LA SECONDA 

GUERRA MONDIALE  

 

RESISTENZA

8 SETTEMBRE 1943-25 APRILE 1945

"Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga articolata di massa visibile a tutti, ed una ristretta segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità perché non si può mai fare affidamento sui piani del nemico.. " Pietro Secchia (in APS, p. 587)

Resistenza e revisionismo "Quell'ideale che ci portò in montagna"

di Giorgio Bocca*

Pietro Secchia, vicesegretario del PCI…. La Resistenza italiana fu un grande moto unitario del popolo italiano contro i tedeschi ed i fascisti, risultato di un'alleanza consapevolmente contratta tra le forze popolari democratiche e socialiste e le forze conservatrici; ma in ogni alleanza c'è sempre chi dirige, chi è alla testa, chi dà il più forte contributo e chi invece vi partecipa in posizione più o meno subordinata, vi è l'avanguardia e chi è trascinato e fa anche da remora. In ogni alleanza, in ogni grande movimento di popolo ha sempre notevole importanza esaminare quali sono le forze che più hanno dato, non soltanto come combattività ma come idee ed orientamenti, e che hanno avuto la direzione. Se esaminiamo la realtà quale essa fu, in tutti i suoi aspetti, e incontestabile che durante la guerra di liberazione, nella direzione della Resistenza ebbero il sopravvento al Nord le forze di sinistra, a Roma e nel Sud, invece, le forze conservatrici. Si tratta di un giudizio un po' sommario e schematico che dovrebbe essere meglio precisato tenendo conto delle modificazioni dei rapporti di forza avvenute nel corso dello sviluppo della guerra di liberazione nazionale. Gli stessi democristiani, liberali e monarchici non possono essere messi tutti in un solo sacco e giudicati in blocco come forze conservatrici; in parte si trattava di forze sinceramente antifasciste, in parte di forze che subivano l'influenza del tempo, le pressioni delle masse in lotta, in parte di forze sulle quali, specie verso la fase finale, influiva la volontà di non lasciare alle sinistre ed a noi comunisti in particolare il merito esclusivo del successo. Tutto ciò facilitò l'azione nostra e delle sinistre. Quanto meno nel Nord (dove la Resistenza ebbe il suo più grande sviluppo sia nel tempo che come partecipazione delle masse combattenti nelle formazioni partigiane, negli scioperi delle città, nelle dimostrazioni nelle campagne) le forze decisamente antifasciste e di sinistra ebbero funzione decisiva e preminente, furono le principali protagoniste e riuscirono a prendere nelle loro mani la direzione politica dei CLN, del comando del CVL e delle formazioni partigiane.   Il fascismo, la guerra, la sconfitta, l'occupazione nazista, la volontà di esistere come nazione, come paese civile con la Resistenza, non sono giudicabili da chi li visse e soffrì di persona: come il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, come coloro che, per venti mesi, rischiarono la vita perché sentivano che la patria non era morta e che bisognava subito testimoniarne la sua continuità? No, pare che chi possa giudicarne sia solo uno storico revisionista come Ernesto Galli della Loggia: per la ragione che lui è - come scrive sul "Corriere della Sera", "professore di storia contemporanea all'università, un teorico in ottima compagnia a cominciare da Renzo De Felice e Indro Montanelli". Davvero? È quasi mezzo secolo che cerco di spiegare, al mio collega Montanelli, che la guerra partigiana ci fu, e coinvolse milioni di italiani, e ai revisionisti che fu una guerra di popolo e non solo una congiura comunista. QUESTE sono cose che sa benissimo chi alla guerra partigiana prese parte e che finge di ignorare chi ne discute solo ora, nella vigilia elettorale in cui pare si debba sostenere che i comunisti erano degli antipatria e i partigiani di altro colore degli utili idioti. Noi che non apparteniamo alla corporazione dei cattedratici come il nobile Ernesto Galli della Loggia abbiamo, teoricamente, una idea vaga di cosa è ; la Patria, ma possiamo assicurargli che questa incerta nozione, questo immaginario legame, questa retorica illusione esiste: e spinse un popolo come il nostro, che odiava la guerra, a raccogliere l'otto settembre del '43 le stellette militari che l'esercito in rotta aveva buttato nel fango e a iniziare una guerra di popolo. Scrivere saggi revisionisti sulla guerra partigiana, inventata dai comunisti, gonfiata dalla falsa storia paracomunista - diciamo: la storia di una minoranza di mezzi delinquenti che, come si legge nelle ultime sensazionali rivelazioni, pubblicate con risalto anche da giornali che si definiscono antifascisti e democratici - altro non era che una cospirazione agli ordini di Mosca, e scriverlo in una vigilia elettorale in cui l'anticomunismo più beota viene usato a piene mani, per giustificare il possibile ritorno al governo dei fascisti, non ci sembra una onesta revisione della storia, ma il solito salto sul carro del possibile vincitore. Questo revisionismo che impartisce lezioni di oggettività e di autonomia, ignora il fondamento della storia, o almeno il tentativo di fare una storia onesta: il contesto, il collocare i fatti nel loro tempo. Piero Gobetti viene rievocato a uso elettorale come un leninista, un sostenitore della violenza politica. Dimenticando chi viveva, come vittima, la dittatura fascista e che la rivoluzione di ottobre, negli anni Venti, appariva al mondo intero come una grande utopia. Come se venisse rimproverato a uno della rivoluzione francese di non aver capito l'esito imperialista di Napoleone. E, fatte le debite proporzioni, l'accusa a Bobbio e agli azionisti di essere stati, nel primo dopoguerra, filocomunisti come se non fosse in atto la restaurazione del vecchio Stato. Lasciamola stare la storia perfetta, riserva dei cattedratici alla Galli della Loggia. Parliamo della storia strumentale, propagandistica. Ce ne fu una che piaceva al Partito comunista? Si, ci fu. A questa storia conveniva esaltare il contributo dei comunisti alla Resistenza e mettere in ombra episodi come quello di Cefalonia, in qualche modo legati all'esercito " badogliano"? Si, ci fu. Ma dedurre da episodi che appartengono alla lotta politica, alle avverse propagande, la prova che, per questo, la Patria era morta, è perdere il senso della misura e dimenticare che l'idea della Patria è diversa e sovrastante a quella della lotta politica.

