[il manifesto] [Image] 04 Agosto 1998 ---------------------------------------------------------------------------- [Articolo Precedente] [Prima Pagina] [Articolo Successivo] ---------------------------------------------------------------------------- EX JUGOSLAVIA LA GUERRA IN KOSOVO Viaggio tra gli irriducibili dell'"Isola serba" La minoranza serba nel Kosovo diffida dei giornalisti occidentali, i "nemici" "Siamo noi le vittime. Ma gli albanesi non governeranno mai" - NIKOLA ZIVKOVIC * - PRISTINA F ino a Pristina chiunque può arrivare senza difficoltà. Da Belgrado ci sono dieci corse di autobus al giorno, il bigliettto costa 10 marchi tedeschi e il viaggio dura circa 6 ore. Nel caso in cui si desiderasse proseguire oltre Pristina, tuttavia, le cose diventano parecchio più complicate. Quasi tutti i giornalisti stranieri abitano nell'albergo "Grand" - ci si può giocare anche a biliardo, se se ne ha voglia. Tutto appare tranquillo. Difficile immaginarsi che, soltanto alcuni chilometri più in là, sia in corso una guerra, si spari e si muoia. Un gruppo di giornalisti, penso che siano americani, tenta di ottenere un'intervista anche dai "serbi del Kosovo". Non è un compito per niente semplice. Per le vie di Pristina, ogni albanese è pronto a dare informazioni esaurienti sulla situazione nel Kosovo. Ciò non sorprende affatto. Gli albanesi vedono nei corrispondenti occidentali degli alleati, amici per partito preso; ma con i serbi è chiaramente un'altra storia. L'interprete Snjezhana - dal centro dei media di Pristina - è scoraggiata: "Mi dispiace, non posso fare opera di mediazione. I serbi non hanno fiducia nei corrispondenti occidentali. Qualche mese fa, due o tre famiglie serbe si sono rese disponibili per i colloquio con alcuni giornalisti stranieri, dopodiché si sono pentiti. La trasmissione ha distorto le loro deposizioni in modo tale da renderle irriconoscibili". Questo, i giornalisti occidentali non lo capiscono nel modo più assoluto. Di fronte alle difficoltà, qualcuno pensa che "forse i serbi hanno paura di parlare con noi". Qualcuno, però, alla fine parla: quello che segue è il resoconto del loro punto di vista sul conflitto. Durante il viaggio attraverso "l'isola serba", il territorio dove si concentra la maggior parte della popolazione serba della regione, nelle vicinanze di Pristina, ci fa da guida Momcilo Trajkovic. "Alla nostra sinistra si può vedere il più grande villaggio serbo - Gracanica. Qui è situato il più antico monastero serbo. Il monastero di Gracanica ha oltre 600 anni: gli albanesi non hanno un loro monumento paragonabile. A Pristina e a Prizren ci sono soltanto i monumento lasciati dai turchi. Tutta la regione tra Gracanica e l'aeroporto di Pristina, un'area di 400 chilometri quadrati, è stata da sempre abitata dai serbi". E' tempo d'estate. Qui cresce di tutto: mele, girasoli, grano. "Quest'anno il raccolto sarà abbondante", dice Trajkovic. Nel villaggio di Slovinje, abitato per il 90% da albanesi e il 10% da serbi, il clima è di estremo allarme. "Se Belgrado e Slobodan Milosevic ci piantano in asso, come sono stati piantati in asso i serbi della Krajina, allora, in risposta alla proclamazione dell'indipendenza degli albanesi del Kosovo noi proclameremo la 'Repubblica Serba del Kosovo': che comprenderà tutti i luoghi dove noi serbi siamo in maggioranza. Le strade che abbiamo davanti sono soltanto due: o essere scacciati dagli albanesi o restare. In breve, dobbiamo fissare i nostri scopi, in modo chiaro, proprio come lo hanno precisato gli albanesi. Noi non vogliamo che Belgrado decida senza di noi il nostro destino. Non dobbiamo chiuderci nel silenzio. Noi, serbi del Kosovo, dobbiamo far capire, in modo chiaro e preciso a Milosevic che, non simo d'accordo con la sua politica". Trajkovic, che ha pronunciato ad alta voce queste parole davanti a parecchia gente radunata, ha tenuto in pratica