La vita di Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 11 agosto 1892 – Lecco, 3 novembre 1957)

"la testa calda"

 

Sindacalista rivoluzionario, anarcoide, addirittura un po´ dannunziano, ferito a Monte Zebio nel ’16, come in una grande epopea cinematografica girava per le campagne infuocate del Tavoliere e della Capitanata a bordo di un motosidecar. Energia allo stato puro: scioperi, scontri con le squadre fasciste, arresti, galera, tribunale speciale. Poi l´esilio, la Francia, la Russia, le Brigate internazionali in Spagna, di nuovo la Francia, di nuovo la galera, e il confino, a Ventotene, dove con altri compagni aveva preso in affitto un campicello e una mucca per sopravvivere meglio, e forse per dimostrare anche a se stesso che il lavoro, il duro lavoro manuale è speranza, è salvezza. http://www.cgil.it/firenze/2005/cgil10.htm   
 

Giuseppe Di Vittorio, nato a Cerignola, in Puglia, resta presto orfano del padre (madre Rosa Errico, Il Padre apparteneva a una di quelle piccole comunità evangeliche, non insolite in Puglia, promosse da emigrati negli Stati Uniti (Arfè, 1978, p. 45) ) e costretto ad abbandonare la scuola per “faticare” nelle campagne del Tavoliere. Già negli anni dell'adolescenza iniziò una intensa attività politica e sindacale tanto che a 16 anni fu tra i promotori del Circolo giovanile socialista di Cerignola. Nella “Puglia rossa” l’asprezza dei conflitti spinge il movimento verso il sindacalismo rivoluzionario. È in questa direzione che Di Vittorio pilota il circolo giovanile.

con Anita la seconda moglieGLI ANNI GIOVANILI da Istituto della Enciclopedia Italiana

Il D. seguiva allora con profitto la seconda elementare; non poté iscriversi l’anno successivo per la necessità di integrare il misero reddito che la madre traeva dall’attività di lavandaia. Divenne così bracciante all’età di otto anni. Le vicende della sua infanzia e adolescenza, riferite da lui stesso o da altri, sono già tutte cariche di significati univoci, perché precoce è la leggenda che segnerà per tutta la vita la sua figura di militante sindacale e politico, e che si forma in quell’angolo di Tavoliere tra Cerignola, Canosa e Minervino Murge. Il D. partecipò alle agitazioni della sua lega bracciantile a 10 anni. Nel 1904 durante uno sciopero generale gli mori accanto il coetaneo e amico Ambrogio, falciato dal fuoco della truppa. Nel 1907 fondò a Cerignola il Circolo giovanile socialista e l’anno seguente entrò nel direttivo della lega che aveva Antonio Mineo per capo; nel 1911 era segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge.