I

 protocolli dei savi di Sion è una bufala ormai acclarata http://www.instoria.it/home/protocolli_sion.htm

 

  Trattasi di un'idea troppo semplice per i cattedratici revisionisti. Trattasi dell'idea di cui parla una canzone popolare: "E una mattina mi sono alzato e ho trovato l'invasor". Tutto qui. L'idea che nessuno può venire in casa nostra a farla da padrone, che qualsiasi siano le nostre idee di parte - può far violenza alla nostra storia, alla nostra libertà. Comunque sono rassegnato, non riuscirò mai a convincere il professor Galli della Loggia che - in quell'8 settembre del '43 in cui salivamo in montagna - l'idea di Patria non solo era viva ma l'unica esistente, nella nostra testa di ragazzi usciti dalla dittatura: l'idea che la Patria era viva come non mai, tanto che ci convinceva a iniziare una guerra impari, una guerra senza prigionieri. ("la Repubblica", 5 marzo 2001)
Giampaolo Pansa a Radio 24: *Bocca visceralmente fascista, antiebreo, anzi antisemita ?. Il 14 agosto 1942 La "Provincia Grande" pubblica a firma di Giorgio Bocca: "... A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo (i protocolli dei Savi anziani di Sion vedi a fianco nota). Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù” (G. Bocca, La Provincia grande – Sentinella d’Italia, Foglio d’ordini settimanale della Federazione dei Fasci di Combattimento di Cuneo, il 14 agosto 1942).http://www.camelotdestraideale.it/2010/05/08/giorgio-bocca-fascista-e-antisemita-provincia-granda/
Il che non avvenne certo senza dibattiti, senza contrasti, senza urti, ma sulle questioni principali le forze conseguentemente democratiche ed antifasciste (comunisti, socialisti, Partito d'azione) riuscirono ad avere il sopravvento, e nell'ottenere questo risultato l'azione dei comunisti fu preminente. Riuscimmo ad avere il sopravvento sull'attesismo che era l'ideale delle forze conservatrici, avemmo il sopravvento sulla necessità di lottare non soltanto contro i tedeschi ma contro i fascisti, il che significava che per noi non si trattava soltanto di lotta nazionale, ma di lotta di classe. Quanti passi in avanti furono fatti dall'inizio della Resistenza in poi! Inizialmente si discusse persino sulla possibilità di ammettere i comunisti nei primi comitati delle opposizioni da cui nacquero poi i CLN. «I primi comitati militari che affiancarono i CLN e che limitarono la loro attività ad assistere materialmente gli ufficiali ed i soldati sbandati osarono rifiutare ogni contributo alle formazioni partigiane nate per iniziativa dei comunisti e di energici popolari. Fu per assumere libertà di azione ed assicurarci un'esistenza autonoma che venne presa l'iniziativa della costituzione delle brigate d'assalto Garibaldi. Con quest'iniziativa in campo militare, e grazie al successo che essa ebbe, ottenemmo un primo risultato democratico: fummo accettati e riconosciuti in tutti gli organismi politici e militari a parità di diritti e di dignità con tutti. Naturalmente in questi organismi, ogni proposta che tendesse ad allargare la mobilitazione popolare, che tendesse a favorire l'ascesa dei nuovi quadri dirigenti, fu contrastata ed osteggiata dagli esponenti delle altre correnti, dai liberali ai democristiani.  

