LA SECONDA GUERRA MONDIALE

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  IL TRIANGOLO DELLA MORTE

Ermanno Gorrieri, il partigiano "Claudio": "Chi non tiene presente la natura rivoluzionaria del PCI di allora e il duplice obiettivo che si riprometteva (liberazione e 'rivoluzione proletaria') non riesce a capire la Resistenza in tutta la sua complessità".

Partigiano "Cateta": Vede Don Alberto i nostri nemici non sono più i tedeschi, ne i fascisti che sono alle corde. I nostri nemici sono i ricchi, i proprietari terrieri. Noi lottiamo e combattiamo contro i signori, contro i preti"

« Molta rabbia si era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il 25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i fascisti dopo la Liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò che era avvenuto prima e con il clima infuocato dell'epoca. I fascisti non hanno titolo per fare le vittime» (E.Gorrieri)

Gli americani paracadutavano le armi per combattere il nazi/fascismo, i partigiani le usavano per la rivoluzione.

Il risultato fu il triangolo rosso della morte

In questo capitolo non vengono trattati gli eccidi del periodo bellico (post 8 settembre al nord) commessi da Tedeschi e Fascisti nei confronti di tutti, e le esecuzioni sommarie di partigiani nei confronti di civili accusati di fascismo. Qui si elencano solo alcune, le più eclatanti, di quelle azioni di rappresaglia che furono chiamate, "del triangolo...." (delimitante un piccolo territorio delle province di Bologna, Modena e Reggio Emilia) rivolte nei confronti di ecclesiastici (ma non solo) dal marzo-aprile '45 (alla vigilia della fine del conflitto) al '51. Per prassi consolidata un elenco di ecclesiastici uccisi in tutta Italia (ma non solo), in dipendenza dell'intero conflitto e comprendete anche questa zona circola e viene duplicato da molti siti che si definiscono in maggioranza di destra. Poiché più di una volta mi sono trovato, con questi dati in mano, cappellani uccisi al fronte, sotto bombardamenti, in prigionia, ho dovuto incrociare diversi dati per giungere alla lista purgata (riguardante il triangolo rosso) che trovate nella colonna di sinistra divisa per province. Episodi più diradati, misteriosi e confusi continuarono comunque fino alla fine degli anni '50 !!!, poi si passò alle minacce che restarono però confinate a se stesse. Per alcune delle figure, si da un breve resoconto anagrafico-storico. Recenti e non recenti "storiografi" hanno alzato polveroni sui quali non esprimo alcun giudizio. Mi limito a riportarne pochi passi di interviste, dichiarazioni e fatti oltre l'inoppugnabile. Depositi di armi clandestine verranno trovate nel tempo fino agli inizi del nuovo secolo. L'ultimo a poca distanza da casa mia.

Per quanto riguarda l'Amnistia Togliatti del '46 Si trattò, com’era logico e corretto, d'un provvedimento di clemenza omnicomprensivo(per chiunque) e per tutti i reati - eccetto quelli di particolare efferatezza - commessi fino al 30 luglio 1945, quindi anche dopo la fine della guerra. Tale termine ultimo fa comprendere che scopo non secondario dell’amnistia fu per Togliatti impedire il perseguimento giudiziario dei delitti "politici" commessi dai partigiani comunisti anche dopo il 25 aprile, a spese non solo di fascisti ormai inermi, ma anche di partigiani “bianchi” (cattolici) o “badogliani”, ufficiali del Regio Esercito (che nel dopoguerra verranno "affratellati nell'universo resistenziale), di sacerdoti e a volte di semplici “nemici di classe” (padroni). Su molti di questi crimini aveva cominciato a indagare una magistratura ordinaria molto diversa da quella attuale e da quella scalfariana (vedi sotto), creando non solo problemi ai “compagni” inquisiti - in molti casi già fuori dai confini precauzionalmente espatriati nei paesi comunisti dell'Est oltre la cortina di ferro (Cecoslovacchia), - ma esumando scheletri che il Pci faticava a tenere nascosti nei suoi pur capienti e ben custoditi armadi. Basti pensare a casi come  quello di Francesco Moranino, senatore comunista e per qualche tempo sottosegretario alla Difesa, condannato nel 1956 all’ergastolo, commutato poi in dieci anni di reclusione, per un reato che neppure l’amnistia sarebbe bastata a cassare: l’assassinio di cinque partigiani “bianchi” quelli poi che diventeranno amici.

