LA SECONDA 

GUERRA MONDIALE  

 

I CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER EBREI

L'internamento, il confino, il soggiorno obbligato in Italia 

Brani tratti da http://www.eclettico.org/israele/urbis/rudolf.htm Rudolf Bratuz (Bertossi Rodolfo) internato presso il campo di Urbisaglia

 

…. Gli storici, evidentemente, di fronte alla tragedia dei LAGER, hanno ritenuto di poco conto (o, quantomeno, di non primaria importanza) l'approfondimento delle condizioni di vita nei campi di concentramento fascisti (ndr: o al contrario “poiché abbiamo parlato di quelli tedeschi, è inutile che parliamo di quelli italiani che sono la stessa cosa direbbero questi). Uomini e donne di ogni età (cittadini jugoslavi o allogeni della Venezia Giulia) vennero deportati ed internati in massa per ridurre drasticamente l'appoggio popolare al movimento partigiano jugoslavo. Strappati ai loro affetti ed alle loro case, essi subivano il sequestro dei loro beni e venivano sottoposti alla violenza preventiva e punitiva dello stato fascista. Col procedere della guerra l'internamento interessò un numero sempre più alto di persone ed in alcuni campi la mortalità per fame e per stenti superò percentualmente quella che si ebbe nei LAGER nazisti ma non di sterminio. La ricerca di sedi idonee per l'internamento sarebbe durata sino alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia quando, in una circolare telegrafica inviata alle prefetture il 1 Giugno 1940, il Ministero dell'interno sintetizzò e ribadì tutte le norme predisposte negli anni precedenti assieme al Ministero della Guerra. Appena dichiarato lo stato di guerra si leggeva, tra l'altro, nella circolare dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolose sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l'ordine pubblico e commettere sabotaggi o attentati, nonché le persone italiane o straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l'immediato arresto. L'8 Giugno 1940, a soli due giorni dall'entrata in guerra dell'Italia, un'altra circolare, la n. 442/12267, emanò le "prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino" dando così uno degli ultimi ritocchi alla macchina dell'internamento ormai pronta ad entrare in funzione.

Ferramonti di Tarsia (Cs)

Il campo di concentramento di Ferramonti, situato in una stretta pianura in territorio di Tarsia nelle vicinanze del fiume Crati (in Calabria) prima che questo attraversando una stretta gola si immetta nella pianura di Sibari, fu aperto nel giugno 1940 per elementi considerati pericolosi nelle "contingenze belliche". I deportati sono però in maggioranza ebrei stranieri che non avevano ottemperato all’ordine di espulsione del ‘38 o profughi rifugiati in Italia nel primo anno di guerra da paesi ad influenza tedesca. Fra questi ebrei si trovavano due gruppi appartenenti al movimento sionista: il primo formato da 302 persone tra maschi e femmine provenienti dall’Austria, ma di diversa origine, giunti a Bengasi di Libia per proseguire su una nave bulgara: destinazione Palestina. Il loro viaggio si interruppe proprio nel giugno '40 e la nuova destinazione fu Ferramonti. ...

  ... Il secondo composto di 509 persone partite da Bratislava nel maggio del 1940 su una vecchia nave, il Pentcho, che attraverso il Danubio, il Mar Nero e il mediterraneo orientale cercavano di raggiungere ugualmente la Palestina. Ma un naufragio presso Rodi, isola italiana del Dedocanneso, li fece finire nelle nostre mani. Alcuni di loro trovarono la morte (naturale) nel campo e furono seppelliti nel cimitero di Tarsia dove ancora oggi si trovano le lapidi che li ricordano. Nell'Ottobre 1940, su un totale di 2.412 ebrei stranieri internati in Italia, più di 700 si trovavano a Ferramonti. Nell'Agosto del 1943, a circa un mese dalla liberazione del campo, Ferramonti ospitava ancora 1.604 internati ebrei e 412 non ebrei. A differenza di altri in locali di fortuna o presso abitazioni private al confino controllato quello di Ferramonti era stato costruito "ad hoc", con una struttura in baraccamenti e recinzioni in filo spinato. A Ferramonti gli ebrei, autotassandosi, costituirono pure un "Comitato di assistenza" o "assemblea dei delegati delle baracche" (forse l'unica organo di democrazia dell'Italia d'allora), che eleggeva al suo interno un rappresentante generale di tutti gli internati, il capo dei capi-baracca che forniva aiuto ai più bisognosi. Sempre gestiti dagli internati funzionarono una scuola, un asilo, un ambulatorio medico ed inoltre si svilupparono varie attività artistiche, culturali e religiose, sia ebraiche che cristiane. Frequenti aiuti giunsero nei vari campi da parte della organizzazione ebraica DELASEM e dalla "Mensa dei Bambini" di Milano, creata e diretta con grande abnegazione da Israele Kalk. Dall'estate del 1942, a tutti gli internati che lo avessero voluto fu consentito di lavorare per integrare le misere condizioni alimentari. A Ferramonti-Tarsia, in tre anni, morirono per malattia 37 persone; particolarmente frequenti erano la malaria, la tubercolosi e le malattie gastrointestinali e parassitarie. Le condizioni igieniche - come metteva in evidenza lo stesso ispettore generale - erano preoccupanti, poiché il campo, nonostante il parere contrario del medico provinciale di Cosenza, era stato costruito in una zona paludosa e malarica. La sottoalimentazione, l'umidità, l'assenza o l'insufficienza del riscaldamento, le carenze igienico- sanitarie: tutto questo segnalavano le ispezioni della Croce Rossa Internazionale (come si è visto gli stessi ispettori generali) per quasi tutti i campi da essa visitati. Il repentino arrivo degli Alleati permise la salvezza degli ebrei di Ferramonti e Campagna (Salerno): il campo di Ferramonti fu liberato dall'8a Armata inglese il 14 settembre 1943, anche se, in verità, già da alcuni giorni la gran parte degli internati aveva trovato rifugio tra la gente dei paesi e delle campagne vicine. Entro il mese di settembre circa 2.000 ebrei internati nei paesi e nei campi di concentramento dell'Italia meridionale si trovarono sotto la tutela delle truppe alleate . DELASEM sul campo di Ferramonti dichiara: "ll trattamento è sempre stato umano e comprensivo". Un gruppo di 350 detenuti a Ferramonti, insieme ad altri ebrei dell’Italia liberata, per un totale di 517, nel maggio del ‘44 partirono da Taranto alla volta della Palestina. Il resto rimase a Ferramonti fino alla fine della guerra, sotto egida inglese.  ( www.Archita-prog.taranto.it  ). L’unico rischio con gli inglesi era che ti rimandassero in Germania !!!! come era successo.