un comizio, un discorso acceso e ardente, come un vero capovillaggio. Ho l'impressione che i contadini presenti al raduno credano in lui. In fondo, Trajkovic non abita nella lontana Belgrado, bensì insieme a loro, nel villaggio vicino. "Di notte bisogna fare la guardia" - continua Trajkovic. In questo villaggio ci sono 50 case serbe e 500 case albanesi. Finora è stato tutto tranquillo. Ma la questione è: quanto durerà? Per ora ci siamo tutelati, ma non sufficientemente, in caso di estrema emergenza. Forse potremmo resistere fino all'arrivo della polizia serba". E se non arriva? chiedo, ben sapendo che questi contadini si sono posti la stessa questione molte volte. La sua risposta è molto chiara: "In tal caso non ci sarà più un solo serbo a Slovinje". Poi, dopo una breve pausa, s'è allontanato dicendo "Dite ai vostri lettori che siamo noi serbi del Kosovo ad essere minacciati, e non gli albanesi. Qui noi siamo una minoranza che vive nella paura. Da come ho saputo, in occidente si dice che sono stati violati i diritti umani degli albanesi. Ora tu sei qui e puoi vedere che ciò è una spudorata menzogna. Come vedi, gli albanesi si recano nei loro campi liberamente, senza paura. Loro non devono avere paura, qui loro sono la maggioranza. Noi serbi siamo invece minacciati, perseguitati e poi veniamo chiamati aggressori. Che cosa ne sarà di noi?". Nel villaggio successivo il contadino Stojan, zio di Momcilo Trajkovic, si fa avanti a dire la sua. "Io non abbandonerò mai il Kosovo. Sono nato qui e qui voglio anche morire. Ho 70 anni. Meglio morire che vivere da profugo. Anche i miei genitori, i miei nonni e i miei bisnonni sono nati qui e morti qui. In caso di necessità difenderò la mia casa e i miei beni con le armi. Nessun serbo di questo villaggio, Lapime Selo, ha intenzione di lasciare il Kosovo. Qui c'è tutto quello che possediamo; le nostre case, i nostri campi, i nostri cimiteri, le nostre chiese. Io sono ottimista. Credo che il Kosovo rimarrà serbo, non può essere diversamente. Gli albanesi avranno una loro autonomia culturale, ma nessuna mano sul governo. Il Kosovo appartiene alla Serbia". Il 25 giugno, la famiglia di Ratomir e Cedomirka Miljkovic, dal villaggio Artin, nei pressi di Vucitrn, sono stati rapiti dagli uomini dell'Uck. "La nostra è l'unica casa serba di tutto il villaggio", dice l'anziana nonna Milica. "Questo però non aveva importanza nel passato. Noi invitavamo i nostri vicini a bere il caffè e anche loro facevano lo stesso con noi. I rapporti erano buoni. Che cosa è venuto in mente ai nostri vicini Bajram Bajrami, Esmet Sacirija e agli altri? questo noi non possiamo capirlo. Improvvisamente, negli ultimi giorni, tutto è cambiato. Il 25 giugno hanno assalito la nostra casa. All'assalto hanno preso parte circa 60 uomini, albanesi; oltre ai fucili portavano bombe e altri armi. Gli albanesi hanno lanciato 5 bombe contro la nostra casa. Dentro noi avevamo soltanto cinque fucili. Ci siamo difesi tutto il giorno. Abbiamo respinto l'attacco albanese costringendoli a tornare indietro. E se non avessimo opposto resistenza siamo sicuri che avrebbero tentato, in tutti i modi, di ucciderci. Al calar della notte abbiamo sfruttato l'occasione - per fortuna era scesa la nebbia - e abbiamo raggiunto Svinjara, il più vicino villaggio serbo. Poi abbiamo proseguito fino alla cittadina di Kraljavo, dove abbiamo potuto finalmente incontrare i nostri parenti e i nostri amici". "Eravamo tutti raccolti in cantina. Avevo una paura terribile che gli albanesi riuscissero a buttare una bomba anche nella cantina. In tal caso saremmo sicuramente morti tutti". * Collaboratore di "Junge Welt" e di "Neues Deutschland" ---------------------------------------------------------------------------- [Articolo Precedente] [Prima Pagina] [Articolo Successivo] ----------------------------------------------------------------------------