- In questa precocissima parabola si compiva la prima formazione propriamente sindacale del D., i cui connotati essenziali erano la lega, lo sciopero, il contratto, l’orario e la tariffa, secondo la elementare grammatica del sindacalismo bracciantile pugliese. Tra il 1907 e il 1909 la lega bracciantile di Cerignola riuscì ad imporre l’orario di nove ore, a cui seguirà la rivendicazione della mezz’ora pagata per il ritorno dal fondo a casa, la tariffa fissa giornaliera, la contrattazione del vitto fornito dal datore di lavoro sul fondo. Far rispettare gli accordi da tutti gli agrari rimaneva l’impegno più difficile che si intersecava con il problema della manodopera reclutata in altri centri limitrofi e richiedeva un allargamento oltre i confini municipali dell’influenza sindacale. Le iniziative bracciantili si sviluppavano, poi, in un quadro di violenza, illegalità, mancanza di comportamenti affidabili da parte delle autorità tutorie e della magistratura regia, segnati da brutali repressioni, eccidi, condanne politiche, che rendevano sempre aspra, spesso drammatica, ogni forma di confronto. In questa durezza di rapporti sociali e civili la cultura socialista che penetrava negli instabili ingranaggi delle organizzazioni dei salariati agricoli restava necessariamente elementare, segnata dalla povertà del contesto contadino in cui si muoveva, dove stentavano le informazioni ed era difficile dare continuità alle iniziative.
Più tardi, ritornando su queste vicende, il D. definirà gli anni tra il 1911 e il 1914 come « periodo normale » per il sindacalismo pugliese, confrontati con il 1919-21, come “periodo rivoluzionario”, e il 1921-24, come «periodo reazionario» (l’Unità, 10 ott. 1924). L’elemento di normalità fu in effetti la costituzione di un’organizzazione sindacale stabile, diffusa sul territorio e legata da vincoli di solidarietà, capace di ottenere e far rispettare una serie crescente di patti collettivi e di finalizzare ad essi l’azione conflittuale. Ma questa normalità fu il risultato di una profonda rivoluzione civile, prima ancora che sociale, la lenta e costante conquista della « cittadinanza, da parte del proletariato agricolo pugliese, assai più netta di quanto non avvenisse per altre popolazioni meridionali. Questo grande processo corale, di cui sono protagonisti una pluralità di militanti, in un continuo cangiare di forme organizzative e di avvenimenti, era solo per una parte l’effetto indotto dagli esempi che provenivano dal movimento sindacale e socialista, sviluppatosi da più di un quindicennio nella Valle Padana, la cui cultura, come si è visto, era un cemento essenziale, che tuttavia filtrava in modo elementare, mediato prima ancora che da esponenti dei ceti medi, che costituivano per lo più il crogiuolo caratteristico del nascente socialismo nel Mezzogiorno, da giovani contadini, protagonisti naturali di quelle lotte.

Così nacque quella che possiamo chiamare la « leggenda » del D., perché egli fu un’incarnazione emblematica di questa storia. Il fanciullo che al lume di candela consumava le ore notturne nella lettura, protetto dalla figura paterna del maestro Pedrecca, che nella masseria durante il riposo raccontava agli anziani le storie fosche ed epiche della loro terra e, fattosi adolescente, ottenne dal sindaco la scuola serale gratuita dove conseguì il suo unico diploma scolastico, quello della terza elementare, che fece smettere alla sua gente di portare il tabarro, quale simbolo di una inferiorità sociale, che si costruì una professionalità di bracciante sempre più specializzato, mentre era instancabile agitatore, beffava l’amministrazione francese del latifondo dei La Rochefoucauld e i suoi mazzieri, non conobbe intimazioni e dette esempio di coraggio.

Circolo giovanile socialista di Cerignola:
- Il Circolo nacque del resto come interstizio tra la lega e il partito e questo, più o meno in tutta la Puglia, ebbe un ruolo scarsamente propulsivo; la sua vita era stentata, attraversata in modo asfittico dai grandi contrasti ideologico-politici che lo contraddistinguevano sulla scena nazionale. Anche l’organizzazione confederale e la Federterra ebbero un ruolo marginale nello sviluppo del sindacalismo pugliese; quest’ultima dovrà attendere il suo V congresso, nel 1914, per avere un’adesione appena significativa di organizzazioni meridionali. Erano di ostacolo a una più organica integrazione nazionale quelle che erano le caratteristiche proprie dell’azione del bracciantato agricolo pugliese, legate ad un quotidiano confronto con la classe agraria e con gli organi tutori dello Stato, nonché alla necessaria frammentarietà territoriale delle iniziative, a cui presiedeva l’istantaneità dell’azione piuttosto che la riflessa politicità dell’iniziativa organizzativa e politica. Rievocando il primo incontro con Gramsci il D. tornerà a riflettere su questo punto: - per la prima volta ho sentito questa osservazione: perché il movimento sindacalista si era sviluppato di più nei centri del proletariato agricolo e precisamente in Puglia ed in Emilia? Perché le masse del bracciantato agricolo ... erano portate naturalmente ad essere insofferenti della disciplina burocratica che il riformismo della Confederazione generale del lavoro voleva imporre alle leghe e ai sindacati -(Chilanti, p. 93)-. Il localismo, l’autonomismo, per certi versi lo spontaneismo, erano in effetti comportamenti intrinseci delle organizzazioni sindacali pugliesi e che precedevano la loro diffusa adesione al sindacalismo rivoluzionario. Pesava su ciò il vuoto di direzione politica della CGdL e del Partito socialista italiano, che era qualcosa di più di una mancanza di politica meridionalistica, era un rifiuto profondo ad assumere il problema in tutte le sue valenze, donde un’incomprensione dei fenomeni che portava a descrivere, ad esempio nel 1907, gli scioperi pugliesi come “preistoria del sindacalismo” (Avanti!, 22 sett.), mentre essi costituivano invece proprio l’ingresso di questo nella storia di quelle terre. Donde la pertinenza, per questi aspetti, della polemica salveminiana, pur nella infondatezza delle soluzioni proposte, che collimava con i tentativi, reiterati da più parti, di costituire ambiti organizzativi meridionali com’era il caso della Federazione meridionale di G. Alfani ed E. Trematore che concludeva la sua parabola nel congresso di Napoli del 1910, mentre sempre più fitte si facevano le occasioni di raccordi a livello regionale.