 

 

 

GLI EBREI

Propaganda antiebraica in Italia. Oltre che essere  guerrafondai sembra che siano anche un  po' comunisti, cosa che a sinistra si nega recisamente

Yad Vashem

  Si trattava, per la gran parte, di ebrei antifascisti già condannati dal Tribunale speciale, di ex confinati ed ammoniti o di militanti dei partiti dell'Italia prefascista che avevano svolto attività politica e sindacale nel primo dopoguerra (ndr: in questo il trattamento non era dissimile dai non ebrei). Centinaia di Ebrei continueranno a  vivere a casa loro. L'8 settembre del '43 se i tedeschi li avessero trovati tutti in un posto sarebbe stato più facile. Nel maggio 1940 (alla vigilia della guerra) due circolari telegrafiche del Ministero dell'Interno invitarono le Prefetture a far pervenire "gli elenchi degli ebrei italiani da internare". L'elemento "razza", però, non costituiva condizione sufficiente per il loro internamento: gli ebrei italiani, alla stregua degli altri cittadini, venivano colpiti dal provvedimento solo se ritenuti pericolosi per motivi politici e sociali (circolavano per l'Italia e non era proibito loro l'associazionismo umanitario nei confronti degli ebrei del resto d'Europa che erano poi quelli per la gran parte in mano ai tedeschi). Questo principio, a parte casi molto isolati, sarebbe stato rispettato e gli ebrei, in effetti, sarebbero stati internati solo se appartenenti, o sospettati di appartenere, alle file antifasciste. Gli ebrei stranieri costituivano per  legge una categoria distinta tra le altre persone da internare. Del resto l'internamento degli stranieri, di qualunque nazionalità non alleata e di qualunque religione, era ufficialmente motivato da parte dell'Italia dal desiderio di garantire la propria sicurezza interna e quella militare, così come avveniva in Gran Bretagna, in Francia e in tutti gli altri stati belligeranti sin dall'inizio del conflitto (poi anche negli Usa) nei confronti degli immigrati di origine italiana, tedesca e giapponese da poche generazioni. Prima di entrare nei dettagli dell'internamento degli ebrei stranieri, è bene ricordare brevemente la loro condizione in Italia, soprattutto dopo che, nel 1938, il fascismo intraprese la scelta antisemita. L'ingresso ed il soggiorno in Italia degli ebrei provenienti da paesi dove era in vigore la discriminazione razziale, erano stati per lungo tempo consentiti da Mussolini (fino al 38). Persino dopo l'ascesa al potere del nazismo quando, col repentino inizio della persecuzione, molti ebrei cominciarono ad abbandonare la Germania, tale situazione venne mantenuta  (a condizione che non si trattasse di persone che operassero contro il fascismo) ed ostentata dal Duce quale dimostrazione della "universalità di Roma" e della propria "superiorità culturale" nei confronti di Hitler. Con l'inasprirsi della persecuzione nazista e l'estendersi della legislazione razziale di Norimberga ai paesi caduti sotto il giogo del regime hitleriano, l'emigrazione ebraica verso l'Italia proseguì sempre più numerosa. Ma la situazione dei profughi, sino ad allora abbastanza buona, cambiò improvvisamente nell'autunno del 1938, quando anche in Italia venne emanata la legislazione razziale. Il decreto legge 7 Settembre 1938 n. 1381 (Provvedimenti nei confronti di ebrei stranieri) e quello n. 1728 del 17 /11 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), stabilivano che tutti gli ebrei stranieri entrati nel regno posteriormente al 1 Gennaio 1919 dovessero lasciare il paese entro 6 mesi, pena l'espulsione o l’internamento. Al tempo stesso venivano revocate tutte le cittadinanze italiane concesse ad ebrei dopo il 1/1/1919 

http://www1.yadvashem.org/visiting/planning_visiting.html

IL CASO DI VILLA EMMA

Che Hitler ce l’avesse con gli ebrei non era un mistero e molti di questi li trovava non solo in Germania(dove per la verità erano pochi) ma nei paesi dell’est che si apprestava a conquistare (vedi Polonia ma non solo). Molti ebrei polacchi ignari delle teorie naziste erano nel tempo emigrati in Germania mantenendo la cittadinanza polacca che ora per loro (nel 1939) diventava una etichetta di nemico. La qualifica di nemico a un paese occupato cessa solitamente dopo che viene nominato il solito governo fantoccio collaborazionista e quindi non c’era motivo di perseguire gli ebrei polacchi in maniera diversa da quelli tedeschi. Al massimo poteva ordinarne il rimpatrio, ma le cose nella realtà non sarebbero cambiate molto,  avevano ben altro in mente e la soluzione finale sarebbe scattata con l'invasione della Russia 2 anni dopo. L’ordine era invariabilmente quello di arrestare e deportare in campo di concentramento tutti gli ebrei maschi polacchi di età superiore ai 16 anni ancora presenti in Germania. Dal provvedimento restavano fuori i bambini di cui nessuno poteva ipotizzare il futuro. Migliaia di “orfani” quindi finirono assistiti dalle organizzazioni ebraiche tedesche. Le donne e i bambini, soprattutto quelli rimasti a Berlino, poterono contare sull’aiuto di una nota sionista, Recha Freier. Una soluzione ancora parzialmente percorribile era l’espatrio più o meno legale già attuato negli anni prebellici. Era la fine dell'inverno del '41 quando la Freier con un gruppo clandestino entrava in Jugoslavia (Regno Yugoslavo) nella Croata Zagabria con 41 ragazzi diretti in Palestina. In pochi giorni, a seguito degli eventi scatenati dagli Italiani in Grecia, la Germania decideva la conquista anticipata e non prevista di tutti i balcani (aprile). Il subentrante governo pangermanico croato di Ante Pavelic (ustascia), non era d'opinione diversa da Berlino e il destino dei ragazzi ebrei era segnato.

