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LA LUCE
DEL DESERTO
di
Ranieri Meloni
E' una
giornata qualsiasi e quando spengo la luce vedo la luce
del deserto. Ma non è sempre stato così.
Prima, quando spegnevo la luce la stanza rimanevo buia.
Ricordo
quando mi fidanzai con Wilbur e il tremore che mi
attanagliò le mani quando lui, tra gli applausi dei
parenti, mi infilò nell'anulare il suo pomposo anello di
fidanzamento. Dio mio, pensai guardando il suo viso,
questo uomo quando firma un atto di acquisto di un
cavallo per la sua scuderia deve avere la stessa
espressione soddisfatta in volto ...
Tremavo. E' l'emozione, dissi scusandomi con un sorriso.
E' emozionata piccola cara, disse mia madre a voce alta e
tutti nel ristorante annuirono.
Già emozionata.
Ma quando fu la prima volta in cui mi emozionai
veramente? Quando incontrai Wilbur e accettai di amarlo?
Quando diventati donna? Il giorno della laurea?
O fu invece nel mio primo viaggio come archeologa,
durante quel primo viaggio lontano dalle nebbie di Londra
e dalle parole importanti dei miei colleghi di
università?
Si, fu nell' istante in cui il motore dell'aereo, con un
piccolo sussulto si fermò, quando l'elica si mise a
bandiera, e precipitammo, lentamente ma inesorabilmente
verso il deserto egiziano.
Si, fu proprio quando quel motore si fermò. Fu allora e
nel breve periodo che ne seguì.
- Siamo
alla fine del mondo... - ricordo che disse il pilota
sudando e armeggiando con gli alettoni e la radio di
emergenza poco prima dello schianto.
Poi, la sabbia sottile e calda.
Capii subito di essere rimasta sola. Nel rosso cielo del
tramonto una piccola nuvola bianca volava via, quasi che
fosse viva e desiderosa di non sporcarsi con il fumo nero
che si alzava dal relitto del mio aereo. Lui bruciava
lì, ed io sbalzata via dal suo ventre, ero di là con il
mio corpo rotto e miei occhi curiosi ancora vigili.
- Sono alla fine del mondo... pensai poco prima di
svenire.
Ricordo
bene alcune cose, altre si sono perse nella sofferenza
del mio corpo ferito. Per esempio i sobbalzi del cammello
dove ero distesa, quelli sì me li ricordo bene. Anche
perchè, con una analogia mentale assai curiosa, quei
sobbalzi, mi ricordarono quando giocavo a tennis al
college. Il ritmo, del resto ero lo stesso: colpisci la
palla, una pausa, ribatti la palla, una pausa, colpisci
la palla, una pausa.....
Qualcuno
mi aveva raccolto, qualcuno mi aveva parlato, qualcuno
aveva deciso di salvarmi, qualcuno chi?
Se solo potessi allungare una mano, potrei prendere una
bottiglia e bere un po' di acqua, pensavo e una mano, ma
non la mia, si allungava e mi dissetava.
Se solo potessi parlare, intonerei la canzone che mio
padre mi cantava quando stavo male e si chinava accanto a
me per asciugarmi la fronte, e allora un uomo vicino a me
cantava, dolcemente e profondamente.
Ma non era mio padre.
Chi era?
Qualcuno.
Deliravo, questo lo capivo. Cioè lo capivo quando non
deliravo. In quei momenti di lucidità capivo altre cose:
ero ferita, ero ferita così profondamente che non potevo
muovermi e che avrei avuto bisogno di cure mediche
specialistiche, di una linda camera di un ospedale
inglese, di lastre ed iniezioni.
Invece ero dentro una tenda sdrucita, e diciamolo
chiaramente, anche puzzolente. Il mio giaciglio era un
tappeto di ruvida lana di pecora, ed avevo il corpo
immobilizzato da stecche di legno e rozze bende che una
volta erano state bianche. E, assurdo, assurdo...Dio mio,
ero felice...
Lui veniva ad accudirmi ogni giorno, anche se ad orari
sempre diversi. Ma non ero mai sola: durante tutta la
giornata accanto a me stava seduta una giovane donna che
mi sorrideva con una bocca quasi priva di denti e che mi
parlava con un idioma che non comprendevo. Era vestita in
maniera dignitosa, ma quello che più mi colpì fin
dall'inizio, fu il numero spropositato di anelli e
braccialetti che le ornavano le braccia e le caviglie. Le
conferivano un' aria così femminile che io non avevo mai
avuto, e che neanche oggi riesco a manifestare.
Le giornate erano lunghe e brevi contemporaneamente.
