CAMPO DI CONCENTRAMENTO
FOSSOLI (CARPI - MODENA) FARLA FRANCA
Poligono di tiro di Cibeno
(CARPI)
Antonio Manzi, Partigiano cattolico assassinato a Fossoli Titolo del Libro scaricabile in internet da www.deportati.it - …pag 53 e segg. |
... L’ingegner Carlo Bianchi informò i familiari con tre lettere scritte su un foglio di quaderno: le informazioni erano velate, non esplicite: divennero chiare solo più tardi, a strage compiuta. Uno degli inclusi nella lista dei 71, sul finire della notte, ebbe l’ordine di non partire: non si sa bene a chi dovette la sua grazia. Così i condannati di Fossoli furono 70, fra cui anche quel Giovanni Bertoni che, per uno strano caso del destino, assurse a notorietà, anche se non a gloria, più dei valorosi che caddero con lui nella atroce fossa. Quando il buio della notte calò sul campo, il silenzio agghiacciò nell’angoscia l’animo di tutti, tutti tesi ad interpretare anche il più piccolo rumore che si producesse fuori dalle baracche. La sorveglianza era più che mai attenta; i fari delle torrette di guardia sciabolavano frene-ticamente i loro fasci luminosi sul campo e addosso alle vicine case coloniche. All’alba del 12 luglio, il silenzio fu fragorosamente rotto dal motore di un camion entrato nel viale di accesso dalla porta della via Remesina. Una ventina di internati vennero fatti uscire dalla baracca n. 17 e fatti salire sul cassone scoperto dell’automezzo, seduti sul fondo a gambe divaricate, con la schiena dell’uno contro quella dell’altro. Il camion ripartì. Sull’ora della partenza non vi è uniformità nel ricordo di chi fu testimone oculare: qualcuno dice le quattro, qualcuno addirittura le cinque e mezzo, ma questa pare un’ora tarda, poiché a metà luglio la luce doveva già essere troppo chiara per la nefanda operazione che stava per essere condotta dai tedeschi. Anche il numero del gruppo dei partenti non coincide in tutte le testimonianze: potevano essere 20/25. Il camion partì lasciando a terra i bagagli. Ritornò vuoto verso le cinque e ripartì con un secondo gruppo di 25, fra i quali appunto Antonio, sempre sorvegliato da quattro tedeschi col mitra spianato ai quattro angoli del cassone. Questa volta il numero è ricordato con precisione da Eugenio Jemina, uno dei due condannati che facevano parte del secondo convoglio, e che riuscirono a scampare alla morte con la fuga. Dopo mezz’ora lo stesso autocarro fu di ritorno, caricò l’ultimo gruppo, questa volta ammanettato, e ripartì; furono caricati anche tutti i bagagli, ma su un altro automezzo. Il percorso era sempre quello, lo stesso fatto la mattina precedente dal gruppo di ebrei. La meta non era la stazione di Carpi come falsamente annunciato dai tedeschi. | ||
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Percorsa la strada Remesina, che costeggiava il campo, l’automezzo si dirigeva a Fossoli, oltrepassava il paese e deviava verso la frazione di Cibeno (entrambe frazioni di Carpi), dove era ubicato il poligono di tiro militare. Questa era la meta. E a questo punto nessuno dei prigionieri aveva più alcun dubbio sul vero scopo del breve viaggio. Il gruppo degli ebrei giunto la mattina precedente era stato chiuso in un edificio del poligono di tiro, dopo aver obbedito, in preda all’orrore, all’ordine di scavare una fossa all’estremità del campo, la quale aveva chiaramente la funzione di ricevere i cadaveri dei giustiziati e che all’atto della misurazione risultò profonda settanta centimetri, lunga una decina di metri e larga cinque. Della loro esecuzione non si conoscono molti particolari; dalla deposizione dell’interprete meranese Karl Gutweniger, rilasciata dinanzi alla Corte d’Assise straordinaria di Bolzano il 3 agosto 1945, si desume che prima dell’esecuzione il Gutweniger diede lettura dell’ordine di fucilazione come rappresaglia per l’attentato partigiano che a Genova aveva provocato la morte di alcuni (forse sei o forse solo tre) marinai tedeschi e il ferimento di altri. I condannati furono condotti sul margine della lunga fossa e finiti con colpi esplosi alle loro spalle. | ||