 

- ANNI IN FUGA - di Josef Indig Ithai dalla prefazione a cura di Klaus Voigt

A Villa Emma, a Nonantola, vissero per oltre un anno fino a 73 ragazzi ebrei, fuggiti dalla Germania, dall’Austria, dalla Jugoslavia, e in un caso dalla Polonia, per sottrarsi alle persecuzioni dei nazisti e dei fascisti croati, gli ustascia. La maggior parte dei ragazzi era originariamente diretta in Palestina. Sorpresi a Zagabria nell’aprile 1941 dall’arrivo delle truppe tedesche, i ragazzi non poterono però proseguire il loro viaggio verso la Palestina. Dopo l’inizio della persecuzione degli ebrei nello Stato indipendente di Croazia, 42 ragazzi si rifugiarono nella Slovenia meridionale, annessa dall’Italia, dove trovarono alloggio per un anno in un castello di caccia a Lesno Brdo, a ovest di Lubiana, ricevendo aiuti dalla Delasem, l’organizzazione assistenziale degli ebrei italiani.
La guerra partigiana in Slovenia costrinse il gruppo a trasferirsi nuovamente **. Nel giugno 1942 (si tratta invece di Luglio) i ragazzi giunsero dunque a Nonantola, dove la Delasem aveva affittato per loro Villa Emma, una spaziosa costruzione alla periferia del paese. I ragazzi e le ragazze, i più grandi avevano 18 anni,  furono accolti con cordialità dagli abitanti di Nonantola, e col tempo, malgrado le loro uscite fossero limitate in considerazione delle leggi razziali italiane, nacquero numerose amicizie tra loro e i coetanei del luogo. La Delasem *continuò a provvedere ai loro bisogni più essenziali. Le loro attività giornaliere comprendevano non soltanto lezioni di tipo scolastico, ma anche l’addestramento al lavoro agricolo, nonché a quello artigianale, impartito in un laboratorio di falegnameria, come preparazione alla vita in tmn kibbutz in Palestina. Nell’aprile 1943 si aggiunsero al gruppo altri 33 ragazzi e ragazze provenienti da Spalato, che dai territori sotto occupazione tedesca erano fuggiti sulla costa dalmata annessa dall’Italia.
Dopo l’annuncio dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati, l’8 settembre 1943, gli accompagnatori e anche molti dei ragazzi si resero subito conto che era imminente l’occupazione tedesca e che, se fossero restati a Villa Emma, la loro vita sarebbe stata in pericolo. Già il
giorno dopo, quando le truppe tedesche erano ormai a Nonantola, i più piccoli vennero accolti nel seminario adiacente all’abbazia, nel centro della città. I più grandi trovarono rifugio presso famiglie del luogo, in un raggio di 3/4 Km da Villa Emma. In tal modo i militari tedeschi e la polizia tedesca non avrebbero potuto mettere le mani sui ragazzi, andando a colpo sicuro. Se però si fosse arrivati a una vasta azione di rastrellamento, che non avrebbe certo rispettato neppure gli istituti religiosi, questi nascondigli non avrebbero potuto offrire loro una protezione assoluta. La via di fuga verso sud non era più percorribile, essendo ormai evidente che l’avanzata degli Alleati era bloccata a nord di Napoli. Restava dunque soltanto la fuga in Svizzera. Questa fu effettuata tra il 6 e il 17 ottobre (1943), con i ragazzi divisi in gruppi, guadando al buio il fiume Tresa, che segnava il confine, nei pressi di Ponte Tresa. Se fossero stati catturati dalla polizia confinaria tedesca, ciò avrebbe significato la deportazione in un campo di sterminio. Dopo un’iniziale incertezza il governo svizzero concesse ai ragazzi il permesso di soggiorno. La maggior parte di essi, dopo essere stata temporaneamente internata, venne accolta in un istituto sionista a Bex, nella vallata del Rodano, da dove alla fine del maggio 1945 raggiunsero la Palestina, con il primo convoglio in partenza dalla Svizzera.

Josef Ithai, l’autore di queste memorie, si chiamava originariamente Indig. Assunse il nome ebraico solo dopo essere giunto in Palestina, e nel testo che segue, per volontà della vedova, sarà sempre indicato con il doppio cognome. Per quanto a Nonantola gli fosse stato messo a capo un direttore nominato dalla Delasem, e a Bex l’istituto fosse diretto da un sionista svizzero, rimase sempre l’anima del gruppo, colui che svolgeva una vera e propria opera educativa, e che nel momento del pericolo dimostrò risolutezza e al tempo stesso prudenza. Indig Ithai era nato nel 1917 nella cittadina croata di Virovitica, vicino al confine ungherese, ed era cresciuto a Osijek, dove suo padre era cantore della sinagoga. In famiglia si parlava tedesco. A Osijek frequentò la scuola elementare ebraica, la scuola media pubblica e il liceo, conseguendo la maturità. Influenzato dalla sorella maggiore, convinta sionista, all’età di nove anni aderì all’associazione giovanile sionista Ha-Shomer ha-Tza’ir (La giovane guardia), di orientamento laico e socialista, ma al tempo stesso nettamente contraria all’assimilazione. Indig Ithai rimase sempre legato allo Ha-Shomer ha-Tza’ir: a quattordici anni era mertahel, col compito di guidare un gruppo di ragazzi più piccoli, a venti ma.drich, cui era affidato il gruppo locale di Osijek, e poco dopo divenne membro della direzione nazionale per la Jugoslavia a Zagabria. Dopo la maturità rinunciò all’università e iniziò un apprendistato come meccanico di automobili, allo scopo di imparare un mestiere utile per la vita in Palestina che aveva scelto come sua futura residenza. Nel suo tempo libero era un appassionato lettore di autori contemporanei in lingua tedesca e ascoltava di preferenza musica moderna….   1945 Palestina: Inizialmente fu addetto a badare al bestiame. Poi poté studiare in un istituto magistrale, divenendo insegnante, e in seguito direttore didattico nella scuola del suo kibbutz. Per alcuni periodi lavorò a Tel Aviv, in corsi di aggiornamento per insegnanti e nella direzione dello Ha-Shomer ha-Tza’ir. Fu decorato dallo Stato di Israele per i suoi meriti pedagogici. E morto nel 1998 all’età di ottantun’anni nel kibbutz Gat ed è sepolto nel piccolo cimitero del kibbutz. Indig Ithai redasse le sue memorie in tedesco, nell’autunno del 1945, subito dopo il suo arrivo a Gat. L’edizione ebraica uscì solo nel 1983, con una prefazione di Recha Freier e numerose fotografie, presso la casa editrice Sifriat-Moreshet di Tel Aviv, con il titolo già scelto per la prima versione in lingua tedesca: Yaldei Villa Emma (I ragazzi di Villa Emma).