Per le altre e per molte, non dettagliate storie, si rimanda al sito http://www.mascellaro.info/abes/pnt/pnt_08.php   per l'amnistia vedasi http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri25.htm

PROVINCIA DI BOLOGNA  

LA VICENDA ROLANDO RIVI

ROMA, domenica, 8 gennaio 2006 (ZENIT.org).- Il 7 gennaio a Modena nella Chiesa di Sant’Agostino, l’Arcivescovo Benito Cocchi ha dato inizio al processo diocesano per la causa di Beatificazione di Rolando Rivi, un giovane seminarista di quattordici anni, barbaramente ucciso il 13 aprile del 1945 da alcuni militanti comunisti.

TAROZZI Don Giuseppe, parroco di Riolo (Bologna), prelevato la notte sul 26 maggio 1945 e fatto sparire. Alberto Fornaciari: «Per evitare che si cercasse il corpo, si mise in giro la voce che era stato bruciato in un forno da pane. Non è vero, ho saputo dov'è stato sepolto: sotto un albero in un fondo adiacente alla chiesa. Lo sanno tutti. Ho chiesto anche all'arcivescovo di Bologna se era possibile recuperare la salma, ma tutti mi rispondono che non è il momento, che si rischia di creare tensioni. Tremano come foglie, a sentir parlare di quella storia. Recentemente il parroco ha chiesto di poter aggiungere il nome di don Tarozzi su una lapide che commemorava tutti i caduti della guerra, senza specificare - beninteso - che era stato ucciso dai partigiani. Il paese è insorto, il parroco è stato minacciato». Don Tarozzi non figura nemmeno tra i preti per cui la diocesi (quella di Bologna) ha avviato il processo di beatificazione. Il processo giudiziario vero e proprio, invece, si è svolto nel 1951 e si è concluso - i giornali comunisti s'inalberarono: «La sentenza ha suscitato viva indignazione fra i combattenti...» - con la condanna a 22 anni di tre imputati e a 18 anni e 6 mesi di altri tre, tra cui Dante Bottazzi. Dell'omicidio venne quindi accusato Dante Bottazzi condannato poi in contumacia all’ergastolo nel gennaio 1952 per questo e per altri omicidi (il maresciallo dei Carabinieri Attilio Vannelli, il partigiano comunista Renato Seghedoni). Dante Bottazzi scomparve in Jugoslavia dove divenne professore universitario col nome di Aldo Luppi. Protetto da Tito in un primo momento, poi lo condannò a 12 anni carcere perché spia del COMINFORM.  Alla ripresa dei rapporti Kruschev-Tito, ottenne la cittadinanza e si stabilì a Fiume.
Al funerale del compagno, i suoi assassini si presentarono alla famiglia per fare le condoglianze e si offrirono di portare a spalla la bara. Bottazzi si rifece vivo 60 anni dopo per iscriversi ai Ds. La vicenda (in calce),  finì per scatenare un putiferio contro Pansa che l'aveva raccontata.  


DONATI Don Enrico, arciprete di Lorenzatico (Bologna), massacrato il 28 maggio 1945 sulla strada di Zenerigolo

BARTOLINI Don Corrado, parroco di Santa Maria in Duno (Bologna), prelevato dai partigiani il 1° marzo 1945 e fatto sparire.

BARTOLINI Don Raffaele, canonico della Pieve di Cento, ucciso dai partigiani la sera del 20 giugno 1945.

