Io Lukàs Argyropòles scrivo questo diario, per desiderio di Saan il Saltimbanco e Liam il Serpente, nell’anno 503 P.F., ai tempi felici di Constandìnos Dunchas, sotto gli auspici del luminoso Pyros e del grande Maers.
Eravamo fermi al porto di Zarak, nel Ducato di Amer, nei Temi del Nord, con la nostra “Eteobùle”, falcidiati dallo scorbuto e in quarantena. Io, capitano di naviglio deliota, privato di gran parte dell’equipaggio, disperavo del ritorno. Fu allora, in un giorno afoso di prima estate, che giunsero sul ponte dell’”Eteobùle” due fratelli naviganti dall’aria straniera. Saan il Saltimbanco e Liam il Serpente erano i loro nomi. Nati in Ilsanora, tra le fredde brume e gli Spiriti ostili, bianchi come latte, forti come pietra, freddi come ghiaccio, educati tuttavia da un savio Maestro Precettore delle nostre sante terre e non ignari della Lingua, cercavano una nave che ospitasse i loro pochi compagni per un lungo viaggio, avventuroso, fino ai porti secreti dell’Emiro, nell’Oriente più lontano.
Per noi significò salvezza. Al Serpente il comando della nave, al Saltimbanco l’autorità sui miei uomini, a me, educato presso le grandi scuole di Nikòpolis, l’arduo compito di rendere il viaggio immortale, di descrivere i caratteri più che le vicende della corsa all’ignoto dei due eroi di Ilsanora.
Appena guariti salpammo, dopo pochi giorni, da Zarak. e presto rivedemmo Pontostàsis, piccola e amata com’è la prima terra deliota. Qui fummo accolti come si conviene e riposammo nel porto. Corse il Saltimbanco alle bettole e alle taverne e cercava invano un rifugio del piacere. Oh, non è per queste cose l’umile e seriosa Pontostàsis! Fu deciso di ripartire quasi subito, ma accadde allora un fatto degno di nota. Io radunavo i miei uomini, sperduti alla caccia di buon vino deliota, per l’imminente partenza. Restavano sull’”Eteobùle” i naviganti di Ilsanora. Un uomo barbuto, così dissero, e male in arnese, vestito di stracci e non piacente all’aspetto, passeggiava per il molo; si fermava alle barche ormeggiate dei pescatori locali e come benediceva i partenti in lunghe litanie e ondeggiamenti del capo. Ne riceveva in cambio piccole monete di bronzo o offerte di pesci. Si accostò all’”Eteobùle” e, avendo saputo del suo prossimo salpare, si profuse in lunghissimi auspici e più antiche preghiere, spargendo, com’è l’usanza, mirra sul bel demone della prua ed effondendo per il molo l’austero profumo d’incenso. Inconsapevoli di chi fosse quell’uomo ridevano di gusto i fratelli ilsanoriti e lo invitarono all’interno della nave. Qui più volte il santo poveretto fu fatto scivolare sul grasso di balena e, quando alfine chiese il giusto compenso, adeguato ad una nave qual è l’”Eteobùle”, più divertiti che sdegnati, lo rivoltarono come un guanto gli ingenui fratelli ilsanoriti. Estorte le poche monete, posti i pesci sotto il copricapo, lo rotolarono giù per la passerella.
Quando tornai, trafelato per le voci che gridavano empia l’”Eteobùle” e maledetta, più nulla c’era da fare se non fuggire più presto che si poteva, macchiati dall’inconsapevole delitto di aver offeso il santo Predicatore di Maers, che rendeva servizio al molo!
Forse il dio perdonò, non so, l’errore commesso dai non pii naviganti, ma, se tu sei di Ilsanora, non accostarti con animo leggero d’ora innanzi al porto di Pontostàsis e al suo buon religioso!
Istruii da subito, dopo quell’inconveniente, Saan il Saltimbanco e Liam il Serpente sulle precauzioni da prendere nei porti dell’Impero e sul rispetto dovuto ai membri del clero.