     

 

“era giusto così, non c’era altro da fare”

http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri55.htm IL LIBRO ANNI IN FUGA - di Josef Indig Ithai
I Ragazzi di Villa Emma, film-documentario di Aldo Zappalà, prodotto da Village Doc&Films e RaiEducational in collaborazione con la Fondazione Villa Emma, con il patrocinio e contributo del comune di Nonantola, provincia di Modena, assemblea legislativa della regione Emilia e Romagna, Emilia-Romagna Film Commission e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena è stato trasmesso su Raitre il 12 novembre 2008, nella rubrica "La Storia Siamo Noi" di Giovanni Minoli lastoriasiamonoi@rai.it  - http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/index.aspx  Per le inesattezze riportate e le manchevolezze è stata fatta segnalazione a Giovanni Minoli responsabile della trasmissione. Penso che il parere del giornalista sia che non gliene frega niente.

     

Don Beccari

  *La DELASEM (Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei) nacque il 1º dicembre 1939 come associazione autorizzata dal governo fascista, per iniziativa di Dante Almansi e dall'avvocato genovese ebreo Lelio Vittorio Valobra per la distribuzione di aiuti economici e l’assistenza agli ebrei internati o perseguitati. Dopo l’8 settembre 1943 e l'occupazione tedesca la DELASEM si frammentò in sezioni isolate che entrarono in clandestinità. Poteva prima e dopo contare sul sostegno di molti cattolici e di molte delle gerarchie periferiche della chiesa. Si calcola che nel solo periodo bellico la DELASEM sia stata capace di distribuire aiuti per più di 1.200.000 dollari, di cui quasi 900.000 provenienti dall'estero (Svizzera). Dopo l'occupazione di Parigi fu la Svizzera infatti a fare da collegamento fra la DELASEM e le organizzazioni di beneficenza internazionali extraeuropee. La collaborazione tra l'ebreo Massimo Teglio e il card. Pietro Boetto fece sì che la Curia genovese funzionasse a tutti gli effetti come la centrale per la distribuzione degli aiuti nell'Italia del Centro-Nord anche dopo l’8 settembre.  http://it.wikipedia.org/wiki/DELASEM da ANNI IN FUGA di Josef Indig Ithai: A causa della intensificazione dei bombardamenti (conseguenti alla perdita dell'Africa Sett.) su Genova la sezione per l'assistenza agli internati venne trasferita a Nonantola " la nostra gente viveva isolata e sparsa in numerose località in tutta Italia. Vivevano in attesa di notizie. Gli anziani che avevano avuto un passato decoroso, vivevano la loro condizione di profughi come un'umiliazione"

Villa Emma, tra le più belle residenze ottocentesche dell'Emilia, fu costruita alla fine dell’800 da un ricco ebreo, Carlo Sacerdoti, per la moglie Emma Cohen, che, però, mai l’apprezzò. Abbandonata da anni venne arredata con brandine prese dal seminario e riattivata la cucina. Una stanza fu anche trasformata in sinagoga. E’ un grande edificio quadrato con due lunghe ali laterali sul retro. Un’ampia, elegante scalinata dà accesso alla casa attraverso una porta a vetri. Sul loggiato d’ingresso vi sono imitazioni di colonne in stile greco, con decorazioni rinascimentali, Tutto è luminoso, arioso, lineare. Sopra il loggiato d’ingresso, al primo piano, vi è una seconda loggia con belle decorazioni. Le due ali laterali delimitano un cortile lastricato, al centro del quale vi è un’aiuola fiorita. In fondo alle ali laterali il cortile è chiuso da un muro con un cancello di ferro. All’interno della casa regnava una sporcizia incredibile, come se da decenni non fosse stata toccata da mano umana. In un angolo erano rintanati alcuni ebrei di Bengasi. ***

Don Arrigo Beccari (foto sopra), nato nel 1909 e morto il 27 dicembre 2005, e il medico Giuseppe Moreali sono stati in seguito onorati nello Yad Vashem per l'aiuto coraggioso e generoso da loro prestato, ed è stato loro dedicato un albero nel Viale dei Giusti.

  da ANNI IN FUGA di Josef Indig Ithai I ragazzi di Villa Emma a Nonantola a cura di Klaus Voigt. Giunti Editore. L’edizione del libro è stata promossa dalla Regione Emilia Romagna

*** Erano un vecchio con una nipote e la figlia di quest’ultima, e una donna con due bambine, tutti con passaporto britannico. Arrestati nell’aprile del 1942 in Libia come “stranieri nemici”, erano stati deportati in Italia. Saranno quelli che procureranno più guai al momento della "evasione"