DAPPORTO Don Teobaldo, arciprete di Casalfiumanese (Diocesi di Imola), ucciso da un comunista nel settembre 1945.

FERRUZZI Don Giovanni, arciprete di Campanile, Diocesi di Imola, ucciso dai partigiani il 3 aprile 1945.

FILIPPI Don Achille, parroco di Maiola (Bologna), ucciso la sera del 25 luglio 1945 perché accusato di filofascismo.

FORNASARI Don Mauro, Nato il 22 aprile 1922 a Longara (Calderara di Reno); entrato in Semina rio nel 1934, è ordinato diacono il 18 giugno 1944, nella Basilica di S. Luca. Ucciso il 5 ottobre 1944 presso Gesso (Zola Predona) dai partigiani ?

GALASSI Don Giuseppe, arciprete di S. Lorenzo in Selva (Imola), ucciso il 1° maggio 1945 perché sospettato di filofascismo.

GALLETTI Don Tiso, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), ucciso il 9 maggio 1945 perché aveva criticato il comunismo.

RASORI Don Giuseppe, parroco di San Martino in Casola (Bologna), ucciso la notte sul 2 luglio 1945 nella sua canonica, sotto accusa di filo-fascismo.

REGGIANI Don Alfonso, parroco di Amola di Piano (Bologna), ucciso da marxisti la sera del 5 dicembre 1945.

DOMENICO Don Gianni, Di anni 36; oriundo della Diocesi di San Sepolcro; ordinato sacerdote a Bologna dal Card. Nasalli Rocca nel 1938, fu inviato quale sostituto a S. Vitale di Reno di cui divenne Parroco il 30 novembre 1938. Cappellano Militare durante la guerra in Jugoslavia, fu ucciso a S. Vitale di Reno il 24 aprile 1945 dai partigiani in presenza di militari della Div. Legnano

Gazzetta di Modena Ven. 12/2/2009 «Rolando Rivi - ha spiegato la Bertoni Presidente dell’Anpi Sassolese - fu una delle vittime delle violenze commesse nel periodo di transizione tra guerra e dopoguerra, violenze i cui moventi sono di caso in caso diversi per natura. Per quell’omicidio furono condannati i responsabili, che pur avendo avuto un ruolo nelle formazioni partigiane della zona, commisero un reato di delinquenza (quale?) comune e non furono spinti da ragioni ideologiche come si vorrebbe far intendere !!. Proprio questa premessa distorta del documento ha compromesso il voto unanime sulla proposta di intitolazione della via cittadina al sacerdote, scelta che è invece assolutamente da condividere». E prosegue .. Perché non ricordare anche il sangue dei vincitori, cioè dei nostri ragazzi partigiani sassolesi uccisi a Manno, ai quali nessuno ha mai intitolato una strada e nessun sassolese si è mosso per chiederla? Per la morte di quei ragazzi partigiani neppure i collaborazionisti sassolesi si sa se furono corresponsabili e nessuna ha pagato in tribunale.
Ndr. - Rivi muore il 13 aprile 1945 la guerra finisce il 25 quindi siamo prima della fine della guerra. La definizione periodo di transizione tra guerra e dopoguerra storicamente non significa nulla, nessuno ha mai classificato un siffatto periodo storico che sarebbe sospeso in un limbo tutto Bertoniano: Che la rappresentante dell’Anpi (non partigiana  non avendone l'età), insegnante di Storia, sia così ignorante.
* Tale il resoconto della vicenda.  Il commissario politico della brigata, Natalino Corghi, ammise freddamente, davanti al padre del ragazzo, di essere stato l’esecutore materiale della sentenza con due colpi di pistola al cuore e alla nuca dopo averlo denudato e fatto inginocchiare vicino a una fossa da lui stesso scavata. “Il ragazzo tremava, piangeva e pregava” - raccontò con sadico compiacimento il partigiano “ma sono tranquillo – aggiunse - perché era una spia. È stata una azione di guerra” - Centinaia di strade sono state intitolate a Lenin, Marx che con la resistenza non c’entravano nulla (e nemmeno con la sinistra a sentire le ultime "versioni" politiche). Se la Bertoni delle cui  amministrazioni ha fatto parte hanno fatto questa scelta e non l’altra deve solo chiederne conto a se stessa. Aspettiamo risposta