Da scritti e discorsi di PIETRO SECCHIA
Idee e programma della resistenza

Con le manifestazioni in ricordo degli scioperi di Torino e di Milano del marzo 1943 sono iniziate le celebrazioni del trentesimo anniversario della Resistenza. Quegli scioperi scoppiati non a caso il 5 marzo 1943 segnarono una svolta decisiva nella lotta contro il fascismo che accusò il colpo, furono la scesa in campo della classe operaia in modo possente e decisivo. Poiché, se è vero che durante il ventennio fascista non erano mancati scioperi, fermate di lavoro, agitazioni, si era sempre trattato di movimenti locali e parziali riguardanti alcune fabbriche, ora in questa, ora in quest'altra città. Essi ferivano la «legalità» fascista, ma non riuscirono mai a spezzarla, come la spezzarono gli scioperi del marzo 1943. Senza sottovalutare il duro, lungo, difficile lavoro di chi li aveva organizzati, non si possono vedere quegli scioperi al di fuori del quadro degli sviluppi della situazione internazionale, delle battaglie sui vari fronti e delle loro ripercussioni in Italia. Non si può ignorare o dimenticare che la vittoria definitiva di Stalingrado porta la data del 2 febbraio 1943 e che un mese dopo scoppiano gli scioperi di Torino e di Milano. Lo riconobbe perfino Mussolini. L'«Unità» del 31 gennaio 1943 portava a piena pagina il titolo: « Le grandi vittorie dell'Esercito Rosso avvicinano il momento del crollo hitlero-fascista». E l'«Unità» del 20 febbraio, sempre in prima pagina, titolava: «L'Esercito Rosso lottando per la liberazione dell'URSS lotta per la libertà di tutti i popoli oppressi». L'articolo di fondo incita «tutti a partecipare al Fronte Nazionale d'Azione per muovere all'attacco e organizzare senza indugio la lotta aperta contro il fascismo». Infine l'«Unità " del 28 febbraio (cinque giorni prima dello scoppio degli scioperi di Torino) porta sull'intera pagina il titolo: «Commemoriamo il XXV anniversario dell'Esercito Rosso iniziando in Italia la lotta armata per la pace e la libertà». I primi mesi del 1943 segnarono per l'Italia l'ora della riscossa. Dopo le vittorie dell'Esercito Rosso sul Fronte Orientale, la distruzione dell'Armir, i successi delle armate anglo-americane in Tunisia, le menzogne della stampa fascista non riuscivano più a celare la realtà agli italiani. La resa dei conti per Mussolini e i suoi complici si avvicinava.

Ciononostante noi riuscimmo a respingere la pretesa di questi stessi esponenti di sottomettere le formazioni partigiane che nascevano al comando superiore di militari che tutto volevano meno che la lotta. Ottenemmo che in tutte le formazioni partigiane trionfasse il principio che il comandante doveva essere il più capace, il più attivo, quello che più aveva contribuito allo sviluppo della formazione.» Noi fummo sempre favorevoli all'utilizzazione nei posti di comando di ufficiali provenienti dall'esercito (per la loro esperienza questi seppero dare un notevole contributo allo sviluppo della guerra partigiana). La sola condizione che ponevamo era che essi fossero per la lotta, per l'azione contro i tedeschi ed i fascisti. Mentre invece le correnti di destra, col pretesto delle capacità tecniche, tendevano a mettere alla testa delle unità partigiane soltanto degli ufficiali di carriera, uomini per lo più di orientamento conservatore, e spesso reazionario. Riuscimmo a fare accettare dal CLNAI e dal CVL la nomina dei commissari politici in tutte le formazioni ed anche quando si realizzò l'accordo per l'unificazione di tutte le unità partigiane sotto un solo comando, accettammo il cambiamento del nome ma non mollammo sulla sostanza; il commissario restò col nome di commissario di guerra invece che di commissario politico, ma restò. …   L'inizio dei possenti bombardamenti della Raf su numerose città e centri vitali del nostro paese faceva pesare più direttamente su tutta la popolazione gli orrori della guerra e toccare con mano la dura realtà della disastrosa e infame politica del fascismo. Il bagliore degli incendi illuminava tragicamente le notti delle nostre città bombardate (il fascismo non aveva potuto predisporre neppure una efficace difesa e un adeguato sfollamento delle popolazioni). Ogni giorno aumentava la fuga dalle organizzazioni fasciste: dal 28 ottobre 1942 all'11 marzo 1943 oltre due milioni di italiani (secondo i dati ufficiali) non avevano rinnovato la tessera del partito fascista, gli iscritti alla Gioventù del Littorio erano scesi da nove milioni a quattro milioni, le iscritte ai fasci femminili da oltre un milione a 350 mila, e così via. Questa fuga in massa di coloro che volenti o nolenti erano stati irreggimentati nelle organizzazioni fasciste indicava chiaramente che gli italiani aprivano gli occhi, non avevano più paura, e che il terrore dell'Ovra non riusciva più a contenere la ribellione. La caldaia era in ebollizione. L'epica battaglia di Stalingrado, conclusasi il 2 febbraio alle ore 16 con la completa distruzione della VI Armata tedesca e con la capitolazione di Von Paulus, non fu soltanto, come tutti gli storici riconoscono, la più grande battaglia della Seconda guerra mondiale, ma mutò le sorti stesse del conflitto, fu il segnale decisivo che percorse da un capo all'altro l'Europa. Il 5 marzo gli operai della FIAT, guidati dai loro comitati segreti, iniziarono lo sciopero. La notizia si diffuse con la velocità del fulmine in tutti gli altri stabilimenti della città e della regione. Nei giorni successivi lo sciopero si allargò ad altre fabbriche. Al sesto giorno Mussolini, nell'impossibilità di piegare la decisa volontà dei lavoratori e degli antifascisti, cercò di far soffocare il movimento con la violenza. Fu come buttare benzina sul fuoco. Dal 16 marzo ai primi di aprile lo sciopero si estese rapidamente a tutti i centri principali del Piemonte, ad Asti e nel Biellese, a Milano e in Lombardia, minacciando di dilagare negli stabilimenti della Liguria, della Venezia Giulia e dell'Emilia.