 

I giudizi dei ragazzi sulla casa erano contrastanti. Le stanze erano magnifiche, ma molti erano disgustati per la sporcizia. E davvero non era stato predisposto niente! Di chi era la colpa? «Abbiate pazienza!», ci dicevano i nostri amici, «e non cominciate a mugugnare prima di non aver fatto voi stessi qualcosa per sistemare la casa!». Passati alcuni giorni, continuavamo a essere avviliti. A che serve una casa bellissima, se si pensa di dover continuare per molto tempo a dormire sulla paglia? Eravamo pigiati in due stanze, i maschi in una, le femmine nell’altra. Non c’era altra soluzione. E meno male che era estate, perché i pavimenti di pietra erano freddi. Non eravamo riusciti a ottenere delle coperte, e i nostri bagagli da Lesno Brdo ancora non erano arrivati.
-Per circa un mese le cose andarono avanti così: alzarsi, ramazzare la paglia nelle stanze, lavarsi a una pompa davanti al portone, mangiare in trattoria. Poi magari si teneva un’assemblea, per discutere di qualcosa, e dopo si bighellonava per il paese. La popolazione ci osservava con stupore dalla mattina fino alla sera. Ogni giorno nascevano nuove amicizie tra i nostri compagni più grandi e i ragazzi del paese, che erano inquadrati nei balilla. Ci portavano regali, che dovevamo accettare. Ogni tanto Gino Friedmann, il rappresentante della Delasem a Modena, veniva a farci visita e si informava di come stavamo. Soltanto nelle ore serali, quando cantavamo seduti tutti insieme sui gradini, e la popolazione non ci fissava più a bocca aperta, avevamo ancora la sensazione di formare un collettivo.

Ad attenderli a Villa Emma il 17 Luglio 1942 un direttore, Umberto Jacchia nominato da Delasem e diversi educatori Josef Indig, Marco Schoky e il pianista Boris Jochverdson che permisero loro (a quelli più giovani) di avere anche una regolare istruzione di base. Altre attività come falegnameria e sartoria avevano luogo coi conduttori della grande tenuta (7 ettari). I contatti con la popolazione locale erano resi difficili dalle limitazioni volute dalla Questura di Modena e dalla stessa Delasem che non voleva che questo caso particolare assurgesse agli onori della cronaca e portasse a una revoca. Ciò nonostante le maglie della sorveglianza erano larghe. I bambini venivano regolarmente visitati dal medico condotto Giuseppe Moreali e dal parroco Don Arrigo Becccari che insegnava lettere. Nell'aprile del 1943 si aggiunge un secondo gruppo di 33 piccoli ebrei provenienti da Spalato. In tutto, 73 ragazzi, dai 6 ai 21 anni. La situazione cambia radicalmente dopo l'8 settembre 1943 con l'occupazione tedesca dell'Italia e l'arrivo stabile di truppe tedesche (Le SS si installano a Carpi al vicino campo di concentramento). Villa Emma viene abbandonata in meno di 48 ore e le ragazze e i ragazzi trovano rifugio nel seminario dell'Abbazia, accolti e curati da don Arrigo Beccari, e nelle case dei contadini, degli artigiani e negozianti dei dintorni. Per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi si organizza la fuga in Svizzera raccontata sotto
Solo uno dei ragazzi, Salomon Papo, ammalatosi di tubercolosi e ricoverato nel sanatorio di Gaiato di Pavullo, sull’Appennino modenese, non riuscì a fuggire. Il suo nome si ritrova nell'elenco di un convoglio per Auschwitz d cui non tornerà. Non tornerà anche Goffredo Pacifici, quarantenne genovese che si occupò del magazzino di Villa Emma e fu l’accompagnatore al confine: rimase in Italia per far espatriare altri gruppi di ebrei e venne catturato dai tedeschi.

** Alla fine di ottobre del 1941 venne dato l'ordine alle forze partigiane di avviare azioni più incisive contro gli occupanti. Con alcune azioni militari (Lož, 19 ottobre 1941, il ponte di Preserje, 4 dicembre 1942 e il viadotto ferroviario di Verd, 2 febbraio 1942), mirate soprattutto a recidere tutti i collegamenti ferroviari e stradali di Lubiana con l'Italia, la resistenza in Slovenia dichiarò una lotta senza quartiere all'esercito di occupazione italiano. Le reazioni dei comandi militari italiani non si fecero attendere. Il generale Mario Robotti, con grande conoscenza delle tecniche dell'antiguerriglia, di fatto decimò le forze partigiane in campo. Ma i rastrellamenti continui, accompagnati da violenze indiscriminate verso i civili, crearono un grande malcontento, che la resistenza slovena sfruttò per ingrossare le proprie fila. Robotti constatò che le azioni non erano affatto cessate e di conseguenza dichiarò “zona di guerra” tutta la Provincia di Lubiana....Tuttavia, nella primavera del 1942 la resistenza slovena controllava vaste zone liberate dagli occupanti. Il generale Robotti, non vedendo altra soluzione, si appellò nuovamente a Mussolini per poter sferrare un attacco contro le forze partigiane. Questo progetto fu chiamato “Operazione Primavera”. Il Duce da Gorizia diede il suo assenso all'impiego in Slovenia di 80.000 soldati provenienti dal fronte Balcanico. Nell'accerchiamento delle zone liberate furono usate unità dei “Cacciatori delle Alpi”, della “Divisione Macerata”, dei “Granatieri di Sardegna” e della Guardia alla frontiera. Per tutta l'estate del 1942 su un territorio di circa 3.000 chilometri quadrati a sud di Lubiana si svolse una vera e propria guerra. Robotti fece molta fatica per convincere i suoi generali a dimenticare le basi etiche del loro mestiere. Ai suoi ufficiali fece l'esempio del “generale Fabbri che non batté ciglio dando l'ordine di passare per le armi un gruppo di 150 civili nella valle della Kolpa”.