 

Rolando Rivi, era nato a San Valentino di Castellarano, (paese di 4 anime in provincia e diocesi di Reggio Emilia) il 7 gennaio 1931 terzo di quattro figli di una famiglia di mezzadri, ed era entrato nel Seminario di Marola nell'autunno del 1942. Nell'estate del 1944, partiti i seminaristi per le vacanze, il Seminario venne occupato dai tedeschi. Rolando, come i compagni, dovette tornare a casa, portando con sé i libri per poter continuare a studiare. Nonostante gli inviti dei familiari e l'esempio di altri seminaristi, Rolando non volle abbandonare la veste talare; a tutti rispondeva: “lo studio da prete e la veste è il segno che io sono di Gesù”. Ai bambini, anche solo di cinque sei anni, insegnava a servire la messa e giocava con i più piccoli, per diffondere serenità in quei giorni così tristi. Li invitava in chiesa a pregare davanti al tabernacolo e insegnava loro a cantare le lodi del Signore. Don Olinto, suo parroco, lo guardava compiaciuto. In quei mesi, lontano dal seminario poteva essere facile per un ragazzo perdere, quasi senza accorgersene, lo stile fervoroso del seminarista. Rolando, invece, continuo a manifestarsi a tutti sempre più convinto della sua vocazione, buono e sereno anche nelle difficoltà. La vita a San Valentino e sulla montagna dopo la violenta estate del '44, si fece pericolosa. Si ebbero ruberie, razzie, fatti spiacevoli e violenze anche contro i sacerdoti. Diventava sempre più forte l'odio contro i preti. A San Valentino fu preso di mira il parroco don Olinto Marzocchini. Una mattina si venne a sapere che durante la notte precedente, alcuni l'avevano aggredito e umiliato. Qualche giorno dopo, don Marzocchini riparò in un luogo più sicuro. Questo fatto impressiono tutti e Rolando soffri per il suo parroco maltrattato, ma non disse parole di odio verso quei partigiani. Le simpatie di Rolando andavano agli uomini delle "Fiamme Verdi" della brigata "Italia", di ispirazione cattolica, organizzati nell'autunno del 1944 da don Domenico Orlandini (detto "Carlo"). Dopo la partenza del parroco, venne a San Valentino un giovane prete, don Alberto Camellini, assai preparato e molto attivo, verso il quale Rolando dimostrò subito grande simpatia. I primi due giorni di novembre del ‘44, festa dei santi e commemorazione dei defunti, c'era grande mestizia in casa Rivi, per il ricordo struggente dei familiari perduti: Rino, Adolfo, Lina. «Quando sarò prete - diceva - partirò, andrò in terre lontane a far conoscere Gesù. Voglio che Lui sia conosciuto e amato». Il progetto che più lo affascinava era quello di diventare prete per andare missionario. Nell'inverno del 1944 la neve cadde in abbondanza ma dopo quasi sei anni di guerra, qualche spiraglio di pace sembrava intravedersi. Il 7 gennaio, tra l'affetto dei suoi, Rolando compì 14 anni. «La guerra finirà presto - pensavano e speravano papa e mamma - e il nostro ragazzo potrà tornare in seminario e diventare prete». Nonna Anna lo guardava, piena di speranza: «Chissà se ti vedrò salire l'altare?». Pregava ogni giorno affinché Gesù affrettasse il fortunato giorno del suo rientro in seminario. Aveva solo 14 anni ed era poco più di un bambino, ma non si era mai mimetizzato né aveva nascosto la sua chiara identità di aspirante appassionato al sacerdozio. Continuava ad indossare la veste nera e spesso il cappello