Capita spesso di trovare in internet in cartelle di foto sul campo di concentramento di Fossoli fotografie di bimbi che sorridono e di intere famiglie. Nel primo caso sotto si tratta dei bambini di don Zeno, nel secondo del Villaggio degli Esuli Istriani S. Marco entrambi degli anni 50 che hanno trovato qui temporaneo alloggio. Evitiamo il cattivo esempio storico di parlare di campo di concentramento e mettere solo fotografie che non c'entrano nulla. Questo lasciamolo fare alla Rai nelle trasmissioni di Storia. |
Della fucilazione del secondo gruppo, del quale faceva parte Antonio, si conoscono i particolari, grazie alle testimonianze dei due sopravvissuti, Mario Fasoli ed Eugenio Jemina, i quali diedero vita alla ribellione, che coinvolse tutti i compagni, ma che consentì solo ai primi due di raggiungere la salvezza. Il secondo gruppo di 25, pertanto, fu fatto uscire dalla baracca n. 17, messo in fila e sorvegliato da due poliziotti italiani. Al sopraggiungere del camion di ritorno da Cibeno, dopo un’attesa di circa mezz’ora nel piazzale davanti all’uscita sulla strada Remesina, fu dato l’ordine di lasciare a terra i bagagli, di salire sul camion nella stessa posizione che era stata imposta al primo gruppo. Sul viottolo del poligono di tiro il camion procedette a fari spenti; il buio era assoluto, rotto solo di quando in quando dai fasci luminosi delle torce elettriche dei militari. I prigionieri furono fatti avanzare fino ad una montagnola che sorreggeva una staccionata e che delimitava il termine del campo utile per le esercitazioni di tiro a segno. | ||
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Mentre al di là nel buio più profondo, la raccapricciante fossa
aveva già accolto le prime vittime, furono fatti sedere a terra, ancora
con le gambe divaricate, e qui dovettero ascol-tare la lettura della
sentenza fatta dall’interprete Gutweniger, alla presenza del comandante Titho, del suo
autista Koenig, di un maggiore, del tenente Müller che era giunto da Verona
insieme a molte SS della Gestapo per eseguire la rappresaglia. Questa
volta i prigionieri avevano intuito la sorte che li aspettava: si ribellarono
gridando il loro rifiuto dell’assurda sentenza e si avventarono contro i loro
aguzzini, cercando di disarmarli. Il primo a dare il segnale della rivolta fu
Mario Fasoli; gli altri, dopo qualche momento di disorientamento, lo
seguirono. Eugenio Jemina si avventò contro il comandante Titho, gli sferrò un
pugno al viso e lo fece cadere a terra. Qualcuno si avvinghiò al collo dell’interprete cercando di disarmarlo. Ma dopo il primo smarrimento i tedeschi, sostenuti anche da militari russi, si riebbero e cominciarono la carneficina. I mitra spararono a lungo, fino a quando tornò il silenzio; nel buio, i militari si diedero a trascinare i poveri corpi per gettarli crudelmente, scompostamente nella fossa. Ma solo due, Fasoli e Jemina, riuscirono a trovare scampo tra gli olmi della campagna; dopo molto vagare furono soccorsi dai contadini ed affidati ai partigiani della zona. Fasoli, ferito, fu curato dal medico di Carpi. La macabra operazione programmata dai tedeschi fu portata a termine con lo sterminio dell’ultimo gruppo di 25 e con la solita procedura. I prigionieri, però, questa volta furono fatti partire ammanettati dal Campo. Il racconto dei due sopravvissuti fece sì che la notizia dello sterminio si propagasse e giungesse lontano; essa pervenne al comando generale del Corpo Volontari della Libertà, che la trasmise via radio ai centri di ascolto del Sud e degli Alleati. Nel luglio, due fogli antifascisti di Milano, l’Unità e l’Avanti, divulgarono il fatto, anche se in modo ovviamente impreciso e privo dei particolari che si riseppero solo qualche mese più tardi. |
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I nomi dei fucilati |
http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/023/018/pdf010.pdf l'armadio della vergogna | ||
