incarico: rapire i sei figli del capitano della guardia civica del luogo, quindi consegnarglieli.
Tutti rimanemmo interdetti: i sei figli avevano dai due ai sedici anni, e qualsiasi cosa di male avesse fatto il capitano della guardia civica, nulla poteva essere tanto grave da far ricadere la sua colpa sul capo di sei innocenti.
Annibal ci convinse che avrebbe richiesto un riscatto per il rapimento e che non avrebbe torto un capello ai bambini.
Così, sebbene poco convinti, decidemmo di accettare l'incarico, pur riservandoci di controllare che i piccoli non fossero uccisi.
Ed ecco che si dipinge la pagina più buia della mia vita.
Rapimmo i sei bambini. Non fu cosa semplice, erano ben sorvegliati. Ma assieme ai miei compagni eravamo molto abili e ben coordinati, così riuscimmo; poi conducemmo i poveretti nella grotta dove pattuito.
Il più piccolo era un batuffolo di due anni, la più grande una deliziosa ragazzina di sedici, terrorizzata.
Per tre giorni, fino al quattordici febbraio, restammo tutti in quella grotta oscura, aspettando. I ragazzini iniziarono lentamente a fidarsi di noi, abbandonarono il terrore e si mostrarono alle volte quasi allegri. Infine venne Annibal, vide i sei bambini legati, sorrise e ci pagò molte monete d'oro, quindi ci suggerì di allontanarci in fretta.
I miei compagni, spaventati dall'atmosfera cupa che si era creata, corsero via a cavallo, io li seguii e ci accampammo, in attesa della notte, a diversi chilometri di distanza.
Era quasi l'alba quando presi il cavallo e, incapace di tenere a bada la mia coscienza, tornai da solo e in segreto sui miei passi. Facilmente trovai la caverna in cui avevamo nascosto i prigionieri, davanti c'era segno di alcuni cavalli e passi nella neve, ma non proveniva rumore dall'interno.
Mi introdussi con il cuore in gola dentro la grotta, avvertendo sotto i miei passi qualcosa di viscido e scivoloso, e il silenzio assoluto mi convinse che ero solo. Così accesi una torcia.. I cadaveri straziati dei sei ragazzini giacevano, sparpagliati per terra, con addosso i segni di sevizie e torture inenarrabili. Erano stati tutti e sei decapitati, le loro teste portate via dalla grotta.
Mi inginocchiai a piangere e vomitare e rimasi lì molte ore, fino a quando i miei tre compagni, preoccupati dalla mia sparizione dal campo, non vennero a cercarmi e mi portarono via.
Il viaggio di ritorno verso Greyhaven me lo ricordo per una sola sua caratteristica: il silenzio.
Nessuno ebbe la forza di profferire una sola parola per giorni e giorni, finché non ci fummo liberati della nebbia echeggiante di voci e di lamenti, del gelo di morte che aleggiava su Benson.