da prete. Il primo aprile di quell'anno, Pasqua di resurrezíone, don Olinto è già rientrato e al suo fianco è rimasto il giovane curato Don Alberto Camellini. Durante la settimana santa Rolando ha partecipato alle celebrazioni liturgiche con grande entusiasmo. Il giorno di Pasqua, durante le messe, Rolando suona l'organo accompagnando i canti. Nei giorni successivi, Rolando non manca mai alla messa e alla comunione. Poi, tornato a casa, esce con un libro sotto braccio e va a studiare presso un boschetto non lontano dalla sua abitazione. Il 10 aprile, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto, è già in chiesa: si celebra la messa cantata in onore di San Víncenzo Ferreri, che non si è potuta celebrare il 5 aprile. Suona e accompagna all'organo i cantori, tra i quali c'è anche il papà. Si accosta alla comunione e si raccoglie in preghiera a ringraziare il Signore. Prima di uscire, prende accordi con i cantori, per "cantare messa" anche l'indomani. Torna a casa. I suoi genitori vanno a lavorare nel campi. Rolando, con i libri sottobraccio, si reca come al solito a studiare nel boschetto a pochi passi da casa. Indossa, come sempre, la sua veste nera. A mezzogiorno, non vedendolo ritornare, i genitori lo vanno a cercare. Tra i libri, sull'erba, trovano un biglietto: «Non cercatelo. Viene un momento con noi,  i partigiani». Il seminarista Rolando Rivi
I partigiani lo spogliano della veste talare, lo insultano, lo percuotono con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un ragazzino coperto di lividi, piangente. Al parroco e ai genitori qualcuno consigliò di recarsi in località Farneta dove c’era una formazione garibaldina ma in quella sede dissero di non avere notizie del seminarista. Raggiunsero allora il comando delle Fiamme Verdi, al comando di Ermanno Gorrieri e lì vennero a sapere che Rolando era stato ucciso dai comunisti alle Piane di Monchio. La conferma venne data dal partigiano delle Brigate Garibaldi Narciso Rioli: il giovane seminarista era stato processato e giustiziato, a suo dire, perché sospettato di essere una spia dei tedeschi. Una vera assurdità. * Nella brigata c’erano alcuni uomini di San Valentino che conoscevano bene la famiglia di Rolando Rivi e sapevano benissimo che quell’accusa era un ignobile pretesto, ma nessuno osò alzare un dito né pronunciare una parola. Uno scarafaggio in meno. Lo coprono con poche palate di terra e di foglie secche. La veste da prete diventa un pallone da calciare; poi sarà appesa, come trofeo di guerra, sotto il porticato di una casa vicina. Era il 13 aprile 1945, Rolando aveva 14 anni e tre mesi. Il cadavere riposa adesso sotto il piano della chiesa della Consolata a San Valentino. Nel 1951 Natalino Corghi e Narciso Rioli, diventati nel frattempo pezzi grossi nel partito, furono processati e condannati in Cassazione a 22 anni di galera. La sentenza del tribunale emessa dalla corte di Appello di Firenze nel 1952, afferma che il seminarista fu ucciso perché rappresentava “un ostacolo all’espansione locale del comunismo”. Il Pubblico ministero al processo ha raccontato che la “veste talare” e “la manifesta intenzione del fanciullo di darsi al sacerdozio” furono tra i principali moventi del delitto. Ne scontarono 6 di anni e tornarono liberi senza che fosse mai noto il mandante, il regista dell'opera.