Nel 1911 il D. farà la sua prima sortita a Firenze per portare l’adesione del suo circolo alla federazione dei giovani sindacalisti di Parma, che si era costituita in contrapposizione con quella aderente al PSI (Arfè, 1957’), e conoscerà per la prima volta i maggiori capi sindacalisti, Corridoni, De Ambris, Rossoni. Di quella corrente divenne attivo propagandista; già dall’anno precedente collaborava al quindicinale dell’organizzazione Gioventù socialista, con cronache da Cerignola. Ma è caratteristico il fatto che, pur avendo compiuto una netta scelta di campo sul piano nazionale, non volle rompere con l’organizzazione giovanile pugliese, che inclinava a maggioranza per l’altro orientamento.

L’adesione del D. al sindacalismo rivoluzionario manterrà sempre del resto questo impasto di autonomismo pugliese, nel segno di una comune origine scaturita da premesse non propriamente ideologiche, ma piuttosto da quotidiane esperienze proletarie. Così mentre propugnaVa una certa intransigenza astensionistica, nel 1910 patrocinava la candidatura nel suo collegio elettorale di C. Altobelli e nel 1913 avrebbe sostenuto quella di Salve mini nei collegi di Molfetta e Bitonto. Ma il maggiore impegno il D. lo dava nell’attività sindacale. Arrestato durante una manifestazione bracciantile a Cerignola nel maggio del 1912, passò alcuni mesi nel carcere di Lucera. Non partecipò così al congresso costitutivo dell’Unione sindacale italiana (USI), che si tenne nel novembre a Modena, a cui aveva aderito la Camera del lavoro di Cerignola, pur venendo eletto nel Comitato centrale della costituita organizzazione.
 

La sua militanza nelle file del sindacalismo (nel 1911 passò a dirigere la Camera del Lavoro di Minervino Murge), tuttavia, non ha mai il carattere della rottura. Quando nel 1912 la Cgdl subisce la scissione dell’Usi, Di Vittorio, pur aderendo alla nuova organizzazione (**Unione Sindacale Italiana http://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Sindacale_Italiana ), fa sempre prevalere la linea dell’unità. Nel 1914, ricercato dopo la “settimana rossa” (la Cgdl che aveva proclamato lo sciopero generale, dopo un timido accordo con la direzione del partito socialista, ne aveva ordinato la cessazione senza neppure interpellare il partito), ripara a Lugano (il suo “liceo”, dirà in seguito) in Svizzera dove riesce finalmente a dedicarsi allo studio.