IV

Avevo ventidue anni, denaro e tre amici fidati e inseparabili. Avevo donne, svaghi, avventura. Ma dopo l'esperienza agghiacciante di Benson ero fuori di me, come in sogno. Iniziai a rischiare molto, a commettere crimini azzardati per il semplice gusto della sfida, mi introdussi nelle camere delle figlie di uomini importanti per sedurle, per rubare oggetti e tesori, per provare a me stesso che non ero un uomo, ma un'ombra, un fantasma io stesso.
Il mio triste delirio di onnipotenza si concluse con gli arresti, dieci anni in prigione, la morte di Leonard e l'esecuzione sul rogo del mio amico Neal, il mago.
Dieci anni in una galera sono una esperienza in grado di trasformare chiunque. Io ero entrato ragazzo e ne sono uscito vecchio, vecchio Frack.
Un mio amico e compagno di reclusione, Rodolfo Houdini, un giocoliere ladro sempre sorridente e con tanti figli, mi raccontò molte storie, grazie a lui quei lunghi dieci anni non mi condussero alla pazzia, ma ad una superiore saggezza.
Infine potei tornare in libertà, e ricominciare i miei viaggi assieme al povero Archie.
Viaggi, avventure, molte storie avrei ancora da narrare, e forse un giorno integrerò queste mie memorie con il resoconto di tante vicessitudini.
Dopo tre anni di viaggi, ricchi e navigati, raggiungemmo la città di Vintemberg. Qui il mio amico Archie conobbe una donna, Fantine, una sventurata costretta dalla miseria e da un severo padrone a vendersi. Le sue condizioni, come quelle delle altre donne pubbliche della cittadina, erano disastrose. Trattate peggio di animali, derelitte, malate, senza alcuna difesa, le poverette vivevano ammassate in logore baracche, incapaci di difendersi dalle angherie degli uomini che se ne servivano.
L'amore di Archie per Fantine spinse me e il mio amico ad organizzare una squadra di uomini, ben addestrati, in grado di castigare il brutale sfruttatore della donna.
Una azione punitiva violentissima si compì contro le persone che controllavano la prostituzione di Vintemberg, ci fu una rappresaglia, alla quale rispondemmo con brutalità ancora più estrema, tanto da suscitare timore e rispetto in chi combattevamo.
Così, dopo qualche mese che potrei senza esagerazione definire "di guerra", prendemmo il controllo dei bordelli della cittadina. Qui imponemmo regole severe di igiene e di sicurezza, offrimmo alle povere sventurate un riparo, cibo, protezione, le sottraemmo alle grinfie spietate dei loro vecchi sfruttatori.
Così nacque "la Pentolaccia", questo locale così bel organizzato e di cui oggi fado così fiero.
Archie e la sua Fantine si sposarono, infine, e partirono, lasciandomi solo qui a Vintemberg.
Per qualche anno rimasi fermo in città, allontanandomi solo raramente per brevi missioni: la situazione era ancora troppo precaria per lasciare il controllo così faticosamente raggiunto. Mi preoccupavo principalmente di farmi degli amici, ottenere l'appoggio delle guardie civiche, dei nobili, dei poveracci, un po' di tutti. Ho passato anni ad occuparmi soltanto di farmi ben volere. Aiutavo i deboli, riparavo i torti, vendicavo le ingiustizie subite, insomma lentamente divenni giudice e giustiziere di questa piccola città, che sempre più si faceva tranquilla e serena.
La mia passione per le donne mi fece diventare intimo di molte signore, nessuna però tra le ospiti della Pentolaccia, per le quali ero e sono un padre, un benefattore, non un amante.
Durante un viaggio a Garak, all'età di trentasette anni, conobbi una ragazza molto bella, Catherine, che si innamorò follemente di me. Nonostante la sconsigliassi, lei fece di tutto per seguirmi, sedotta dalla mia storia avventurosa e assetata di viaggi e di scoperte.
Così la condussi a Vintenberg, dove lei trovò alloggio alla Pentolaccia. Lei si limitava a servire ai tavoli, era disposta a qualsiasi cosa pur di stare con me.
Intimorito da tanta adorazione, io stesso cercai di allontanarla da me, ma senza riuscirci.
Infine, quando presi finalmente moglie, due anni dopo, la poveretta si disperò.


V

La mia sposa, Cosette, era una ereditiera bella come il sole, pura e innocente. Andammo a vivere nel suo maniero sulla collina fuori Vintenberg, lei conosceva la natura del mio lavoro in città, ma mi voleva bene ed era gentile e di ottime maniere, la madre ideale per i miei figli. Così, mentre la mia vita cittadina continuava alla Pentolaccia, trascorsi anni da vero signore assieme alla mia sposa al maniero.
Nel frattempo la povera Catherine, che invano avevo tentato di rispedire a casa sua a Garak, iniziò a vendersi anche lei come le altre, immediatamente rimase incinta e dette alla luce una bimbetta dai capelli rossi, che chiamò Eleonor. Trovai una dimora alle due infelici, per far crescere la piccola lontano dalla Pentolaccia. Ma Catherine, irremovibile, pretese di continuare a restare lì, forse soltanto per vedermi, ed io glie lo permisi.
Sei anni dopo Cosette dette alla luce mia figlia Estella, il mio piccolo angelo.
La povera Catherine, quando lo seppe, si ammalò e morì in poco tempo, lasciando la bimba alle cure amorevoli delle ragazze della Pentolaccia.
Anche Cosette però non visse a lungo. Già debole di costituzione, fu colpita da una febbre polmonare e mi abbandonò. Così Estella crebbe per gli anni della sua infanzia accanto alle migliori istitutrici del Ducato, isolata nel maniero, come una principessa. Quando ebbe compiuto dieci anni la mandai a Greyhaven a studiare nel miglior collegio, dove sia educata in modo eccellente. Soltanto di rado ho il piacere di visitarla o di ospitarla, lei, immacolata e cristallina, che ignora del tutto quali siano gli affari del suo vecchio padre.
Nel frattempo Vintemberg è diventata una cittadina tranquilla, serena, controllata. Sono pochi i malviventi che osino insediarsi qui, la gente è onesta e rispettabile. In fondo mi sento un benefattore per queste persone, alle quali offro sicurezza e pace.
A farmi ricordare la mia natura di semplice avventuriero arricchito, di furfante, di galeotto, è stata però la piccola Eleonor, la figlia della povera Catherine.
Aveva sedici anni la Rossa quando iniziò a lavorare alla Pentolaccia, nonostante io fossi abbastanza contrario. Per i primi tempi il suo compito consisteva soltanto nel servire ai tavoli, ma dopo un anno o due salì anche al piano di sopra.
Era gentile e ammirata, ma tutto quello che faceva era in realtà finalizzato soltanto a vendicarsi di me per la morte di sua madre, della quale era convinta io fossi il responsabile. Acquistò in segreto molte informazioni sul mio conto, prove del mio passato da galeotto, tracce di operazioni illecite che portavo avanti a Vintenberg. Tentò di farmi arrestare, intrigò per trovare persone disposte ad uccidermi, complottò a lungo contro di me.
Fosse stata chiunque altro la sua sorte sarebbe stata segnata; ma il solo sospetto che la ragazza potesse essere figlia mia mi impedì di agire contro di lei. Così tentai di allontanarla, spargendo la voce che Eleonor fosse malata di sifilide. Fu costretta ad abbandonare la Pentolaccia, ma non smise di tormentarmi.
Poi, stranamente, la ragazza si ammalò davvero, non so dire se di sifilide o di cosa altro. E da allora rifiutò categoricamente ogni mio tentativo di farla curare da bravi dottori, non volle avere alcun contatto con me.