Oltre che nel libro di Beretta la vita e la storia del Servo di Dio è raccontata nel libro di Paolo Risso, intitolato “Rolando Rivi, un ragazzo per Gesù” (Edizioni Del Noce, 2004). e ROLANDO RIVI Servo di Dio Seminarista Martire di Emilio Bonicelli http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri69.htm 

http://www.rolandorivi.com/Storia/La%20persecuzione%20comunista.htm

PROVINCIA DI MODENA

   
  LENZINI Don Luigi, parroco sessantenne di Crocette di Pavullo, viene svegliato la notte del 20 luglio 1945 da un gruppo di "garibaldini" che lo sequestrano per torturarlo. Strappato dalla  chiesa, torturato, seviziato (gli cavarono gli occhi), fu ucciso dopo lunghissime ore di indescrivibile agonia. Il suo cadavere viene seminascosto nella vigna, e dovranno passare alcuni giorni prima che qualcuno abbia il coraggio di seppellirlo. Il processo, celebrato in una atmosfera di terrore e di omertà, non seppe assicurare alla giustizia umana i colpevoli, mandanti ed esecutori, i quali, con tale orribile delitto, non unico, purtroppo, hanno gettato fango, umiliazione e discredito sul nome della Resistenza Italiana. PAVULLO. Partirà l’8 giugno 2011 il processo di beatificazione di don Luigi Lenzini, martirizzato il 21 luglio 1945. L’8 giugno infatti si insedierà il Tribunale ecclesiastico diocesano, organo al quale spetta a livello locale la decisione della beatificazione, prima che la causa venga postulata anche in Vaticano, dove sarà al vaglio delle Congregazioni dei Santi. Il Tribunale sarà composto da Mons. Angelo Cocca, nelle vesti di vicario del vescovo Lanfranchi, da Mons. Ettore Pini (che svolgerà la funzione di cancelliere) e da don Frigieri Gaetano (che svolgerà la funzione di notaio).

Il 27 luglio 1945 l'impiegato democristiano di Nonantola Bruno Lazzari** è colpito da raffiche di mitra insieme a Giovanni Zoboli mentre sta andando a Bologna a denunciare gravi irregolarità commesse dal Partito Comunista.  Il 19 maggio 1946 viene assassinato a pistolettate, mentre sta andando a messa, il dottor Umberto Montanari, medico condotto a Piumazzo ed ex-partigiano cattolico; la sera del 17 novembre 1948 un uomo fa irruzione nella canonica della parrocchia di Freto e uccide Angelo Casolari e Anna Ducati, membri del consiglio parrocchiale. Gli omicidi continuano anche gli anni successivi: ** il nome di Bruno Lazzari compare nella vicenda dei ragazzi Ebrei di Villa Emma cosi la regione Emilia Romagna  a Pag 13 del notiziario "Assemblea Legislativa Emilia Romagna" maggio-giugno 2008 ... Il religioso (Don Beccari), assieme al dottor Moreali, fu anche di stimolo per la fuga in Svizzera (ottobre 43), portata a termine con successo grazie al sacrificio del bidello di Villa Emma, Goffredo Pacifici, catturato e deportato in uno dei suoi viaggi attraverso il confine. Dopo la fuga don Beccari non rimase ad attendere che la guerra finisse, ma lavorò alacremente per salvare altre persone: in seminario organizzò, con la collaborazione di don Tardini, un laboratorio per la fabbricazione di documenti falsi. Ne ottenne qualcuno “in bianco” da Bruno Lazzari, impiegato del Comune, e si fece fare dall’artigiano Apparuti un fantasioso punzone a secco del Comune di Larino, provincia di Campobasso.

Ermanno Gorrieri partigiano (Claudio) e democristiano: «Io so che molte federazioni provinciali (comuniste) erano divise. Però spesso hanno tollerato e coperto i delitti, aiutando magari i colpevoli a fuggire all’Est (principalmente in Cecoslovacchia) e tacendo su chi era in carcere innocente (come si vuol far credere nel caso Nicolini). Tutti, anche chi non era d’accordo, hanno tenuto un atteggiamento per lo meno ambiguo».