Brani riassunti da Felice Chilanti

Fu quello, per il movimento operaio e socialista, un periodo di divisione e di incertezze. Nelle file del sindacalismo serpeggiava, insidioso, l’interventismo. Quegli stessi dirigenti che si erano rifiutati di partecipare alle campagne elettorali in favore dei socialisti, ora si schierarono in favore della guerra. Corridoni era interventista e sosteneva che occorreva battere gli Imperi Centrali per far trionfare il socialismo. Intanto i nemici del movimento operaio, essendo riusciti a dividere i capi del movimento sindacalista tra interventisti e neutralisti, non riuscivano a scalzare il grosso dell'organizzazione dei lavoratori che rimase compatta e fedele alla causa della pace.

La Camera del lavoro gli aveva assegnato una paga di due lire al giorno. Con una lira e cinquanta centesimi Di Vittorio riusciva a mangiare e a dormire e gli restavano 50 centesimi al giorno, tutti da spendere in libri. «Mai ero stato bene come in esilio», ricorda Di Vittorio. Il giornalista Giuseppe De Falco gli correggeva i compiti.
-“Quando ho cominciato a studiare con metodo ho avuto la sensazione netta della mia ignoranza e della mia piccolezza; mi pareva che fra me e il mondo lussureggiante della cultura e dell'arte, del sapere, sorgesse un alto muro, una barriera che mi divideva da una specie di paradiso terrestre. E dopo aver ultimato lo studio di un libro mi pareva di essermi arrampicato lungo quel muro e di aver potuto dare uno sguardo a quel paradiso del sapere. Questa sensazione accresceva in me la passione per lo studio. Durante l'esilio in Svizzera ebbi per la prima volta una conoscenza del mondo e appresi i primi elementi di una vera ideologia. Cominciai a studiare il Manifesto dei Comunisti e i primi scritti di Lenin, del quale intesi parlare la prima volta a Lugano. E questo anziché placare, accresceva sempre la mia sete di cultura. Dopo aver letto per la prima volta A Silvia posai le sigarette sul tavolo e dissi a me stesso: non fumerò più fino a quando non l’avrò imparata tutta a memoria».
Tornò in Italia dall'esilio quando il governo avendo già deciso di entrare in guerra decretò l’amnistia: i processi a suo carico erano intanto saliti a quindici senza contare il processone per la Settimana Rossa. Giuseppe Di Vittorio ritornò in Puglia dopo dieci mesi di assenza e fu accolto da calde manifestazioni d'affetto e d'entusiasmo. Alla stazione incontrò ovunque folle di lavoratori ad attenderlo: braccianti che avevano fatto 15 o 20 chilometri a piedi per raggiungere la ferrovia.
- «Non mi attendevo accoglienze così commoventi; ritenevo anzi di non meritarle e quando i compagni come atterriti dalla parola “esilio” mi domandavano: come si sta in esilio? io non sapevo cosa rispondere: rispetto alla mia vita, ai duri sacrifici che avevo conosciuto, l'essermi trovato a Lugano, col vitto assicurato, coi libri in abbondanza e con tutto il tempo a mia disposizione per studiare, quell'esilio pur sempre amaro, lontano dalla patria, dalla famiglia, dai miei compagni e dalle nostre lotte, mi era apparso come il miglior periodo della mia vita. Ai lavoratori pugliesi dovevo il piccolo stipendio che mi aveva consentito di studiare, di poter dare qualche sguardo nel giardino del sapere».
«Non ero un interventista, come va dicendo Pacciardi, ma quando la mia classe fu chiamata alle armi raggiunsi a Napoli il mio reggimento di bersaglieri».