   
  Pag 255 e segg- Si fa sera. Ci attendono tre ore di faticosa marcia. Ci mettiamo in cammino. Fintanto che non siamo vicino al confine possiamo parlare tra di noi a bassa voce. Attraversiamo le montagne. I ragazzi vanno avanti bene, ma il vecchio di Bengasi ci vede male, inciampa, incespica, chiama ad alta voce la figlia. Lei gli strilla di non urlare. Pietro è disperato e non vuole proseguire. L’intero gruppo è in pericolo. Hanna, la nostra samaritana, prende per mano il bengasino e lo guida. Pietro e io decidiamo di prendere insieme a una parte del gruppo la via più breve ma più rischiosa per il confine, in modo da farci arrivare il vecchio più rapidamente. Gli altri proseguono con il secondo contrabbandiere che ci accompagna. A destra c’è la Svizzera. Il Tresa, un fiume non ampio, ci separa da essa. Sotto una collina che sovrasta la zona ci sediamo per terra e aspettiamo gli altri. Tutto tace. In questo momento, nell’oscurità, quanti altri ebrei, quanti italiani, quanti inglesi staranno attraversando il confine come noi? A un tratto si sente lo scricchiolio di rami e il fruscio di foglie secche. Arrivano gli altri. Felici di esserci ritrovati, saliamo insieme sulla collina. Il vecchio è più tranquillo, si limita a borbottare tra sé di tanto in tanto. Dobbiamo aspettare che le guardie di frontiera tedesche vadano all’osteria. Stiamo seduti in fila, uno accanto all’altro. In questo momento ripenso al passato, ai tre anni insieme al gruppo, alle tante speranze e delusioni. Più a valle, lungo il confine, è stata eretta una lunga palizzata, cui è appesa una fila di campanelle. Quando soffia il vento, si sentono tintinnare lievemente. Come risuoneranno, però, quando verranno sfiorate quaranta volte? E l’acqua? Non sarà troppo profonda e impetuosa? E i bambini piccoli? Ce la faranno a passare? Il mormorio dell’acqua copre tutti gli altri rumori, I contrabbandieri hanno scelto questo punto perché qui non si sente niente. Un italiano in uniforme apre un cancello nella staccionata del confine. Gli diamo 5000 lire, ma ne vuole di più. Ne riceve altre 500. Viene formata una catena umana di quaranta elementi, un piccolo tra due grandi, una ragazza tra due ragazzi. La catena non si dovrà spezzare fino alla sponda svizzera. Ai più grandi l’acqua arriva fino alle ginocchia. La corrente è forte e può anche travolgere qualcuno. E infatti, è già successo! «Hanna, alzati!». «Lasciami, voglio restare qui!». Senza pietà la tiro per i capelli. Si alza ed è di nuovo pienamente sveglia. La catena si spezza subito. Bisogna andare avanti, avanti! I ragazzi combattono da soli contro la corrente, si aiutano l’un l’altro. Dietro a me sento una voce: «Non ce la faccio più! Voglio tornare indietro!». «Papà, no, ti prego, lì ci sono i nazisti!».
Il figlio tira a sé il padre, lo trascina, lo spinge. Il padre cade in acqua, il figlio lo tira su. Anche una ragazza cade in acqua e perde la sua borsa. Ma adesso ci sono cose più importanti che qualche vestito! A un tratto il bengasino si mette a invocare aiuto ad alta voce. La figlia urla come un’isterica: «Venite ad aiutarlo, cani, altrimenti strillo ancora di più!». Qualcuno vuole correre da lui, ma io lo vieto e lo trattengo. Il vecchio ce la farà da solo con la figlia. E alto, e l’acqua non è poi tanto profonda. La lotta contro la corrente dura sette interminabili minuti. Sette volte sessanta secondi irti di pericoli. Siamo giunti sulla sponda svizzera del fiume e ci arrampichiamo su una specie di molo. Il piccolo Moric scivola e cade in acqua accanto a me. Lascio cadere la mia valigia e afferro il suo corpicino. Nel far questo io stesso cado in acqua e mi bagno. Non importa! Moritzel sta accanto a me sul molo e si mette a piangere. «Ssst, perché piangi?». «Hai perso la valigia per colpa mia!». Dolce piccolo! Lo stringo a me. La tensione si allenta. Sulla sponda ci sono soldati. Dio, mio Dio, ma sono tedeschi! Ci puntano addosso i fucili, Siamo come paralizzati. Siamo stati traditi! Ci hanno mandato tra le braccia dei tedeschi! Ma no, sono svizzeri! Le uniformi sono quasi uguali. La Svizzera! Adesso siamo liberi! Dico ai soldati: «Il governo svizzero è stato informato che oggi avremmo attraversato il fiume presso Ponte Tresa! ». I ragazzi vorrebbero abbracciare i soldati. Questi non capiscono la nostra felicità e rimangono freddi e riservati. Non riusciamo neppure a immaginare che qualcosa non vada per il verso giusto. La gioia è semplicemente troppo grande! Ci portano a una stazione di frontiera. Entra un ufficiale. Gli dico: «Le autorità federali hanno acconsentito alla nostra venuta. Ci è stato detto di fare riferimento a D., della legazione jugoslava». Il capitano mi ascolta senza batter ciglio. «Sì, questo lo dicono tutti», replica e sparisce di nuovo. Cosa significa? C’è qualcosa che non va? Tento di contattare Nathan e la Jewish Agency a Ginevra, ma non mi viene permesso. Quella notte stessa veniamo condotti in un piccolo campo di internamento poco lontano. Lì dovremo attendere che si decida se saremo mandati nell’interno del paese o rispediti oltre confine in Italia. Tornare indietro sarebbe la morte!
   