Indro Montanelli, a suo tempo "sconsigliato" di indagare sulle stragi rosse, così commentava quei fatti: «Se il partito ordina di uccidere, si uccide. E se il partito ordina di mandare in galera un altro, ce lo si lascia andare. Tutto questo, c’è chi lo trova "eroico" e "sublime". Io lo trovo semplicemente infame». (R.Be)

DONINI Don Giuseppe, parroco di Castagneto (Modena). Trovato ucciso sulla soglia della sua casa la mattina del 20 aprile 1945. La colpa dell'uccisione fu attribuita in un primo momento ai tedeschi, ma alcune circostanze, emerse in seguito, misero in dubbio questa versione.

GUICCIARDI Don Giovanni, parroco di Mocogno (Modena), ucciso il 10 giugno 1945 nella sua canonica dopo sevizie atroci da chi, col pretesto della lotta di liberazione, aveva compiuto nella zona una lunga serie di rapine e delitti, con totale disprezzo di ogni legge umana e divina. Individuato venne freddato dai carabinieri in un conflitto a fuoco.

TALE' Don Ernesto, parroco di Castellino delle Formiche (Modena), ucciso insieme alla sorella l'l 1 dicembre 1944. Morte lenta «quella carogna non voleva morire ... », dirà al bar uno dei torturatori del prete. Gli dovette dare con la zappa in testa.

VENTURELLI Don Francesco, parroco di Fossoli (Modena). Don Francesco – oro al valor civile alla memoria nel 2006 - Sacerdote di elevate qualità umane e civili, nel corso dell'ultimo conflitto mondiale, si prodigò con eroico coraggio e preclara virtù civica in favore dei cittadini ebrei, dei prigionieri politici e degli internati civili nel Campo di Fossoli, procurando loro medicine, cibo e capi di vestiario. Fulgido esempio di coerenza, di senso di abnegazione e di rigore morale fondato sui più alti valori cristiani e di solidarietà umana. 1943 - 1946 Fossoli (MO).(unico dei 130 sacerdoti uccisi dai "partigiani" ad avere ricevuto la medaglia ma non per il martirio bensì per la sua "attività caritativa" al Lager di Fossoli). Dopo la Liberazione continuava la sua opera di assistenza in aiuto di appartenenti alla ex RSI e di tedescchi sbandati, fino alla barbara uccisione da parte di uno sconosciuto nel gennaio del 1946 dopo che la Voce del partigiano, organo dell'Anpi, lo aveva accusato di aiutare i fascisti.

PRECI Don Giuseppe, parroco di Montalto di Zocca (Modena). Chiamato di notte col solito tranello, fu ucciso sul sagrato della chiesa il 24/5/45.

 

PROVINCIA DI REGGIO EMILIA 

 
 
 

 

 

IL DIAVOLO E DON PESSINA: IL CHI SA PARLI 

di Danilo Morini da l’”informazione” Cronaca di Reggio 18 giugno 2006

 