Era un reggimento, formato in gran parte di soldati meridionali, quasi tutti analfabeti. I suoi compagni di battaglione si accorsero che egli sapeva scrivere bene e cominciarono a rivolgersi a lui per mandare notizie alle famiglie, lettere d'amore alle ragazze e alle giovani spose. Ai soldati piacquero molto le sue lettere e anche quelli che un poco sapevano leggere e scrivere si rivolsero presto a Giuseppe. La sua fama di «scrittore di lettere» s'allargò al reggimento intero e venne a conoscenza degli ufficiali.  Con gli attacchi frontali del '15 oltre ai soldati, a farne le spese, erano gli ufficiali con le loro divise tirate a lucido e i gradi ben in vista. C'era una predilezione particolare dei cecchini nel colpirli. Interi reggimenti come i sardi della Sassari rimasero senza. I nuovi arrivati oltre che essere inesperti erano spesso ignoranti e invisi ai soldati.  Occorreva nuova linfa la cui preparazione prendeva però solo qualche mese. Il resto del tirocinio si passava come aspirante in trincea. Se non ti ammazzava subito il nemico, diventavi ufficiale e ti ammazzavano dopo.  

Cadorna allora impartì severi ordini a tutti i comandi dipendenti di reclutare per quei corsi ogni soldato che avesse fatto la scuola media rintracciando anche quei militari che «per imboscarsi» nascondevano il loro titolo di studio. Giuseppe Di Vittorio, figlio unico di madre vedova, aveva diritto alla ferma minore, della terza categoria: ma i suoi ufficiali, che censuravano la posta dei soldati e leggevano quindi le lettere che egli scriveva, si erano convinti che nascondesse il titolo di studio per sottrarsi «all'ordine di essere ufficiale» per essere meno esposto al pericolo e cercare l'occasione di imboscarsi come scritturale. Il bersagliere Giuseppe Di Vittorio fu così chiamato dal capitano il quale lo informò di averlo segnalato per il corso aspiranti ufficiali. Ogni protesta del soldato fu inutile, ogni sua dichiarazione di non avere il titolo di studio(almeno in Italia) non fu creduta e una notte, quando già si trovava in trincea, fu chiamato al comando e subito spedito a Cividale al corso aspiranti ufficiali.  Lo stesso problema lo ebbe Mussolini, ma per vie traverse non lo frequentò mai. Di Vittorio si presentò al capitano e gli disse di aver frequentato in Italia la seconda classe elementare e la terza alla scuola serale, ma non ci fu nulla da fare. Rimase al corso 45 giorni e si qualificò ai primi posti: e già comandava un plotone (da Aspirante) ed era alla vigilia della nomina a ufficiale quando la bomba scoppiò. Le autorità militari avevano chiesto informazioni alla polizia ed era giunta al comando la voluminosa cartella contenente i suoi «precedenti politici». Il colonnello, furibondo, mandò a chiamare Di Vittorio e gli gridò: «Come avete avuto il coraggio di presentarvi al corso? Voi siete un senza Patria, un rivoluzionario». Fra gli altri documenti vi era un articolo di Di Vittorio che aveva pubblicato il giornale di Ferrara La Scintilla in occasione della chiamata alle armi della classe 1892. Era un appello ai soldati a rifiutarsi di sparare sui lavoratori. Per quell'articolo era stato anzi condannato mentre si trovava in Svizzera. Di Vittorio non aveva nulla da dire al colonnello; questi esaminando la sua cartella di allievo e trovandovi ottimi punti gli fece una proposta: «Voi avete una sola possibilità di rimanere al corso ufficiali; fate subito qui, in mia presenza, una lettera al Comando Supremo rinnegando il contenuto di questo articolo!». La risposta di Di Vittorio fu immediata: «Io non rinnego niente». E allora il colonnello lo cacciò via gridando: «Tornerete al fronte!». «Andrò anche all'inferno ma io non rinnego i princìpi della mia vita». E siccome Giuseppe Di Vittorio era «un senza Patria» fu appunto mandato in trincea. Trovò il suo battaglione decimato e durante l'offensiva del 1916, sull'Altipiano dei Sette Comuni, alle pendici del Monte Zebio, colpito da un proiettile, fu ferito tanto gravemente da venire dichiarato inabile alle fatiche di guerra, dopo parecchi mesi di ospedale e un intervento chirurgico per estrargli il proiettile. Giuseppe Di Vittorio aveva dunque compiuto il suo dovere di soldato ma ora che i comandi militari conoscevano i suoi precedenti politici cominciava contro di lui una lunga persecuzione. Brani riassunti da Felice Chilanti