A Dyrrachion Saan è stato ospitato in un’affollata locanda del Porto: il suo nome è “L’Approdo del Pirata”. Si impuntò che almeno una notte bisognava dormire lì. Liam, avendoci bevuto per qualche ora, non era molto d’accordo e preferì rimanere sulla nave. Fece bene, perché Saan fu coinvolto in una brutta rissa con gente dalle pessime credenziali e rimase anche ferito vicino alla gola; in compenso riuscì ad uccidere un tale, poi riconosciuto come capo di una banda di manigoldi portuali, tale Gorghias Kondos, un essere dalle dimensioni enormi, ma più forte che intelligente. La mattina seguente, mentre Saan faceva una ristorante colazione a base di costosa birra nanica, ricevette la visita di un personaggio alquanto ambiguo, dalla carnagione scura, dagli occhi verde oliva, dalla barba pizzuta, dai capelli scuri avvolti in una lunga e folta coda di cavallo. Vestiva abiti color porpora e asseriva di chiamarsi Hierax (spiegai poi al Saltimbanco doversi trattare di un soprannome). Saan fece amicizia con quest’uomo, il che ci costrinse a restare nella Capitale del Ducato per parecchi giorni. Il Saltimbanco stava più fuori che dentro la nave e incontrò parecchie altre persone, tutte in qualche modo legate a questo Hierax e tutte (quelle che ho potuto vedere io) dall’aspetto assai poco rassicurante. So solo che abbiamo lasciato Dyrrachion ricchi di un bel bauletto pieno di gioielli femminili di ottima fattura deliota. Ho visto poi che Saan faceva osservare al fratello un nuovo fresco tatuaggio poco sopra la natica sinistra (penso si tratti del simbolo della banda di questo Hierax). Da Liam ho in seguito appreso che il Saltimbanco aveva avuto modo di divertirsi con due ancelle della Sebasta Pulcheria Agorazopùla e soprattutto con la figliola sedicenne di quest’ultima: la piccola Irini. Io non approvo tali cose: compromettere la verginità delle fanciulle destinate al matrimonio è peccato grave agli occhi della Veneranda Kayah e del Giusto Pyros. Confido che la diversa fede dell’Ilsanorita e la fortuna che l’accompagna lo salvi dalla vendetta divina e dall’ira del Sebasto Thoma Agorazòpulos!
Saan era molto esaltato per le avventure di Dyrrachion ed avevo paura che potesse commettere qualche sciocchezza. Cosa che puntualmente avvenne. Approssimandoci al piccolo porto di Apollonìa, il Saltimbanco convinse il Serpente ad aggredire qualche grossa barca da pesca in baie isolate. L’”Eteobùle” si trasformava lentamente in nave piratesca, Liam si divertiva come un fanciullo e sembrava aver risvegliato la sua natura più profonda, per non parlare dei marinai ilsanoriti. Devo ammettere con rammarico che anche molti dei miei uomini ci presero gusto. Pochi ci abbandonarono sdegnati, una volta approdati ad Apollonìa. Io rimasi perché un capitano non abbandona la sua nave e di quella nave il vecchio capitano ero io.
Quando stazionavamo alla fonda nel porto di Apollonìa eravamo già abbastanza carichi di delitti marini e il buon Saltimbanco ebbe la buona idea a questo punto di insidiare la virtù della piacente moglie di un ricco mercante della città. Lui mi riferì che lei era assai consenziente. Ma come che fu, la cosa si venne a sapere. I pescatori e i mercanti di Apollonìa fecero presto ad associare l’odioso e immondo adultero ilsanorita agli spietati corsari che tanti danni avevano arrecato; e questa volta ebbero ragione. Saan sfuggì per miracolo al linciaggio, tre dei suoi marinai furono pestati a sangue fino alla morte, Liam ferito gravemente, mentre sorseggiava vino resinoso in una taverna.
In un modo o nell’altro ce la cavammo, ma il Saltimbanco meditava vendetta e voleva affondare una nave da carico di questo mercante. Cercai di dissuaderlo: eravamo vicini, troppo vicini all’isola di Rhodos, dove risiede il grande Drungàrios. Non ci fu niente da fare. Mentre ci affannavamo e con insperato successo su un grosso bastimento, ecco appaiono all’orizzonte sette dromoni con i superbi stendardi del Melixénos. Fu miglior partito la fuga. Non so come riuscimmo. Fu credo grazie al Serpente. Egli, preso il timone e comandando le vele ai soffi più impercettibili del vento, rese veloce l’”Eteobùle” come le ali di Ilmatar quando spira fiera dagli Allistòni.