Riuscimmo a fare accettare dal CLNAI che la lotta fosse condotta anche con le agitazioni di massa. Non soltanto facemmo accettare il principio, ma soprattutto la pratica dei grandi scioperi e dello sciopero generale. Altro che rinuncia alla lotta di classe! Dall'inizio alla fine della guerra la Resistenza fu caratterizzata sempre dall'intrecciarsi della lotta armata con le lotte di massa, della lotta nazionale con la lotta di classe. Riuscimmo a fare accettare una concezione della Resistenza che comprendeva non solo la lotta dei partigiani armati, ma anche la lotta delle masse lavoratrici sul luogo stesso di lavoro ed a fare solidarizzare con queste lotte operaie gli stessi CLN. Alla base dell'azione della classe operaia e dei lavoratori stavano non soltanto le necessità economiche o l'odio contro l'invasore, ma profondi sentimenti di odio contro il fascismo, di amore per la libertà e l'indipendenza da riconquistare, l'aspirazione al profondo rinnovamento della società italiana ed al socialismo. Motivi economici, politici ed ideali si intrecciavano e fondevano in un'unica spinta, come tanti rivoli in un grande fiume.

  Le celebrazioni degli scioperi di Torino e di Milano del marzo 1943 segnano dunque a buon motivo l'inizio del trentennale della Resistenza anche perché indicano che quando gli operai scendono in campo uniti, la loro lotta acquista un peso decisivo. Se gli scioperi di Torino e di Milano (organizzati dai comunisti, ma vi parteciparono operai di ogni corrente politica e senza partito, lavoratori anziani e giovani delle nuove generazioni cresciute negli anni del fascismo) non furono decisivi per l'abbattimento immediato del regime, gli assestarono un durissimo colpo; essi furono una di quelle «spallate», come si dice, con le quali si mutano le situazioni. Ebbero i loro limiti, perché quegli scioperi non andarono oltre Torino, Milano e alcune località del Piemonte e della Lombardia: perché forte fu la repressione seguitane (oltre 900 gli arrestati). Tuttavia non se ne può sottovalutare l'importanza ed è giusto considerarli come l'inizio della Resistenza, anche se a quegli scioperi seguì una «stasi» e fu chiaro che, per abbattere il fascismo, occorreva allargare l'unità ad altre forze politiche, occorreva che altri si muovessero…….. Nelle celebrazioni « ufficiali» della Resistenza, lo abbiamo esperimentato, non manca nessuno! L'Italia ufficiale e popolare, quella laica e religiosa. Persino i gesuiti di «Civiltà Cattolica», in occasione del trascorso ventennale, sentirono il bisogno di essere presenti. Naturalmente celebrarono la Resistenza a modo loro, scrivendo che essa: «è stata una lotta fratricida che ha lasciato degli strascichi dolorosi nell'animo degli italiani, una ferita non ancora rimarginata; una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato le tre parti in lotta (partigiani, tedeschi e fascisti) ad efferatezze, ad eccidi, a rappresaglie e vendette terribili». Il bene e il male, il torto e la ragione, l'umanità e la barbarie stavano, secondo i reverendi padri, da entrambe le parti: vittime e carnefici, oppressi e oppressori, tutti vengono accomunati in uno stesso destino. Non di rado i circoli dirigenti e di governo monopolizzano o quasi le manifestazioni, quanto meno le più ufficiali. Sulle piazze, nei teatri e alla televisione essi cercano di presentare una Resistenza evirata, deformata, senza principi, senza obiettivi e senza programmi sociali, come un grande movimento patriottico al quale tutti avrebbero partecipato. La televisione brilla nella sua opera di discriminazione e di deformazioni. Certo le trasmissioni che da qualche tempo vengono dedicate alla Resistenza costituiscono qualche cosa di nuovo, un passo avanti rispetto all'aperta denigrazione che veniva fatta negli anni della guerra fredda.
Riuscimmo a fare accettare la costituzione dei comitati di liberazione e dei comitati di agitazione unitari all'interno delle fabbriche. Riuscimmo a fare accettare che i CLN fossero costituiti non soltanto al vertice, nel capoluogo regionale, ma in tutti i centri provinciali, nei villaggi e nei quartieri delle città, in ogni località di una certa importanza, poiché nella loro estensione vedevamo il crearsi di organi di autogoverno delle masse, di democrazia diretta ed immediata. Riuscimmo nel Nord a fare accettare dai CLN il concetto che la lotta aveva per scopo non soltanto la cacciata dei tedeschi e la eliminazione del fascismo, ma la realizzazione di un regime di nuova democrazia (non il ritorno al regime esistente prima del fascismo). In proposito si veda la già citata dichiarazione del CLNAI del gennaio 1944. E' vero che alla vigilia dell'insurrezione il dissenso, e proprio su questi problemi: funzione dei CLN come organi della nuova democrazia, esploderà in pieno. Che nell'unità vi fosse il contrasto delle tendenze politiche, nessun dubbio, ed esso era espressione di idee diverse, della diversità delle posizioni politiche ed ideologiche che corrispondevano ai diversi interessi di classe delle forze che partecipavano ai CLN. Persino alla vigilia dell'insurrezione