Inizia da qui la sua peregrinazione prima al 2° Bersaglieri a S. Francesco di Ripa, poi in Sardegna alla compagnia di disciplina della Maddalena. Il risultato dei soprusi del ricevimento fu la sua apoteosi fra i compagni. Naturalmente lui veniva dalla trincea mentre il comandante del campo era un imboscato. Succedeva anche questo nei vertici militari d’allora. Giuseppe Di Vittorio divenne così l'amico di tutti e in pratica il loro avvocato senza averne il titolo. Giuseppe Di Vittorio tornò poi a Cerignola e vi rimase fino al maggio del 1917. Subito dopo fu chiamato dai carabinieri e considerato “guarito” riparti per il 10° di Palermo. A Palermo funzionava una università popolare e Di Vittorio vi si era iscritto: frequentava i corsi con grande assiduità ed ebbe modo di studiare alcune materie scientifiche, storia, filosofia e letteratura. La sua situazione politica però lo teneva sempre sul filo della corda e venne destinato ai reparti in Libia, fuori da ogni tentazione. Rientrato in Italia nel ’19, il 31 dicembre sposa Carolina Morra. Il 16 ottobre del 1920 nasce la prima figlia, Baldina.

Sono gli anni delle lotte intestine e delle grandi scelte sulla scia della rivoluzione sovietica. In meno di due anni Mussolini appoggiato dagli agrari e col consenso degli industriali è al potere. Rinchiuso al carcere di Lucera Di Vittorio ne esce con la candidatura del P.S.I. (con il PCI fu eletto deputato nel 1924). Lo sciopero legalitario dell’estate del ‘22 trova pochi consensi ma tra questi la Bari vecchia in cui si asserragliano ex legionari di Fiume, socialisti, comunisti e anarchici, assieme agli Arditi del Popolo. Condannato dal tribunale speciale fascista a 12 anni di carcere, nel 1926, riuscì a fuggire in Francia dove aveva rappresentato la disciolta Confederazione Generale Italiana del Lavoro (C.G.d.L) nell'Internazionale sindacale. Espulso dalla Francia nell’agosto del ’27, ripara prima in Belgio e poi a Mosca. Ritorna in Francia nel ’30 per entrare nel gruppo dirigente del PCI. Insieme ad altri antifascisti partecipò alla guerra civile spagnola come Commissario politico della XI Br. internazionale. Nel febbraio ’37 deve ritornare in Francia, ma tra i combattenti repubblicani la sua straordinaria umanità lo ha reso uno dei capi più amati. In ottobre assume a Parigi la direzione del quotidiano "La Voce degli italiani" e qui incontra Anita Contini che sarà la sua seconda moglie. Gli eventi internazionali che precedono la guerra sono per lui fonte di dolore a seguito della firma del patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania dell'agosto del ‘39. Di Vittorio dissidente, è escluso dal vertice del Pci !!!. Con l’invasione della Francia anche gli italiani non hanno vita facile. Il figlio si unisce ai maquis mentre la figlia viene internata. Di Vittorio viene catturato dalla Gestapo il 10 febbraio ’41 e in luglio, tradotto in Italia. Finisce al confino a Ventotene dove con altri compagni prende in affitto un campicello e una mucca per sopravvivere. Nel 1943 fu liberato e aderì alla Resistenza tra le file delle Brigate Garibaldi. Con l’arresto di Roveda, responsabile del lavoro sindacale, è a lui che tocca la trattativa per la costruzione di un nuovo sindacato unitario avviata con il socialista Buozzi e i democristiani Achille Grandi e Giovanni Gronchi. I punti basilari dell’accordo definitivo, siglato il 4 giugno, vedono prevalere le sue idee: sindacato né unico né obbligatorio ma unitario, indipendente dallo Stato, dai padroni, dai partiti !!.
Divenne anche segretario della neoricostituita “unitaria” CGIL e l’anno seguente fu eletto deputato all'Assemblea Costituente per il PCI. L'unità sindacale durò fino al 1948, quando, in occasione dello sciopero generale politico per l'attentato contro Palmiro Togliatti (ma sussistevano anche altre cause), la corrente cattolica e socialdemocratica si separò fondando la CISL e la UIL. Di Vittorio fa l’impossibile, ma il clima è cambiato. E’ l’epoca del ministero Scelba (interni) che gli impedirà 3 anni dopo, nonostante sia deputato, anche un viaggio a Nuova York al Consiglio Economico e Sociale dell'Onu come presidente della Federazione Sindacale Mondiale. La Cgil, che rischia l’isolamento, viene “salvata” da Di Vittorio con una proposta lanciata all’intero paese.  È il Piano del lavoro, lanciato al II Congresso di Genova nell’ottobre ’49, essenzialmente un progetto di grandi opere infrastrutturali, con l’obiettivo di porre le basi di un nuovo ciclo espansivo, quindi di una crescita dell’occupazione e dei consumi.