Tenevo gli occhi chiusi quasi tutto il tempo e li aprivo
solo quando sentivo un particolare tintinnare dei
braccialetti della donna. Avevo imparato a riconoscere
quei suoni che denunciavano alle mie orecchie tutti i
suoi movimenti: sapevo se si stava semplicemente alzando
per prendere qualcosa nella tenda o se invece si stava
alzando per scostare il velo dell' entrata della tenda
per far entrare il suo uomo, quel qualcuno che mi aveva
salvata dall'aereo in fiamme. In quel caso il tintinnio
dei braccialetti era diverso: tradiva gesti veloci ed
eccitati, denunciava la sua emozione di quell' incontro.
Emozione... eccola di nuovo ....
Allora aprivo gli occhi, e mentre il cuore pulsava il
salgue alla testa via veloce, giravo lo sguardo verso l'
entrata. Dopo alcuni giorni mi ero resa conto che
aspettavo con ansia di ascoltare quel tintinnio
particolare.
Perchè emozionava anche me.
Finii per conoscere a memoria i movimenti della ragazza
in quel frangente. Si alzava e velocemente spegneva tutte
le candele e il buio piombava nella tenda. Ma poi si
scostava il velo e assieme a lui, entrava accecante ed
avvolgente la luce del deserto, e la tenda si illuminava
in un attimo. In quell'istante dimenticavo di respirare.
Mi chiesi a lungo il motivo del comportamento della
ragazza: perchè spegneva le candele, perchè voleva il
buio dentro la tenda. Poi capii, o forse credetti di
capire, la ragione di quello strano comportamento:
ragazza era gelosa di me. Voleva il buio per cacciarmi
nella penombra affinchè il suo uomo potesse soltanto
vedere un corpo avvolto di bende priva di pericolose
forme femminili. Ma quando lui entrava la stanza si
illuminava. Già, la luce del deserto....
Non so
per quanto tempo rimasi con loro aspettando il tintinnio
dei braccialetti. No a dire la verità, ora lo so, me lo
hanno detto: circa tre mesi. Quando oramai gran parte
delle bende erano state tolte, e con fatica riuscivo ad
accarezzare la mano di lui, con un gran rumore di motori,
stridore di freni, abbaiare di cani e ragliare
infastidito di cammelli, arrivò Wilbur.
- Sono arrivato, Lara cara... - mi disse Wilbur
teneramente. Poi senza tentare minimamente di dissimulare
i suoi sentimenti, si dichiarò inorridito di tutto ciò
che mi circondava e dopo aver insultato tutti mi porto
via, lontano di lì, dentro una bella clinica di
Edimburgo. Quella di sua proprietà.
I
dottori erano molto gentili con me, e scuotevano
sconsolatamente il capo quando ascoltavano il racconto di
Wilbur su come quei beduini mi avevano curato, e di come
lui fosse arrivato appena in tempo a salvarmi. Oh mio
eroe...
Passai alcuni mesi in quella clinica ed ora avevo una
infermiera personale che mi accudiva in tutto. La mia
giornata era scandita con precisione dalle pillole che
lei mi dava e dalle sue solite frasi di circostanza che
precedevano o seguivano la somministrazione delle
medicine: come si sente oggi, oh ma che bella cera
abbiamo, vedrà presto guarirà e anche se non potrà
più scavare le sua antiche tombe, non si angusti
signorina Lara, perchè potrà sempre insegnare...
La odiavo, naturalmente. Detestavo la sua linda uniforme,
la sua cuffietta inamidata, le sua braccia nude e prive
di braccialetti. Aveva ragione per alcune cose e torto
per altre, come sempre del resto. Il mio corpo guarì, ma
la mia mente era cambiata. Wilbur, con le sue amicizie,
mi trovò una cattedra di Storia Antica presso un piccolo
college. E' per iniziare, mi disse, è per farti le ossa
nella carriera dell'insegnamento. No, non puoi andare in
giro per il mondo a cercare tesori scomparsi, mi ripeteva
sempre, e poi, il posto di una donna è vicino a suo
marito, non certo dentro la piramide di Cheope... Non si
poteva avere tutto dalla vita e anzi ero stata fortunata
che lui, con la forza del suo grande amore mi aveva
trovata nel deserto e salvata da quei barbari.
Già dai barbari beduini...
Peccato che però, ogni sera, dopo avermi dato il bacio
della buona notte sulla fronte e con un gesto meccanico
spegneva la luce, la stanza rimaneva buia per tutta la
notte.
Fu per
questo che me ne andai e sono diventata quella che sono.
E ora, che sono libera, ovunque sia, in albergo o sotto
una tenda, in India o a Parigi, nelle mie notti, vi è
sempre la luce del deserto.
FINE
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