si tentò ancora dai soliti elementi conservatori dei CLN, apertamente aiutati dalle alte autorità ecclesiastiche, di impedire e sabotare l'insurrezione tentando il compromesso con i tedeschi. Ma a tutte queste manovre ci opponemmo decisamente e riuscimmo a farle fallire. L'insurrezione nazionale fu l'opera del popolo italiano organizzato nelle sue formazioni di combattimento e nelle sue organizzazioni politiche, e l'apporto di noi comunisti perché essa riuscisse fu decisivo. Noi comunisti lavorammo sempre per realizzare la più larga unità di tutte le forze nella lotta contro i tedeschi ed i fascisti, ma al tempo stesso ci preoccupammo costantemente di conquistare la direzione alle forze di sinistra conseguentemente democratiche. Tutta la storia della Resistenza è stata una lotta continua non soltanto contro i nemici esterni, ma anche contro le forze conservatrici che cercavano di influenzare gli stessi CLN e di impedire lo sviluppo del moto insurrezionale. Pietro Secchia, vicesegretario del PCI   Ma la lettura del brani, la scelta delle lettere o delle ultime parole dei condannati a morte è sempre operata con sapiente discriminazione (i comunisti non vi figurano né come ideologia né come persone, salvo qualche rara volta, di sfuggita e ai margini). Si mira per lo più a mettere in luce l'eroismo, le sofferenze, il sacrificio e il pensiero rivolto a Dio, quasi mai si illuminano e si precisano gli ideali sociali e di classe per cui i caduti lottavano. Molti discorsi celebrativi e molte trasmissioni televisive abbondano di questa retorica del sacrificio, dell'eroe senza volto, così lontano e così diverso dai vivi appunto perché è morto. Nell'esaltazione astratta della «forza d'animo» e della «nobiltà» dei caduti appare chiaro l'intento di svuotare la Resistenza della sua realtà, ignorandone gli ideali ed il programma. «Sarebbe assai grave se nel campo della Resistenza - scriveva Roberto Battaglia - prevalessero sul piano internazionale le concezioni di tipo occidentale, per cui si va dalla concezione patriottica alla concezione etico religiosa sostenuta dai cattolici secondo cui tutti i partigiani sono buoni purché siano morti. E questo è sostanzialmente il nocciolo: l'idea dei martiri non è della Resistenza, ma è un'idea cattolica; è l'idea, cioè, che le cose importanti sono i martiri e non sono i risultati per cui quei martiri sono caduti». Non possiamo certo prestarci a simili deformazioni della verità e della storia. Senza dubbio le celebrazioni ci devono essere e quanto più unitarie e larghe possibile; i morti devono essere onorati e ricordati, ma ricordando gli ideali per i quali essi combatterono e caddero, e rinnovando quindi l'impegno di continuare la lotta per realizzarli. I giovani oggi vogliono sapere, ma non vogliono essere ingannati. Essi devono sapere che la Resistenza non fu né un fenomeno religioso né la pura e semplice manifestazione di uno spirito di sublime sacrificio da parte di un popolo né soltanto un grande movimento di lotta contro lo straniero o di rivolta per la salvezza dell'onore e della dignità umana. Non è lecito ignorare gli ideali, le classi, i partiti, le forze sociali che furono il nerbo della Resistenza. È giusto cogliere l'elemento unitario che mosse gli antifascisti, ma si deforma e si nega la Resistenza quando si tace del suo programma che venne poi riassunto in formule giuridiche nella Costituzione, rimasta ancora oggi per gran parte inattuata. Gli uomini della Resistenza non hanno lottato soltanto per cacciare i tedeschi e battere i fascisti, lasciando poi le cose come prima. Essi hanno lottato per dare all'Italia un altro ordinamento. un regime di nuova ed effettiva democrazia, fondato sulla libertà e sulla giustizia. Essi si sono battuti per un rinnovamento totale della nostra vita nazionale, per ricostruire dalle fondamenta la struttura del Paese. Il 28 agosto 1924 Antonio Gramsci scriveva: «Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae origine dai fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irrimediabili contrasti. Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse, gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistare questa adesione; dall'altra vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono venuti risvegliando lentamente alla vita politica e chiedono di prendere parte attiva, vogliono diventare la base di uno Stato nuovo in cui si incarnino le loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce più a soddisfare i bisogni elementari della grande maggioranza dei lavoratori perché costruito per soddisfare interessi particolari ed esclusivistici di alcune ristrette categorie privilegiate; vi sono d'altra parte centinaia e migliaia di lavoratori che non possono più vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi.

LA PRESENZA DEL CLERO (I): da "Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza" di Valiani, Bianchi e Ragionieri Angeli Editore. Sull’atteggiamento e sul comportamento del clero cattolico italiano nei confronti della Resistenza, riferiamo qui il pensiero di Gianfranco Bianchi (I):