1 Achille Andrea 2 Alagna Vincenzo 3 Arosio Enrico 4 Baletti Emilio 5 Balzarini Bruno 6 Barbera Giovanni 7 Bellino Vincenzo 8 Bertaccini Edo 9 Bertoni Giovanni 10 Biagini Primo 11 Bianchi Carlo 12 Bona Marcello 13 Brenna Ferdinando 14 Broglio Luigi Alberto 15 Caglio Francesco 16 Ten. Carioni Emanuele 17 Carlini Davide 18 Cavallari Brenno 19 Celada Ernesto 20 Ciceri Lino 21 Cocquio Alfonso Marco 22 Colombo Antonio 23 Colombo Bruno 24 Culin Roberto 25 Dal Pozzo Manfredo 26 Dall'Asta Ettore 27 De Grandi Carlo 28 Di Pietro Armando 29 Dolla Enzo 30 Col. Ferrighi Luigi 31 Frigerio Luigi 32 Fugazza A. Fortunato 33 Gambacorti Passerini A. 34 Ghelfi Walter |
35 Giovanelli Emanuele 36 Guarenti Davide 37 Ingeme Antonio 38 Cap. Kulczycki Sas Jerzj* 39 Lacerra Felice 40 Lari Pietro 41 Levrino Michele 42 Liberti Bruno 43 Luraghi Luigi 44 Mancini Renato 45 Manzi Antonio 46 Colonnello. Marini Gino 47 Marsilio Nilo 48 Martinelli Arturo 49 Mazzoli Armando 50 Messa Ernesto 51 Minonzio Franco 52 Molari Rino 53 Montini Gino 54 Mormino Pietro 55 Palmero Giuseppe 56 Col. Panceri Ubaldo 57 Pasut Arturo 58 Pompilio Cesare 59 Pozzoli Mario 60 Prina Carlo 61 Renacci Ettore 62 Gen. Robolotti Giuseppe 63 Tassinari Corrado 64 Col.Tirale Napoleone 65 Trebsé Milan/o 66 Vercesi Galileo 67 Vercesi Luigi |
A Milano, al principio dell’autunno, si sparse la voce dell’immane tragedia che si era abbattuta sulle vittime, molte delle quali erano milanesi ed erano arrivate a Fossoli transitando da S.Vittore. Si conosceva il numero dei condannati: settanta, si sapeva della suddivisione in tre gruppi e che quasi certamente uno solo era il superstite, poiché faceva parte di quel gruppo che aveva tentato la ribellione. Si sapeva che Antonio Manzi faceva parte del secondo gruppo, che aveva cercato tanto eroicamente quanto inutilmente di resistere; si diceva anche che egli fosse stato messo in condizioni di inferiorità a causa della rottura degli occhiali durante la colluttazione coi tedeschi. Si parlava di una lunga fossa che i tedeschi avevano disumanamente obbligato gli stessi condannati a scavare prima del supplizio. Si diceva che fra i martiri vi fossero parecchi ufficiali superiori, fra i quali anche “il generale Della Rovere” dell’esercito italiano che nessuno sapeva chi fosse. Solo dopo la fine della guerra si poterono sceverare i particolari veri da quelli nati come leggenda in un momento tanto straordinario. I compagni delle vittime, rimasti nel Campo, intuirono la verità di primo mattino, al ritorno dei tedeschi e degli ebrei. Alcuni tedeschi mostravano le ferite e le lesioni procurate loro dalla colluttazione; altri ostentavano cinicamente il frutto della loro macabra rapina: anelli, orologi, indumenti depredati ai poveri morti. A fine luglio il Campo fu sgomberato dai tedeschi, i quali trasferirono i prigionieri nei campi di sterminio dell’Austria, della Germania e della Polonia. Il silenzio cadde sul martirio dei “Settanta di Fossoli”. Le famiglie dei 67 realmente fucilati si macerarono nella disperazione, resa ancora più cupa dall’assenza di una qualsiasi testimonianza che squarciasse il buio degli ultimi istanti di vita dei loro cari. Solo nove mesi più tardi, a liberazione avvenuta, si venne a conoscenza dell’esatto luogo del supplizio e si poté pensare alla riesumazione dei poveri resti. Le operazioni di riconoscimento vennero attuate il 17 e 18 maggio 1945. I parenti, dopo un viaggio reso faticoso e lungo dalle difficili condizioni del territorio, devastato dalla guerra, poterono raggiungere il poligono di tiro a Cibeno. Dell’ubicazione della fossa era a conoscenza soltanto il vescovo di Carpi, Monsignor Dalla Zuanna: i tedeschi avevano provveduto ad occultarla facendo arare e seminare tutto il terreno circostante. Nessun segno di pietà religiosa contraddistingueva la grande tomba. Anche il padre di Antonio, il rag. Enrico Manzi, fu presente alla desolante e difficile operazione. Le salme erano state private di ogni oggetto personale di qualche valore. Nelle tasche della giacca di Antonio fu rinvenuta, e dal padre inconfutabilmente riconosciuta, l’armonica a bocca che gli era stata tanto cara e che lo aveva forse in qualche modo confortato anche nei giorni di detenzione a Fossoli. La pubblicazione ufficiale del Comune di Carpi smentisce che i fucilati del 12 luglio 1944 siano 67, bensì 66+1 !!!!. L’uno è Bertoni (più famoso per il titolo di "Generale della Rovere"(che volle darsi), per il quale lo stesso Ministero della Difesa ricevette richieste di cancellazione: *l'asterisco indica invece il capitano Cap. Kulczycki Sas Jerzj, italiano, che secondo molti era il vero "Generale" infiltrato al Nord, ma che non compare che nel 1959 negli scritti del giornalista Giuseppe F. Mayda http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/kulczychy.htm | |