VI

Quel che accadde poi fu che alcuni giovani avventurieri giunsero a Vintenberg e, dopo essersi rivolti a me per un piccolo favore, acquistarono una locanda piuttosto decentrata, il Gallo d'Oro; iniziarono a gestirla assieme a me e ai miei uomini.
Provai subito simpatia per loro, tanto mi ricordavano me e i miei compagni quando eravamo ragazzi, così spensierati ed impulsivi, coraggiosi e spacconi.
Uno tra loro in particolare, il più insolente di tutti, mi colpì: si chiamava Yorik. In un'intera baronia dove ero temuto da tutti, soltanto lui aveva sempre la faccia tosta di dirmi in faccia quel che pensava di me.
Yorik si innamorò di Eleonor la Rossa, e la portò a curarsi dai guaritori di Greyhaven.
Speravo tanto che i due si sposassero, che potessero essere felici insieme... speravo che Eleonor, mia figlia Eleonor, avesse trovato una persona che avrebbe saputo amarla e proteggerla per sempre.
Ma la vita è beffarda e crudele.
Yorik morì durante uno dei suoi viaggi, lasciando Eleonor con il cuore in pezzi, tanto che, dopo qualche mese, la poverina si tolse la vita.
La morte dei due ragazzi ruppe per sempre qualcosa dentro di me. Tutto quel che avevo costruito fino ad allora mi parve improvvisamente vuoto, inutile e insulso. La vecchiaia, che prima credevo possibile rimandare all'infinito, piombò sulle mie spalle con tutto il suo peso, estirpando da me ogni desiderio di vita.
Decisi di raccogliere quel che di importante mi era rimasto, convocai mia figlia Estella da Greyhaven per farla vivere a Vintenberg, nel maniero, con me.
La sua giovinezza, la sua musica e le sue risate cristalline mi offrirono subito un conforto, ma il suo viso, così somigliante a quello di Eleonor, non faceva che ricordarmi i miei imperdonabili errori.
Qualche tempo dopo arrivò a Vintenberg una ragazza che mi si presentò come la sorella di Yorik. Non sapevo che Yorik avesse una sorella, ma osservandola negli occhi subito seppi che non stava mentendo: aveva lo stesso sguardo fiero ed insolente di suo fratello.
Non avrei mai immaginato che la sorella di Yorik fosse una devota del Dio dei Ladri: ella mi chiese di accoglierla, con la sua comunità di fedeli, a Vintenberg, garantendomi che avrebbe utilizzato il ricovero che le mettevo a disposizione unicamente come nascondiglio e che non avrebbe organizzato furti e rapine nella mia Baronia.
Forse già spinto da un senso di fatalità e di inevitabile destino, acconsentii.
Quando fu infine catturata, condannata al rogo, costretta all'abiura e al convento, ella puntò il dito su di me, colpendo alle fondamenta l'intero ordine che in tanti anni avevo faticosamente costruito.
Messi in salvo i miei più fedeli e cari uomini, garantito a mia figlia Estella un futuro sereno, abbandonai infine ogni sotterfugio e lasciai che mi prendessero prigioniero.
Ed è qui, nelle prigioni di Garak, che trascorrerò in solitudine gli ultimi mesi che gli Dei vorranno concedermi.