È stato più volte discusso il problema dell’effettivo e non occasionale atteggiamento del clero cattolico italiano al prodursi del fenomeno della Resistenza. E ci si è chiesto se la partecipazione di sacerdoti abbia costituito un fatto generate, o isolato e contingente. Non si dimentichi infatti che
LA MISSIONE DELLA CHIESA È MISSIONE RELIGIOSA, DI FRATERNITÀ, DI PACE, E MAI DA QUELLA PARTE POTEVA VENIRE ALLORA, COME NON VERRÀ IN FUTURO, UN INVITO ALLA VIOLENZA. STUPISCE, MA FINO AD UN CERTO PUNTO, CHE SI SIA RIMPROVERATO ALLA CHIESA E ALLE GERARCHIE ECCLESIASTICHE DI AVER CERCATO DI RISPARMIARE DISTRUZIONI ALLE CITTA', CARNEFICINE FRA LE POPOLAZIONI
Fu nondimeno il clero il tessuto connettivo della nostra organizzazione militare e politica (cioè dei cattolici: n.d.r,), fu l’ancora di salvezza per tanti perseguitati razziali e politici: conventi, case parrocchiali, istituti religiosi furono asilo e porto sicuro senza distinzione di fede o di colore politico, per tutti coloro che il nazismo e il fascismo andò braccando. Le canoniche, le case religiose, oltre ad essere sicuro asilo di singoli, furono, assai spesso, sedi di riunioni clandestine di CLN. e di Comandi militari .Moltissimi poi (decine e decine) furono i sacerdoti Caduti nella Lotta di Liberazione, vittime della rappresaglia nazifascista. Citiamo alcuni nomi come esempio: Don Giovanni Fornasini da Sperticano (Marzabotto) medaglia d’Oro al V.M.; don Giuseppe Treppo di Imponzo (Carnia); don Pietro Cortula di Ovaro (Udine); don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudi da Boves (Cuneo); padre Girotti (piemontese) morto in un lager nazista; don Ernesto Cammaci (Monferrato) medaglia d’Oro al V.M.; don Achille Bolis di Calolziocorte (Bergamo); don Ilario Zazzeroni di Montegranelli; don Elio Monari, medaglia d’Oro al V.M.; don Felice Cipparelli, di Corvino di S. Quirino (Pordenone); don Paolo Ghigirii di Casasco (Alessandria); padre Otto Neurer, impiccato nel campo nazista di Buchenwald; don Narciso Sordo di Castel Tesino (Trentino); don Luigi Bovo di Bentipaglia; don Fausto Callegari di Carrara di Galliera Veneta; don Giuseppe Lago di S. Giustina in Colle (Padova), medaglia d’Oro al V.M.; don Pietro Zanelli e padre Vinicio Torelli di Pieve di Rivoschio (Forlì); don G. Battista Pigozzi di Cervarolo (Reggio); don Pasquino Borghi medaglia d’Oro al V.M.; don Giuseppe Bonea (Piacenza); don Caustico (Torino); don Giuseppe Morosini medaglia d’Oro al V.M.; don Costanzo De Maria (Dronero) medaglia d’Argento al V.M.; e tanti tanti altri. Se la posizione del « basso clero » fu dunque di stretto rapporto colle popolazioni (in quanto vittime di soprusi e di violenze da parte dei nazifascisti) e colla Resistenza (furono numerosi i preti che presero parte attiva combattendo fra i partigiani), è pur anche vero che « l’alto clero », non si sottrasse al bivio fra « attesismo » e « attivismo ». Parecchi furono i Vescovi che presero posizione contro quello che veniva definito « terrorismo », cioè atti contro il nemico ritenuti inutili, perché provocavano reazioni di rappresaglia sulle popolazioni civili (
e pertanto da parte delle sinistre del C.L.N. vennero inseriti fra gli « attesisti »). Contemporaneamente favorivano (non pubblicamente) l’« attivismo », cioè una lotta « umanizzata », evitando gli spargimenti di sangue non necessari. Infine ci furono anche religiosi (pochissimi) che sostennero il fascismo repubblichino. Per parte sua il Vaticano, nei confronti della Repubblica di Salò, fu assai cauto. Rifiutò il riconoscimento « de jure » (di diritto) al nuovo governo di Mussolini, si chiuse in un grande silenzio e, in pratica, lasciò alla Chiesa periferica (cioè ai Vescovi) di avere col fascismo (e quindi coi tedeschi) quei rapporti che più si ritenevano opportuni.

   Da 40 anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi». Sono trascorsi quasi cinquant'anni da quando Gramsci scriveva queste parole, eppure si direbbero scritte oggi. Molte cose sono cambiate da allora, lo sappiamo, ed è perfino ingenuo e superfluo ricordarlo. I paesi socialisti abbracciano oggi gran parte del mondo, i movimenti rivoluzionari hanno vinto in paesi dell'Asia, dell'America Latina, dell'Africa. L'oppressione e la schiavitù colonialista sono in gran parte scomparse: viviamo nell'epoca della bomba atomica, dei voli spaziali, della televisione, dell'elettronica. Molti passi avanti sono stati fatti anche in Italia dalla classe operaia, dai lavoratori, dai giovani, dalle donne, dal paese nel suo complesso. Molte cose sono state cambiate perché il fascismo come regime di dittatura è stato abbattuto, le libertà democratiche sono state riconquistate, perché c'è stata la Resistenza che esercita tutt'ora il suo peso. L'antifascismo è tutt'ora una forza che raccoglie gran parte degli italiani e anche milioni di giovani i quali, pur non avendolo direttamente conosciuto nella sua barbarie, hanno appreso cos'è il fascismo dalle tradizioni famigliari, da letture e studi. Purtroppo - questo è l'aspetto sommamente negativo - lo apprendono anche dai tentativi che esso fa per risorgere con gli stessi metodi, con la stessa violenza, appoggiato da quegli stessi ceti e gruppi più retrivi del grande capitale che già cinquant'anni or sono lo finanziarono, lo organizzarono e lo sostennero, e con la complicità, 1'omertà, la tolleranza di certi gruppi rimasti o infiltratisi negli organismi dello Stato che non sono ancora stati democratizzati. Accentuare la lotta contro il fascismo, allargare l'unità nella lotta per realizzare profonde riforme della società attuale, unendo giovani e anziani, operai e studenti, contadini e intellettuali, portando avanti molteplici iniziative di lotta nelle città, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole, in Parlamento, questo dev'essere l'obbiettivo principale nel corso del trentesimo anniversario della Resistenza.
Marzo 1973