FARLA FRANCA (grazie
all'ignoranza dei cittadini) "... quelle centinaia di milioni spesi negli anni Ottanta per i 35 progetti per Fossoli" che se fossero invece stati indirizzati a ricerche archivistiche avrebbero permesso di "... scoprire la verità sulla strage con un largo anticipo". |
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Titho e Haage non sono mai stati condannati. Sempre loro sono anche stati di recente scagionati dalla responsabilità della strage di Cibeno
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Il giorno 24 maggio 1945 Milano dal grande cuore accolse in un abbraccio accorato le vittime di Fossoli, che furono tumulate in un primo tempo al Cimitero Monumentale. Di esse, ben 23 erano milanesi. Più tardi le tombe, dal Monumentale, furono portate a Musocco, tutte riunite in un unico campo; sulla lapide di Antonio è stata posta la sua fotografia in divisa da alpino, sormontata da una scritta che in un primo momento lo definiva “Patriota”, più tardi mutata in quella di “Partigiano”. Negli anni seguenti un pesante silenzio cadde sull’eroico sacrificio dei Martiri di Fossoli, forse in qualche modo oscurati dalla rilevanza assunta dal ricordo delle moltissime altre stragi che avevano insanguinato l’Italia dal 1943 al 1945. Finita la guerra non fu applicato l’accordo che era stato stipulato fra gli Alleati all’atto dell’armistizio e che nell’ottobre 1943 riconosceva all’Italia lo status di cobelligerante e alla magistratura italiana la giurisdizione sui reati bellici. | ||
Le indagini sulla strage di Fossoli furono avviate in un primo tempo, ma presto si arenarono, così come tutte le altre riguardanti le stragi e i crimini di guerra. L’opportunità politica prevalse sul dovere di fare giustizia in memoria dei poveri morti e dello strazio delle loro famiglie. Anche i responsabili riconosciuti della strage (Wolff, Harster, Kranebitter, Gutweniger, Titho, Haage ma questi ultimi furono anche assolti), quantunque arrestati e incriminati, riuscirono ben presto a sfuggire alle maglie dei processi e a continuare indisturbati la loro vita fino alla fine naturale dei loro giorni. Il ricordo dei Martiri di Fossoli, tuttavia, non si estinse, specialmente nel territorio emiliano e lombardo, dove la loro memoria è perpetuata dal nome di alcune vie. A Sesto San Giovanni una via è intitolata ai Martiri di Fossoli. A Bergamo una via ricorda il sacrificio di Antonio Manzi, così come un bivacco alpino dell’alta Val Masino, a m. 2550, lungo un itinerario di escursioni alpine. A Milano, sotto la Loggia Mercanti, sono affisse due lapidi di bronzo coi nomi dei caduti per la libertà: fra essi quello di Antonio. Nel 1965, a vent’anni dal sacrificio, le due città di Milano e Bergamo onorarono Antonio Manzi, conferendo alla sua memoria due medaglie d’oro. A Milano la cerimonia di commemorazione avvenne il 12 luglio 1965 alla Piccola Scala, in via Filodrammatici; alla presenza del senatore Gianfranco Maris, il sindaco Bucalossi consegnò la medaglia alla famiglia. Quella di Bergamo, ora in possesso della nipote e figlioccia Elena Antonia Magnini, reca sul recto: “Bergamo ai caduti per la libertà”, e nel verso: “XX Anniversario della Resistenza 1945-1965”. L’11 marzo 2003 il Presidente della Repubblica C. A. Ciampi rende omaggio ai martiri visitando il campo di Fossoli. Gli fanno da guida il sen. Gianfranco Maris, presidente dell’Ass. Naz. ex Deportati e Amos Luzzatto, presidente delle Comunità Ebraiche Italiane. La famiglia di origine di Antonio Manzi si è dissolta ormai da