Comune di Senigallia

  Robert e io spieghiamo a un cortese tenente, un commerciante di Zurigo, che deve arrivare anche un secondo gruppo, e che ci deve essere un equivoco. Non appena Nathan sarà avvertito, tutto si chiarirà. «Ma da qui i profughi non possono contattare nessuno! Capisco, lei vorrebbe parlare con il signor Schwalb». Il telefono è accanto a lui. «Purtroppo è vietato!». Siamo tutti molto avviliti. Dopo tutte le paure e le angosce che abbiamo passato, vogliono davvero rimandarci indietro? . Agli svizzeri piaceva come era organizzato il nostro gruppo. Non dovevano occuparsi di niente. Robert provvedeva a tutto. I ragazzi si mantenevano disciplinati. Venne a vederci una signora della Croce Rossa. La pregai di avvertire Nathan. «Cosa le salta in mente? E vietato! Tutto si sistemerà! E poi, i tedeschi mica vi mangiano!».
E Yom Kippur. Nessuno di noi digiuna, neppure quelli praticanti. Ma verso sera tutti si riuniscono spontaneamente per la neila. E una preghiera di ringraziamento, prima ancora che la nostra salvezza sia stata decisa. Gli ufficiali svizzeri assistono in silenzio. Passa un altro giorno colmo di incertezza. Nel pomeriggio il comandante ordina che il nostro gruppo si riunisca nella sala. Il tenente con la simpatica faccia da commerciante zurighese viene ad avvertirci: «Pare che si metta male! Andate subito tutti nella sala!». Si è affezionato a noi. La notte scorsa contavamo sull’arrivo del secondo gruppo, ma non si sono visti. Il tenente aveva dispiegato i suoi soldati lungo il Tresa per aspettarli e aiutarli. Aveva preparato per loro tè e pasticcini. Stringendoci l’uno con l’altro entriamo nella sala. Alex è al mio fianco. Sento che le forze mi abbandonano, la testa mi gira: non sarebbe la prima volta che gli svizzeri mandano indietro degli ebrei! Il capitano entra con espressione imperscrutabile. Mi sento venir meno. Parla di leggi federali, autorità federali, polizia, consultazioni. Il suo volto resta impassibile. E poi l’ultima, decisiva frase: «In considerazione di tutte queste circostanze e delle consultazioni che hanno avuto luogo in questi giorni, l’autorità centrale della confederazione svizzera ha deciso che loro, signore e signori, possono restare in territorio svizzero».
Come? Dunque sì? Adesso il comandante sorride. Perché ci ha tormentato così a lungo? Possiamo restare! Alex, buon AlIex! Alcuni singhiozzano dalla gioia. Si sente piangere e ridere. Tutti si sentono vicini gli uni agli altri. Siamo salvi!
    (1940- 1943)

Nessuno veniva affamato, torturato, ucciso o maltrattato - ha scritto un ebreo apolide internato a Tortoreto - ma, pur tuttavia, eravamo privati della libertà... L'incertezza e l'inutilità della nostra situazione, la totale mancanza di qualsiasi prospettiva, la noia di quell'esistenza, s’insinuavano giorno dopo giorno tra le pieghe dell'animo. Eravamo come sospesi nel nulla".

Ancora un ebreo tedesco, internato a Casoli, così si esprimeva nel 1940, scrivendo al fratello in Sud America:"Viviamo ora in un periodo critico, e non si può sapere se ne uscirò vivo... Io sono in buona salute e non posso lamentarmi. Se si potesse attendere qui la fine della guerra, sarebbe già una buona cosa, ma non si sa cosa possa ancora succedere. . . " .

Il peso dell'ambiguità ha sinora gravato sul giudizio storico relativo all'internamento fascista. I campi di concentramento italiani per ebrei, infatti possono essere considerati sia "anticamera della libertà" che "anticamera della morte”

I campi di concentramento italiani per gli ebrei, come abbiamo visto, a parte il nome "lager" = "magazzino" in tedesco  (Dal punto di vista ideologico era quindi considerato un deposito analogamente ai Glavnoye upravleniye lagerey, i gulag sovietici), non ebbero granché in comune con i campi nazisti (che loro siglavano KZ e dove gli uomini erano pezzi in deposito ne più ne meno).

  Una volta completato il piano operativo, scattarono le retate che portarono nei campi circa 5.000 ebrei stranieri "appartenenti a Stati che fanno politica razziale" e per gli apolidi "elementi indesiderabili imbevuti d'odio contro i regimi totalitari".. Alle donne e ai bambini veniva intimato invece di recarsi, entro un lasso di tempo stabilito, alla prefettura della provincia destinata al loro "internamento libero" o "confino", che consisteva nel domicilio coatto, in appositi comuni. Le zone scelte erano di solito in collina (non in grandi città) nell’Italia centrale e meridionale. A favore di tale scelta, probabilmente, influivano anche altri motivi, quali la scarsa concentrazione abitativa e la minore politicizzazione degli abitanti; gli stessi motivi, del resto, che avevano indotto il regime, già dal 1926, ad inviare nelle zone povere del centro-sud anche i confinati politici. La dislocazione verso il sud, con la minaccia che gli americani sbarchino dopo El Alamein (ma la guerra in Africa finì nel Maggio del '43 e vennero in luglio), creò difficoltà nell’autorità centrale che dovette procedere ad una lenta migrazione al nord, ma anche una fortuita occasione di salvarsi nelle mani degli alleati. Mentre nel 1940 le strutture di tutte le detenzioni erano dislocate in 20 province del centro-sud, nel 1943 esse interessavano ben 28 province del settentrione, 18 del centro e soltanto 8 del meridione. L'Abruzzo-Molise e le Marche ospitavano sul proprio territorio quasi la metà dei campi. Gli unici due campi dell'Italia settentrionale adibiti ad ebrei (Montechiarugolo e Scipione) si trovavano in Emilia-Romagna. I campi erano di solito o maschili o femminili solo Tarsia era misto (intere famiglie). Agli Ebrei, di cui s'è detto, se ne aggiunsero dopo il '41, 2.000 dalla Jugoslavia e in genere dall’est balcanico e egeo (compresi i 500 della Pent-cho, battello fluviale partito da Bratislava nel Maggio 1940 col proposito di raggiungere la Palestina ma incagliatosi vicino a Rodi). L’internamento libero avveniva in forme diverse, essendo praticamente un soggiorno coatto come quello dei sorvegliati politici. Gli altri campi erano in realtà normali edifici requisiti all'uopo e più o meno adattati ad accogliere internati (cinema, ville, monasteri ed altro) Non era previsto l'obbligo di lavorare e, a chi dichiarava di non avere mezzi per il proprio mantenimento, il governo versava un sussidio. Con l’avanzare del conflitto le condizioni di trattamento si fecero sempre più dure, al pari di quelle che subiva la popolazione civile italiana.