Navigammo a lungo in mare aperto fin quando, meraviglia dei viventi, come distesa su un piatto arcipelago, apparve sul delta dell’Axìnaros, la Città. La cupola d’oro del Massimo Tempio della Luce, riflettendo i raggi del Sole in mille barbagli, pareva colloquiare ininterrottamente col dio. Anche i fratelli ilsanoriti rimasero stupefatti. Brillavano loro gli occhi, mentre placida l’”Eteobùle” scendeva ai noti approdi.
Restammo un mese nella Capitale. Qui ho perso tutti i miei marinai, ognuno disperso per altre occupazioni. Colui che ha più approfittato degli immensi misteri della Capitale è stato Liam, che per trenta giorni è praticamente scomparso. Tutta l’anima del Saltimbanco è stata invece catturata da un unico grande mistero.
Prese subito a frequentare i quartieri della Repubblica come i più divertenti e liberi. Qui conobbe un simpatico mercante elfo, originario di Lankbow, tale Elediel. Fu lui per primo, di fronte ad un boccale di sidro d’importazione, a parlargli della Sultana.
Forse più che una prostituta, un mito della Capitale dell’Impero. Prigioniera di guerra dalle infedeli terre di Abbùl, ridotta a vendere sé stessa nei bordelli dei Temi orientali, giunse anni fa a Delos, già ricoperta di maculata fama. Una bellezza esotica e fuori dal comune, un’arte peccaminosa, la resero signora delle donne di malaffare. Solo i maggiorenti della Corte possono permettersi le sue grazie, se una notte con lei vale cinquanta scudi imperiali. E non è questo l’unico prezzo da pagare, perché si dice che l’amplesso con lei, l’Infedele, la Rinnegata, non possa essere redento e costi l’eternità dell’Inferno di Ghiaccio.
Queste storie eccitarono la fantasia di Saan e lo spinsero alla sfida. Non gli fu difficile procurarsi gli scudi imperiali, più complesso ottenere invece l’abboccamento. Elediel infatti si tirò indietro. Sapeva, ma non voleva avere a che fare con la gente che c’era dietro il giro della Sultana. Dopo un lungo tira e molla, Saan se ne andò con un misterioso recapito, ma Elediel gli disse che non voleva avere più a che fare con questa storia né con lui. Il Saltimbanco mi fece vedere il biglietto che gli aveva dato Elediel e anche io lo sconsigliai di avventurarsi in quei quartieri e di chiedere di quell’uomo. Saan però fu irremovibile.
Ispirò simpatia alla “Volpe della Suburra”, un tipo viscido, così me lo descrisse, grasso, unto e dai profumi forti, acri e avvolgenti, pieno di ori pendenti e pacchiani, che riceveva i suoi contatti nel sottoscala di una dubbia locanda nei quartieri portuali.
La notte successiva era nel letto della Sultana. Non mi volle mai dire dove avvenne quell’incontro, ma me lo figurò come un luogo lussuoso e adorno. Mi parlò di lei, della sua bellezza mora, della sua ansia di libertà, dei pregiudizi della gente, della sua vita di sfruttata, nonostante la ricchezza che la circondava. Capii che si era innamorato, era un altro Saltimbanco, non quello che conoscevo. Fui contento ma ebbi anche paura. Non aveva l’aspetto di uno di quegli amori che potevano finir bene.
Mi disse il suo vero nome.
Si chiamava Bashmet.
Voleva liberarla, lei era pur sempre rimasta una schiava. Voleva riportarla ad Abbùl o a Zedghast, dove c’era la religione dei Profeti. Mi sembrò perduto.
Vendette tutti i gioielli ottenuti a Dyrrachion, rubava a destra e a manca, credo anche che nel delirio abbia ucciso. Guadagnava così gli scudi che gli consentivano le visioni, gli amplessi.
Cercai in lungo e in largo il Serpente per la Città confusa e non ne ero inesperto. Ma non mi riuscì. Come scomparso l’uno, così sconvolto l’altro.