Nel 1956 prese posizione, prima contro l’intervento della polizia polacca in danno di lavoratori, poi contro l'intervento sovietico in Ungheria in contrapposizione alla linea ufficiale del PCI, espressa da Napolitano che, prima condanna su L'Unità i rivoltosi come ''teppisti e spregevoli provocatori'': poi «Nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo del ritorno alla guerra fredda non solo ma di uno scatenamento della guerra calda, l’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente (sic) abbia contribuito, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo».

(tratto da "La Domenica di Repubblica", domenica 18 settembre 2005). .... E allora nel 56 il Pci lo processa. Prima in direzione, poi sempre a Botteghe Oscure, ma in una specie di udienza privata. Nella stanza ci sono Amendola e Pajetta. Fuori della porta la seconda moglie Anita con cardiotonico e siringa dentro la borsetta perché Di Vittorio ha già avuto due infarti. Si sentono grida. Poi Peppino esce, piangendo. Farà autocritica. Il giorno dopo incontra un amico: "Non sono più io, lo so. Ma cosa sarebbe di me senza il partito?". Due giorni dopo incontra Antonio Giolitti, vicino di casa: "Quelli sono regimi sanguinari, sono una banda di assassini!". Proclamò allora Togliatti: "Di Vittorio ha sostituito al partito il proprio giudizio sentimentale e sommario". Non immaginava, il Migliore, di aver fatto a Peppino il miglior complimento. Istinto e cuore: le doti autentiche di un capo. Le stesse forse che gli avranno fatto guadagnare un posticino in Paradiso (come disse Zaccagnini).

La seconda moglie Anna o Anita alle spalleIl capo della Cgil, messo sotto accusa, esce assai scosso dalla riunione della direzione comunista e il 30 ottobre e 4 novembre, in coincidenza con il secondo e risolutivo intervento sovietico, fa un mezzo passo indietro. La sua battaglia per l’indipendenza del sindacato, tuttavia, non si esaurisce e ottiene un primo, importante riconoscimento nel corso dell’VIII Congresso del Pci, in dicembre, con l’abbandono della teoria del sindacato come “cinghia di trasmissione” del partito. Di Vittorio si mostrerà successivamente, sul tema dell’integrazione europea, più duttile del suo partito (aveva già accettato Piano Marshall, la Cassa per il Mezzogiorno, e schema Vanoni). Di Vittorio continuò a guidare la CGIL fino alla sua morte, avvenuta nel 1957 a Lecco.

