SCUOLA MEDIA STATALE

"GIOVANNI XXIII"

PIETRAMELARA

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Ebrei, la prima strage da parte delle SS

sul Lago Maggiore

(15-23 settembre 1943)

Pochi giorni dopo l'8 settembre del 1943, chi si trovava a navigare sulla sponda piemontese del Lago Maggiore si imbatté in uno spettacolo agghiacciante. Alla superficie dello specchio d'acqua, in un paesaggio incantevole, affioravano dei cadaveri sfigurati. Erano alcuni dei 54 ebrei che tra il 15 e il 23 settembre (un episodio avvenne, però, ancora in ottobre) vennero trucidati dalle SS nella zona del Verbano: Stresa, Baveno, Meina, Arona, la toponomastica dell'orrore. Esecuzioni sommarie e selvagge, spesso un colpo a bruciapelo alla nuca. Fu la prima strage di ebrei perpetrata sul nostro territorio. Per questo, su iniziativa della Comunità di Sant'Egidio, è uscito nel settembre del 2003 un volumetto La strage dimenticata (Interlinea, pagine 86, euro 10) con interventi del rabbino capo di Milano, Giuseppe Laras, degli storici Claudia De Benedetti e Mauro Begozzi, e con la testimonianza di una sopravvissuta all'eccidio, Becky Behar, di origine spagnola e con passaporto turco, all'epoca dodicenne, di cui viene pubblicato anche il diario tenuto in quei giorni di sangue.  La vicenda era stata ricostruita dal libro del giornalista Marco Nozza, Hotel Meina (Mondadori, 1993) - che prende il titolo dalla vicenda di 16 ebrei, tra le quali alcuni ragazzi di Salonicco, furono tenuti in ostaggio per una settimana in un albergo prima di essere giustiziati -, che però è oggi introvabile. La famiglia di Becky si costituì parte civile al processo su quei fatti celebrato a Osnabrück, in Germania, nel 1968. E la ragazza riconobbe uno dei tedeschi coinvolti. Cinque appartenenti alla divisione delle Ss Leibstandarte Adolf Hitler finirono sul banco degli imputati. Tre di loro ebbero l'ergastolo, due furono condannati a tre anni. Ma, come spesso è avvenuto in questi casi, nel 1970 una sentenza della Corte suprema di Berlino cancellò tutto, perché i reati erano da considerare prescritti. Non si arrivò ai mandanti (nell'introduzione Roberto Morozzo della Rocca indica come possibile luogo di partenza dell'ordine l'Ufficio della Gestapo di Milano) di un'operazione che, a differenza della contemporanea strage di Boves (19 settembre 1943), non venne condotta per intimidire la popolazione. E che, contrariamente alla razzia nel ghetto di Roma del 16 ottobre, appariva poco pianificata e piuttosto frutto di uno stile selvaggio che quel battaglione di Ss aveva già condotto sull'incontrollato fronte orientale, dove le famigerate Einsatztruppen compivano eccidi indiscriminati, ora esportati nell'Italia del post-armistizio. Una sfrontatezza che però non poteva arrivare al punto di fare le cose alla luce del sole: gli omicidi infatti avvenivano di notte in riva al lago o in macchie boscose. E quando i cadaveri riaffioravano venivano colpiti con le baionette e ricacciati in acqua perché affondassero una volta per tutte. Vennero redatte anche false lettere di addio degli «scomparsi» e venne fatta girare la voce che avevano donato i loro beni ai bisognosi. Un elemento che può aver scatenato la follia omicida erano, infatti, le ricchezze degli ebrei residenti in riva al lago. Ma certo il destino dei nostri connazionali era preparato dal 1938. Perché, scrive sempre Morozzo della Rocca, se è vero che gli italiani furono solerti nell'aiutare gli ebrei, le leggi razziali avevano preparato il terreno per l'indifferenza di alcuni. E per l'agire violento dei tedeschi (nei vari registri in cui gli israeliti erano schedati, le Ss trovarono nomi e indirizzi utili alla carneficina). Giocava anche il fatto che l'ebraismo italiano era, nota ancora Morozzo della Rocca, «sprovvisto di quei sensori di persecuzione che aveva invece l'ebraismo dell'Europa centrale e orientale, che conosceva l'antisemitismo sanguinario dei pogrom». Ironia della sorte dopo la guerra molti di quei tedeschi, che avevano deciso della vita e della morte di uomini donne e bambini, tornarono in quei suggestivi luoghi da turisti. Senza vergogna e rimorso. Forse aiutati dall'oblio di quelle vicende. Ma c'è chi non ha dimenticato: «I giorni di Meina hanno segnato nella mia vita - scrive la testimone Becky Behar - un trauma perenne: non sono più stata la stessa, perché non è il fatto di essere sopravvissuto che ti può dare pace». Per questo occorre ricordare. Perché, scrive Luzzatto, «questo delirio crudele, frutto di un'ideologia deviata, non deve mai più affermarsi». Perciò ricordare l'eccidio di Meina non è «un'operazione di autocommiserazione», ma «un investimento sul futuro».

(di Gianni Santamaria, l'Avvenire, 16 settembre 2003)