Il 17 febbraio 1943, Salvatore Li Voti, ispettore generale della 5a zona d'internamento, riferiva però al Ministero che le condizioni alimentari della colonia di confino di Ventotene e del campo di concentramento di Ponza erano molto critiche. Quanto esposto per Ventotene e Ponza  (isole)- concludeva l'ispettore - ripeto anche per la colonia di Ustica e pel campo di concentramento di Ferramonti, nella quale ultima località le condizioni alimentari si sono in questi ultimi tempi rese molto precarie per la mancanza di molti generi razionati..."

     
http://www.lager.it/giusti_italiani.html 
Tra il '43 e il '45, secondo i calcoli di Michele Sarfatti, gli ebrei perseguitati che non vennero deportati o uccisi in Italia furono circa 35.000. Circa 500 di essi riuscirono a rifugiarsi nell’Italia meridionale; 5500-6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera (ma per lo meno altri 250-300 furono arrestati prima di raggiungerla o dopo esserne stati respinti); gli altri 29.000 vissero in clandestinità nelle campagne e nelle città, grazie all'aiuto di tanti italiani.
  Il 25 Luglio suscitò tra gli internati grandi speranze sulla fine della guerra e sulla loro rapida liberazione. In genere come successe per i prigionieri di guerra quelli dell’Italia centro meridionale si diedero alla macchia o nascosti da organizzazioni religiose, riuscirono ad aspettare che passasse il fronte (1 anno). Il 30 Novembre 1943, l'istituto dell'internamento venne ripristinato dal fascismo di Salò, che costituì nuovi campi per rimpiazzare quelli del sud caduti in mano agli Alleati. Ad essere internati non erano più soltanto gli stranieri, ma tutti gli ebrei in quanto tali e l'internamento, ormai, costituiva solo una breve sosta sulla via di Auschwitz: 6.815 ebrei furono deportati dall'Italia tra il 1943 ed il 1945 e più di 2.000 di loro erano stranieri.
     
L’ultima legge ad esempio è la “n°.1420 9/10/1942-XX  G.U. del Regno d' Italia n.298, 17/12/1942” che all’Art. 5. recita: Esclusione dal servizio militare. Precettazione civile. Gli ebrei in Libia, tanto cittadini italiani metropolitani che libici, possono, in tempo di guerra o in occasione di operazioni di polizia, essere mobilitati civilmente, secondo le leggi ivi vigenti, e precettati a scopo di lavoro, fermo rimanendo il divieto di prestare servizio militare in pace e in guerra ai sensi dell'art. ....La cosa curiosa di questa legge è che quando venne pubblicata la Libia non era quasi più nostra (tempo 20 giorni).   Si è fatto e si fa un gran parlare ancor oggi delle leggi razziali (Regio Decreto Legge 5 settembre 1938, XVI, n. 1390 ma proprio al plurale queste vanno viste poiché non era una sola, seguirono vari R.D.L. per Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica, Integrazione e coordinamento in testo unico delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola Italiana, Provvedimenti per la razza italiana. La n. 1054 del 29 giugno 1939 e n. 1055 del 13 luglio 1939 poi erano la logica estensione delle misure razziali precedentemente adottate. In mezzo a queste c’è la L. n. 1024, anch'essa del 13 luglio 1939 che ammetteva la figura dell'ebreo "arianizzato" o "discriminato" ovvero dell'ebreo che avesse particolari meriti: militari (decorati della Grande Guerra, civili o politici (gente che aveva partecipato alla marcia su Roma). Agli ebrei arianizzati le leggi razziali furono applicate con alcune deroghe e limitazioni. Le «discriminazioni» (delle discriminazioni) decise dal Gran Consiglio del fascismo vennero in soccorso a un numero non indifferente di persone, data l'alta percentuale di ebrei italiani con meriti fascisti o patriottici. Stando al censimento segreto degli ebrei del 22 agosto 1938, non meno di 3.502 famiglie ebraiche (su un totale di 15.000) furono ridiscriminate in base a questa o quella clausola delle leggi razziali, comprese 406 famiglie di caduti in combattimento, 721 famiglie di volontari di guerra, 1.597 famiglie con membri decorati al valor militare, 3 famiglie di «martiri fascisti », 724 famiglie di fascisti «antemarcia» (ovvero di coloro che avevano aderito al partito prima della marcia su Roma o durante la crisi provocata dal caso Matteotti), e 51 famiglie di «legionari» che avevano preso parte all'impresa di Fiume con D'Annunzio. Vi erano inoltre 834 ebrei (in parte compresi già nella precedente categoria) con eccezionali meriti politici, culturali o economici. Nel luglio 1939 Kleinlerer riferiva che «alcuni» ebrei italiani meritori erano stati premiati con «brevetti di discriminazione» che li esentavano dall'obbligo di denunciare le loro proprietà immobiliari, anche se non da varie altre interdizioni. Quanto agli altri, si sperava che finissero con l'essere «esclusi dai rigori della legislazione razziale», se non si fosse seguita una linea troppo rigida nella sua applicazione !!!. Mussolini poi a suo insindacabile giudizio poteva «arianizzare» qualsiasi appartenente alla razza ebraica, indipendentemente dai servizi resi all'Italia o al fascismo. Il duce rivelò in seguito al suo biografo che i principali beneficiari della legge n. 1024 erano stati anche alcuni ebrei italiani di «gran cuore» con altissimi meriti militari, fra i quali un brillante ufficiale del genio navale e un eroe della guerra civile spagnola.

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