 **L’Usi si contrapponeva alla Cgdl per la sua politica rivoluzionaria, per il rifiuto di contatti con qualsiasi partito politico. All'USI aderirono principalmente le camere del lavoro situate nel triangolo industriale del Nord (Torino-Milano-Liguria), in Emilia, in Toscana e nelle Puglie. Alla vigilia del primo conflitto mondiale fu attraversata, come le altre organizzazioni della sinistra, dal ciclone dell'interventismo. Espulsi coloro che, al suo interno, si erano schierati per l'intervento militare dell'Italia contro l'Austria e la Germania (Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e, in un primo tempo, Giuseppe Di Vittorio, notizia non confermata)  http://www.rassegna.it/2006/letture/DiVittorio/divittorio11.htm

 

I vecchi di Cerignola e di Bari ancora ricordano quel giorno di oltre quarant’anni fa quando Di Vittorio uscì deputato dal carcere. Migliaia di persone si accalcavano davanti alla prigione. Successivamente, alla stazione di Bari, il buon Armenise, vice segretario della locale Camera del Lavoro, era andato a prelevare il neo deputato con una carrozza che un professore aveva voluto abbellire con una gran coperta damascata di seta rossa, e un ragioniere aveva riempita di fiori. Tutti volevano stringere la mano a Di Vittorio. A un tratto tra la folla, in mezzo ai canti ed agli evviva di gioia, risuonò un grido che commosse tutti: “Viva San Nicola! Viva Di Vittorio!” (I lavoratori volevano dire così che accanto all’antico santo protettore di Bari, San Nicola, essi collocavano adesso il protettore della povera gente, l’ex bracciante Di Vittorio). Il corteo imboccò via Nicolai, percorse via Manzoni, via Napoli, piazza Castello, il centro di Bari Vecchia, per dirigersi finalmente a piazza San Pietro. Qui ogni casa era imbandierata di rosso. La gente sostava sul marciapiedi, davanti ai negozi. Dalle finestre le donne lanciavano fiori, rose e papaveri, come durante le processioni. Davanti alla Camera del Lavoro Di Vittorio tenne il primo comizio da deputato e fu ancora un incitamento alla lotta, all’unità, alla battaglia antifascista. L’entusiasmo e la folla erano tali che La Voce Repubblicana in una corrispondenza da Bari scrisse: “Neppure quando si è spostato nella nostra città Vittorio Emanuele III, si era vista una manifestazione tanto imponente”. Anita Contini Di Vittorio, La mia vita con Di Vittorio, Firenze 1965.

 

Film per la Tv: “Pane e libertà” regia di Alberto Negrin, prodotto da Carlo Degli Esposti, musiche di Ennio Morricone, interpretato da Pierfrancesco Favino e Raffaella Rea (nella foto). Il film copre l'intero arco della vita di Di Vittorio, dalla morte del padre - nella prima puntata - quando a otto anni viene messo a fare lo "spaventacorvi" nei campi, fino all'assalto alla Camera del Lavoro di Bari mentre la moglie sta partorendo il figlio Vindice, passando per i primi scioperi, la morte dei compagni durante la repressione per mano dei latifondisti, fino all'elezione a deputato nel Partito socialista e la fuga in esilio dopo la condanna a dodici anni di carcere da parte del Tribunale Speciale. Nella seconda puntata, l'attività politica dall'esilio a Mosca e a Parigi, la guerra di Spagna, il conflitto con il Partito comunista al quale si era iscritto nel 1924, l'amicizia con Buozzi e Grandi e le vicende personali, la morte della moglie Carolina e l'incontro con Anita (Contini conosciuta a Parigi), trent'anni meno di lui, compagna fino alla sua morte. "Quella di Peppino è la storia di un grande sognatore - dice Negrin - che ha avuto un unico desiderio: unire i lavoratori d'Italia e del mondo per vedere riconosciuti i loro diritti. Un sogno che lo coinvolgeva intimamente, non da un punto di vista astrattamente intellettuale ma esclusivamente umano".ALESSANDRA VITALI

pane e liberta http://www.youtube.com/watch?v=7JkeoKcX_UA&feature=relmfu 1a parte
http://www.youtube.com/watch?v=CR455egJCaY&feature=relmfu 2a parte
 

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