COMBATTERE L’ATTESISMO

Da “La meravigliosa Italia della Resistenza” di Giorgio Ognibene prefazione On. Arrigo Boldrini (Bulow) Pres. Anpi, Vice Pres. Camera deputati Ed. Ape Bologna '74

Un grosso pericolo (anche se non costituito da armati) fu per la Resistenza l’ attesismo. Cos’era l’« attesismo »? Era un modo di pensare che, in pratica, rallentava la costituzione delle bande partigiane e limitava la loro azione. Secondo questa tendenza, bisognava « attendere » ed organizzarsi solo quando le truppe alleate fossero state ... vicine. « Attesisti » erano soprattutto le forze monarchiche (che non avevano aderito al C.L.N.), ma « attesisti » c’erano anche all’interno dello stesso C.L.N.
Ci furono casi clamorosi di « attesismo ». Uno fu quello definito « l’affare Operti » (Operti era il nome di un generale che si era dato alla macchia con centinaia di milioni, e forte di questa ricchezza voleva inserirsi quale Comandante di tutte le bande partigiane del Piemonte, aldifuori però del C.L.N.). Operti non solo praticava l’attesismo, ma la lotta oltrechè contro i tedeschi anche contro gli alleati, e contro le cosiddette « bande sovversive », cioè quelle costituite da elementi della sinistra (le brigate « Garibaldi »). A Roma si verificò il caso più clamoroso di attesismo. Il colonnello Montezemolo, fedelissimo del re, era rimasto a Roma e aveva organizzato un CENTRO MILITARE col compito di raccogliere tutta la Resistenza sottraendola al C.L.N. e legandola quindi al re e a Badoglio. Montezemolo ricevette anzi il titolo di « rappresentante ufficiale del governo regio nell’Italia occupata».

L’azione del CENTRO MILITARE fu frenante e rivelò il proposito di togliere ai partiti antifascisti l’iniziativa militare e quindi evitare l’insurrezione popolare. Azioni di disturbo e di sabotaggio: ecco il programma, non azioni di vera guerriglia o, peggio di guerra. Secondo Montezemolo « in Italia terreno e popolazione poco sj prestano alla guerriglia Ma l’azione del CENTRO MILITARE riuscì solo sulla carta, organizzando ... sulla carta una vera rete periferica di Comandi militari; in pratica il grosso della Resistenza seguì le direttive e le organizzazioni del C.L.N.
Nella mattina del 9 settembre, i partiti del "comitato nazionale antifascista" si riuniscono per costituirsi in C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale). Lo compongono: Mauro Scoccimarro, Giorgio Amendola e Giovanni Roveda per il Partito Comunista; Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi e Giuseppe Spataro per la Democrazia Cristiana; Pietro Nenni, Giuseppe Romita e Sandro Pertini per il Partito Socialista di Unità Proletaria, Riccardo Bauer, Ugo la Malfa e Sergio Fenoaltea per il Partito d' Azione; Manlio Brosio, Alessandro Casati e Leone Cattani per il Partito Liberale; Bartolomeo Ruini e Giovanni Persico per il Partito Democratico del Lavoro (alla riunione mancano Manlio Brosio, rappresentato da Antonio Calvi e Sandro Pertini da Mario Zagari). Questo l’appello rivolto al popolo:
"Italiani, la crisi della guerra imposta al Paese dal fascismo è giunta al suo epilogo. All’armistizio tardivamente concluso, le truppe tedesche accampate sul nostro suolo rispondono aggredendo l’Italia, che per tre anni ha versato il sangue dei suoi figli nella guerra di Hitler. Roma è minacciata. Sulle responsabilità della tragica situazione giudicherà il popolo italiano quando il nemico avrà ripassato il Brennero. Oggi per i figli d’Italia c’è un solo fronte: quello della difesa della pace
contro i tedeschi e contro la quinta colonna fascista. Alle armi!"
Come aveva fatto l'Anpi anche Ognibene elogia Carboni (vedi sotto), l'uomo che avrebbe dovuto cambiare i destini d'Italia. La difesa d'ufficio di Carboni venne assunta da Antonello Trombadori per la nota consegna di armi (di cui si accenna anche sotto e che rimane l'unica cosa positiva) e ancora adesso nel sito Anpi si può leggere "Nel corso della battaglia si distinguono militari come il generale Giacomo Carboni, comandante del Corpo d'armata motocorazzato, che si prodiga nel tenere alto il morale dei soldati: manda i carabinieri a staccare i manifesti disfattisti che danno per imminenti le trattative con i tedeschi, fa spargere la notizia dello sbarco ad Ostia degli alleati e dell'arrivo a Roma delle divisioni «Ariete» e «Piave». Anche questo è un Carboni da fantascienza che non è mai esistito, si spera. E' pericoloso spargere la notizia di uno sbarco che non c'è: serve solo a far ammazzare più gente. Alle 8 del 9 settembre il valoroso Gen. Carboni scompare (lo danno anche per disertore) per riapparire nel tardo pomeriggio. La catena di comando in assenza del Re, del capo del Governo, del ministro della guerra, del capo di stato maggiore, del comandante del CAM, passava al più anziano dei comandanti di divisione il Conte Calvi di Bergolo, della Centauro ex legionaria Mussolini, che a tutto pensava fuorché a far la guerra ai tedeschi (già dal 9 infatti va a parlamentare coi tedeschi per la resa del giorno successivo). Si disse anche che Carboni scappato in borghese ritornasse per paura della corte marziale. Questo è il Carboni patriota !!!!!
Cosi Ognibene: A Roma, dopo la fuga del re, del governo e del Comando Supremo, era rimasto il generale Carboni, valoroso ufficiale antifascista, che si preparò alla Resistenza ed accettò la collaborazione popolare, fornendo quelle armi che prima nessuno aveva voluto fornire. Gli episodi di eroismo popolare furono moltissimi, così come eroico fu il comportamento di buona parte delle truppe. Ben 300 furono i morti fra civili e militari fra l’8 e l’11 settembre.