Lei era bellissima e danzava come danzano gli Spiriti del mare in gara coi gabbiani; così mi ripeteva.
Un giorno, una notte, non riuscì a procurarsi il denaro, andò lo stesso, forse pretese qualcosa. Fu battuto a sangue, ritrovato il giorno dopo quasi morto presso i canali del porto. Io la stessa notte prevenni un incendio sull’”Eteobùle”. Per fortuna il giorno dopo tornò il Serpente, vide le condizioni del fratello ed era molto preoccupato. Saan non aveva coscienza, balbettava frasi senza senso. La sera successiva salì sulla nave un uomo incappucciato. Parlò a lungo con il Serpente. Al mattino si decise di partire.
Il Saltimbanco piano piano si riprese, si confidò con Liam e si spiegarono. Egli stesso valutò la fuga precipitosa essere stata la scelta migliore e più saggia. Forse riconsiderò la sua storia d’amore. Non so. Ebbe per lungo tempo però uno sguardo vago come rapito e malinconico, quale non era da lui.
Navigammo verso Est e Liam e Saan si accorsero che il mare era più sgombro di navi: i mercantili procedevano solitari, i dromoni erano come scomparsi. La vicinanza di Abbùl e dei mari di Zedghast stringe le flotte deliote alla costa, l’”Eteobùle” correva invece in alto mare. Risorse l’idea della pirateria. E per Saan fu un vero toccasana.
Attaccammo un grosso bastimento deliota, proveniente dai porti dell’Emiro. Si fermarono, ci fecero salire, ci diedero tutto senza colpo ferire. Il comandante era Nikòbulos Pantaléon, un uomo bassino, di mezz’età, dallo sguardo sveglissimo e dalla barba rada e forcuta. Non lo conoscevo. Caricammo quantità ingenti di profumi, incensi e di una sostanza che attirò grandemente l’interesse degli Ilsanoriti: pregiatissimo henné di Zedghast.
Non affondammo il bastimento, per ricompensare la disponibilità di Nikòbulos Pantaléon.
Dopo un giorno e mezzo di navigazione però ci accadde un fatto singolare: ci ritrovammo inseguiti da quattro navi veloci senza bandiera. In breve fummo raggiunti e capimmo: corsari abbulìti molto più numerosi e meglio armati di noi. Questa volta fummo noi a consegnare il carico senza tanti complimenti. Presero tutto e se ne andarono, veloci e silenziosi com’erano arrivati. Il Saltimbanco non la prese molto bene, tuttavia accettò il fatto, passato ormai dalla malinconia ad un cinismo e ad un fatalismo più accentuati di quelli a lui soliti; il Serpente pronunciò invece parole di ammirazione per l’abilità dei pirati di Abbùl.
L’ironia della sorte fu che, quando approdammo nella sacra città di Thessalonìki con il suo immenso Tempio di Maers, prospiciente sul mare dall’alto di un costone di roccia, la prima persona che incontrammo in una locanda del Porto fu proprio Nikòbulos Pantaléon, tutto allegro e ridente, che ci offriva da bere. Capimmo che i corsari abbulìti gli avevano fatto riavere tutto il maltolto. Ci spiegò che a Delos non ci si può improvvisare pirati, anche se si è bravi e arditi; ci sono tradizioni e accordi secolari e, anche nella pirateria, non si può andare contro le tradizioni. Venimmo a sapere poco dopo, avendo Saan fatto indagini, che era uno dei tanti mercanti al servizio del potentissimo Manuìl Menehir di Dyrrachion, Signore dell’henné.
A Thessalonìki le strade mie e dei fratelli Ilsanoriti si divisero. Mi lasciarono l’”Eteobùle”, pur se priva di marinai, in nome della nostra amicizia. Ne avrei trovati di altri. Loro, grazie anche all’interessamento del buon Nikòbulos, partivano su un’altra nave, piuttosto male in arnese, ma rimessa a nuovi dai marinai ilsanoriti, per i porti di Zedghast. Il mio dono d’amicizia è questo diario di brevi note, che conservi nella loro memoria il ricordo del bel viaggio e della mia persona.