OBBEDIENTI CIOE' LIBERI

Intervento del presidente della Tenda, dott. Paolo Ferretti

Anzitutto, un saluto di benvenuto a nome di tutti i membri dell’associazione ‘La Tenda’, nonché dell’associazione Genitori ‘Luigi e Zelia Martin’, che ha collaborato a questa iniziativa.

Poi, un ringraziamento alla Circoscrizione Est, che ha patrocinato questa giornata, e al Centro Culturale di via del Melo che ha gentilmente messo a disposizione questa sala.

Prima di cedere la parola alla dott.ssa Nunziati, che vi illustrerà come si è giunti, cioè quali sono state le tappe che hanno preceduto questo momento, voglio soffermarmi, seppur in breve, sul titolo che abbiamo dato all’incontro di oggi, titolo che ci permette di riassumere, e quindi di comunicare a chi non ne fosse a conoscenza, l’idea che è stata alla base dell’iniziativa e che poi è anche alla base anche delle altre attività dell’associazione ‘La Tenda’.

‘Obbedienti cioè liberi’, recita il titolo. Si tratta di una affermazione che forse può suscitare ad una prima lettura o ad un primo ascolto un certo imbarazzo. Viene spontaneo chiedersi come sia possibile obbedire ed essere al contempo liberi. La prima espressione – obbedire – ci richiama ad esempio concetti antichi, lo schiavo che obbedisce al padrone oppure il soldato che obbedisce al superiore in grado oppure, senza andare lontano dalla nostra esperienza, la situazione del figlio che obbedisce ai genitori. E certamente questi soggetti, lo schiavo il soldato il ragazzo, da questo punto di vista, non possono dirsi ‘liberi’, in quanto fanno, eseguono, ciò che viene loro ordinato da una persona diversa dalla loro.

Dunque, dovremmo dire obbedienti ma non liberi. Noi, invece, abbiamo voluto intitolare l’incontro di oggi, anche in modo un po’ provocatorio, ‘obbedienti cioè liberi’.

E allora in che senso dobbiamo intendere questa frase?

Per comprenderla pienamente è opportuno partire da un esempio che in sé può apparire molto banale, ma dal quale è necessario prendere le mosse, perché ci aiuta a capire, a comprendere il significato del titolo: riguarda il confronto tra il seme di un albero, ad esempio una quercia, e l’uomo, al fine di scorgere differenze e identità. Se noi prendiamo il seme di una quercia, lo sotterriamo, lo annaffiamo con regolarità, rispettiamo tutte le condizioni climatiche necessarie, cosa accade: accade che il seme, prima o poi, diventa una quercia. Quel seme diventerà necessariamente una quercia. Ho usato necessariamente, perché il mondo della natura animale e vegetale si esprime in termini di necessità.

L’uomo, al contrario, ed è questa la differenza, è un essere dotato di libertà, cioè è un essere capace di scegliere, di decidere autonomamente le sue azioni; non è un essere necessitato, ma libero. Ciò vuol dire che l’uomo, a differenza del seme, può decidere se diventare ‘uomo’ oppure no. Ed è questa la sua grandezza, che Dante riconosce quando dice che il più grande dono che Dio ha fatto all’uomo è la libertà, "di che le creature intelligenti, e tutte e sole – dice Dante – fuoro e son dotate" ("Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontate più conformato, e quel ch’ei più apprezza, fu de la volontà la libertate; di che le creature intelligenti, e tutte e sole, fuoro e son dotate").

Ma questa differenza non ci deve fare dimenticare che il seme e l’uomo hanno un elemento che li accomuna. Quale è questo elemento? L’elemento in comune si chiama natura. Mi spiego meglio. Se noi piantiamo il seme di quercia, questo prima o poi diventerà una quercia, ma diventerà una quercia e non un altro albero. E questo accade perché nella natura di quel seme si trova scritto cosa quel seme diventerà.

Ora anche l’uomo ha una natura, una natura data. Data, cioè che non è lui a darsi, ma che gli è data. Una natura che è poi oggettiva, cioè uguale in tutti gli uomini, e immutabile, cioè una natura che non muta in base ai tempi e alle circostanze storiche. Una natura che la ragione umana può scoprire e secondo la quale l’uomo deve dirigere la sua volontà se vuole realizzarsi come persona, cioè se vuole essere felice. In altri termini, l’uomo, come il resto del creato, è anch’esso dotato di una natura, in cui è impresso in modo indelebile il suo fine, il suo scopo, ciò che deve fare per realizzarsi, per essere felice.

Ecco i due poli che dobbiamo sempre avere presenti: natura e libertà. Natura e libertà ‘armonicamente collegate tra loro e intimamente alleate l’una con l’altra’ (Veritatis splendor, 50).

La libertà quindi non è arbitrio assoluto, ma è una dimensione dell’essere, della natura: la libertà dipende dall’essere. E per questo possiamo dire libero, nel senso più profondo del termine, soltanto l’uomo che obbedisce alla sua natura. Da qui, come si intuisce, il titolo di oggi ‘Obbedienti cioè liberi’.

Tuttavia, oggi questo binomio inscindibile è stato rotto, è stato rinnegato, a causa di un processo dalle lontane radici. Eliminato il primo termine – la natura – il secondo – la libertà – si è dilatato a dismisura, ergendo l’uomo a Dio, determinando il suo passaggio da creatura a creatore: si è arrivati all’affermazione, falsa e contraria al vero, che non esiste una natura data e oggettiva, è l’uomo stesso che la crea, è l’uomo stesso che decide il suo scopo, è l’uomo stesso che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male. L’uomo è diventato "criterio e norma a se stesso" (J. Ratzinger, Verdad, Valores, Poder, Madrid 1995, 88).

Ma il rinnegamento del binomio natura-libertà, anziché rendere l’uomo più uomo, essendo un rinnegamento falso e contrario al vero, ha reso l’uomo schiavo e le nuove generazioni stanno pagando a caro prezzo questo dissennato pensiero. Basta leggere gli elaborati che ci sono pervenuti, nella maggioranza dei quali non troviamo descritte situazioni positive o di apertura, al contrario situazioni di tristezza, di angoscia, di disorientamento, di confusione, fino ad arrivare a situazioni in cui anche la speranza ha cessato di esistere.

Descrive molto bene questa situazione una parabola che figura nel vangelo di Luca e che voi tutti conoscete, la parabola del figliol prodigo:

Luca 15,12: "Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. [13] Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.

partì per un paese lontano = è il rinnegamento, il non riconoscere e il non voler seguire la propria natura

e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto = è l’uomo che crea una propria natura, che decide cosa lo renderà felice. I Padri della Chiesa commentando questo testo, così spiegano cosa significa vivere da dissoluto: ebrietà, lussuria, fornicazione, golosità e tutti gli altri vizi.

Luca 15,14: "Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. [15] Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. [16] Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava".

Ecco a cosa conduce non riconoscere la propria natura: alla schiavitù: si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.

Luca 15,17: "Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! [18] Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; [19] non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. [20] Partì e si incamminò verso suo padre".

Partì e si incamminò verso suo padre. Ecco il consiglio per noi oggi: sapere che non è mai troppo tardi per tornare sui nostri passi, per riscoprire ciò per cui naturalmente siamo fatti, e che la speranza, come insegna Peguy, è sì la virtù più difficile, ma è anche la più gradita a Dio: è sì "una bambina da nulla, ma è lei sola che, portando le altre, traverserà i mondi".


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