NUMERI   (da prendere col beneficio)
La cifra di 1732 uccisi di parte fascista citata dal ministro Scelba è inspiegabile: nel 1952, infatti, il governo aveva già quella che è a tutt'oggi l'unica cifra dello Stato italiano sui morti di parte fascista subito dopo il 25 aprile, che però non è mai stata resa nota. Secondo un'indagine della Direzione generale di Pubblica sicurezza svolta alla fine del 1946, infatti, le persone uccise perché "politicamente compromesse" con il regime fascista sono state 8197, a cui vanno aggiunte le 1167 "prelevate e presumibilmente soppresse", per un totale di 9364. Questi dati, scrisse il capo della polizia inviandoli al ministero, vanno considerati "approssimativi, per le evidenti difficoltà che incontrano i relativi accertamenti. Dopo queste ultime indagini sono pervenute, infatti, altre segnalazioni per quanto non numerose". La portata di queste cifre si accorda con l'entità di quelle dichiarate
nel 1948 al Senato da Ferruccio Parri, quando affermò che "i caduti dall'altra parte, compresi quelli caduti in combattimento, potevano assommare ad una cifra tra 10.000 e 15.000", secondo le indagini da lui fatte
condurre quando era al governo.
da Wikipedia
 

Si calcola che i caduti per la Resistenza italiana (in combattimento o uccisi a seguito della cattura) siano stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati ed invalidi; tra partigiani e soldati regolari italiani caddero combattendo almeno in 40.000 ? (10.260 della sola Divisione Acqui impegnata a Cefalonia e a Corfù); Le donne partigiane combattenti furono 35 mila, mentre 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della donna; 4.653 di loro furono arrestate e torturate. 2.750 furono deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento; 15 vennero decorate con la medaglia d'oro al valor militare. Dei circa 40.000 civili deportati, per la maggior parte per motivi politici o razziali, ne torneranno solo 4.000.

Gli ebrei deportati nei lager furono più di 10.000; dei 2.000 deportati dal ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 tornarono vivi solo in quindici. Tra i soldati italiani che dopo l'Armistizio di Cassibile dell'8 settembre decisero di combattere contro i nazifascisti sul territorio nazionale continuando a portare la divisa morirono in 45.000 (esercito 34.000, marina 9.000 e aviazione 2.000), ma molti dopo l'armistizio parteciparono alla nascita delle prime formazioni partigiane (che spesso erano comandate da ex ufficiali). Furono invece 40.000 i soldati che morirono nei lager nazisti, su un totale di circa 650.000 che fu deportato in Germania e Polonia dopo l'8 settembre e che, per la maggior parte (il 90% dei soldati e il 70% di ufficiali), rifiutarono le periodiche richieste di entrare nei reparti della RSI in cambio della liberazione.
Si stima che in Italia nel periodo intercorso tra l'8 settembre 1943 e l'aprile 1945 le forze tedesche (sia la Wehrmacht che le SS) e le forze della Repubblica Sociale Italiana compirono più di 400 stragi (uccisioni con un minimo di 8 vittime), per un totale di circa 15.000 caduti tra partigiani, simpatizzanti per la resistenza, ebrei e cittadini comuni. Per diversi motivi molti procedimenti giudiziari relativi a queste stragi non furono mai portati avanti, in parte a causa di tre successive amnistie. La prima intervenuta il 22 giugno 1946 detta "amnistia Togliatti"; la seconda approvata il 18 settembre 1953 dal governo Pella che approvò l'indulto e l'amnistia proposta dal guardasigilli Antonio Azara per tutti i reati politici commessi entro il 18 giugno 1948,[24]; la terza approvata il 4 giugno 1966. Inoltre la Germania Ovest era dal 1952 alleata con l'Italia sotto l'ombrello della NATO, per cui non risultava politicamente opportuno dare risalto ad episodi ormai ritenuti parte del passato coinvolgenti cittadini tedeschi.

 

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