circa un decennio. Ne tengono ora viva la memoria, insieme con il cognato Bruno Magnini, i nipoti che sono figli e figlie delle sorelle Angela e Rachele. Col loro ricordo i parenti superstiti intendono anche trasferire alle nuove generazioni l’impegno di perpetuare i principi spirituali e morali che portarono Antonio Manzi e i suoi compagni sulla ardua gloriosa via del sacri-ficio, in nome di una Patria libera e giusta. Noi vecchi ci troviamo oggi a vivere in un mondo che forse avevamo sperato migliore. Vorremmo poterci svincolare dal dubbio che opprimeva l’animo della Mamma di Antonio, quando, all’atto dell’ultimo saluto, disse: “Purché non sia caduto invano.” Jole Marmiroli | |||
Comandante del Lager di Fossoli poi di
Bolzano era l’SS - Untersturmführer Karl Titho (Sottotenente), coadiuvato da Hans Haage (maresciallo). Poco prima della liberazione tutta la documentazione
relativa al campo, compresi gli elenchi degli internati, venne distrutta. Non
si hanno quindi notizie certe sul numero dei convogli partiti dal capoluogo
altoatesino alla volta dei campi di Mauthausen, Flossenbürg, Auschwitz,
Ravensbrück, Dachau. L’ultimo convoglio lasciò Bolzano alla volta di Dachau
(ancora e ultimo attivo) il
22/3/1945.
A partire dal 29 aprile e fino al 3 maggio gli internati vennero rilasciati,
pare a seguito di trattative fra la CRI, esponenti
partigiani di Bolzano ed il comando del Lager; tutti i prigionieri ancora
presenti, il cui totale ammontava a circa 3.500 persone, ricevettero un Entlassungsschein firmato dal Lagerkommandant Titho e vennero condotti a
scaglioni fuori dalla città. Nel novembre 2000 un ex SS del campo - Michael
Seifert, oggi residente in Canada, è stato condannato all'ergastolo in
contumacia dal Tribunale militare di Verona per gli orrendi delitti compiuti a
Bolzano.
(dalla “VOCE” di Carpi del 29 luglio 2004 commento al libro di Paolo Paoletti "La strage di Fossoli: 12 luglio 1944 )- Il suo lavoro ha dunque solide basi documentarie. Ed è proprio per questo che risaltano ancora di più i bersagli polemici che Paoletti elenca all'inizio e alla fine del volume: la pubblicistica sul cosiddetto "armadio della vergogna" e la stessa istituzione della Commissione parlamentare sull'insabbiamento dei fascicoli sulle stragi nazifasciste, che avrebbero distolto l'attenzione dagli errori delle Procure militari che per sessant'anni hanno cercato le persone sbagliate e "sono andate dietro all'opinione pubblica o ai venti politici"; la Procura, in particolare, di Bologna che fra il 1946 e il 1948 aveva come unici ricercati Titho e i suoi sottufficiali e quella della Spezia che nel 1999 archiviò quelle accuse, senza ammettere che "fin dagli inizi si era sbagliato strada"; (sbagli per) tutti coloro che, da Demos Malavasi (sindaco della città) a Gianfranco Maris, dell'Aned, al senatore Luciano Guerzoni, alla giornalista Carmen Lasorella (in un servizio del Tg1 da Berlino) si sono ostinati nelle accuse a Titho, anche dopo il suo proscioglimento. La polemica di Paoletti coinvolge anche il Comune di Carpi preoccupato più di esecrare politicamente il fatto che di trovare la verita:"... quelle centinaia di milioni spesi negli anni '80 per i 35 progetti per Fossoli" che se fossero invece stati indirizzati a ricerche archivistiche avrebbero permesso di "... scoprire la verità sulla strage con un largo anticipo". Insomma, ne ha per tutti lo studioso che non ha mai nascosto di non aver ricevuto da Carpi gli appoggi e l'accoglienza che forse si aspettava. La strage fu ordinata dal comando delle SS di Verona e in particolare da Wilhelm Harster, Fritz Kranebitter, Karl Müller, Fritz Ehrke. Secondo Paoletti, la strage di Fossoli «è anche l'esempio più eclatante del mancato coordinamento tra polizia investigativa inglese e italiana negli anni 1945-48». Basti pensare che Ehrke venne rilasciato a Roma nel 1947, dopo aver sottoscritto una dichiarazione in cui ammetteva di avere partecipato al massacro del Cibeno e indicava i responsabili. Müller invece conservò (in tasca) fino al 1946 l'ordine di esecuzione ricevuto da Kranebitter. |