Alle ore 22.30 del 18 Giugno di sessant’anni fa Don Umberto Pessina, Parroco di San Martino di Correggio, veniva aggredito da tre persone a pochi metri dalla sua Canonica in cui stava rientrando. Vennero esplosi due colpi di rivoltella, uno dei quali mortale,e Don Pessina riuscì a giungere al portone per accasciarsi nell’ingresso ove spirò pronunciando solo:“O Dio, o Dio”. Chi era Don Pessina? :“Un uomo ed un sacerdote di grande fede che faceva il suo dovere e che si batteva con opere concrete e non con chiacchiere. È certamente un martire per le sue idee.”. Così scrive Germano Nicolini, il partigiano Diavolo, neoeletto Sindaco di Correggio (del partito comunista, al quale lui, cattolico, aveva aderito perché credeva che quella fosse la vera strada per mettere in pratica il Vangelo (una specie di vangelo fai da te, self service)) che venne condannato come mandante dell’omicidio a seguito di un complesso iter giudiziario che vide una prima sentenza di condanna nel Febbraio 1949 da parte della Corte d’Assise di Perugia e l’ultima di conferma della condanna nel Giugno 1955 della Corte di Cassazione. Ma Nicolini non era il mandante dell'omicidio, e neanche gli altri due condannati (Elio Ferretti e Antonio Prodi), pur essendo uno di questi reo confesso, erano i veri colpevoli; il vero omicida era ben noto alla dirigenza comunista di Correggio. Erano ben noti al PCI anche gli altri due veri partecipanti alla spedizione punitiva contro don Pessina, spedizione organizzata dallo stesso PCI. Mentre l'omicida - sia nell'immediato che per i decenni successivi - venne protetto in modo omertoso dal PCI di Correggio, ma anche dalla Federazione Reggiana del PCI, gli altri due veri partecipanti furono indotti a rassegnare la loro confessione di colpevolezza ad un notaio di Milano e poi vennero sottratti alla giustizia facendoli emigrare nell'allora ospitale Jugoslavia di Tito. I due perō non furono creduti dalla giustizia, che anzi li condannō per calunnia. L’omicidio di Don Pessina ebbe una vasta eco nella stampa su tutti i più importanti quotidiani nazionali;anche perché se si poteva non certo giustificarsi, ma comunque comprendersi che la guerra civile che aveva insanguinato tutto il Nord per quasi due anni non si concludesse automaticamente con la resa in Italia delle truppe tedesche della fine d’aprile 1945, non era più accettabile che si continuasse ad uccidere a distanza di un anno dalla fine della guerra stessa. Purtroppo gran parte della dirigenza comunista reggiana non riusciva ad accettare le regole di una compiuta democrazia pluripartitica e pertanto chi non era comunista era necessariamente, e perciò stesso, un nemico da controllare o un fascista, anche se spesso si trattava di persone che con il fascismo non aveva avuto niente da spartire. E Don Pessina non fu purtroppo l’ultimo a soccombere in questo clima d’odio e di violenza. Il 24 Agosto di quell’anno a San Michele dei Mucchietti, frazione di Sassuolo sita nella destra del Secchia proprio di fronte a Castellarano (Morini è stato per anni sindaco di questo paese), venne ucciso nella sua residenza di campagna l’Avv. Ferdinando Ferioli, appartenente ad una nota famiglia reggiana di professionisti liberali ed antifascisti. E due giorni dopo, sempre nella sua casa tra Boglioni di Casalgrande e Salvaterra venne ucciso Umberto Farri, socialista prampoliniano (socialista e antifascista), da due mesi rieletto a stragrande maggioranza Sindaco di Casalgrande in una lista unitaria socialcomunista. Anche per questi due delitti,il cui mandante era il Sindaco comunista del vicino comune di Castellarano, Domenico Braglia (“Il piccolo padre” comandante partigiano) la verità era ben nota alla dirigenza comunista reggiana ma ivi rimase in omertà per quasi cinquant’anni sino a quando Aldo Magnani nel 1991 non ha reso noto che allora aveva convocato a Reggio in Federazione il Braglia per intimargli “Basta!”. 

BOLOGNESI Don Sperindio, parroco di Nismozza (Reggio Emilia), fatto saltare con una mina mascherata e camuffata a guisa di pacchetto postale. L’aveva confezionata in quella maniera un ex prigioniero sovietico che faceva parte di una banda di stranieri comandata da un altro russo. Aveva escogitato questa scatoletta con nastrino azzurro e l’aveva seminata lungo la strada dove passava il giovane parroco. Don Sperindio vide quell’oggettino per terra, si chinò a raccoglierlo. Un’esplosione violenta, e di lui non rimasero che membra infrante. Quando comunicarono la disgrazia al russo  rispose: «Lui prete, lui paradiso».  25 ottobre 1944.

DONADELLI don GIUSEPPE - parroco di Vallisnera (Reggio Emilia). Ucciso il 2 luglio 1944.

CORSI Don Aldemiro, parroco di Grassano (Reggio Emilia), assassinato nella sua canonica, con la domestica Zeffirina Corbelli, da partigiani comunisti, la notte del 21 settembre 1944.

JEMMI Don Giuseppe (Montecchio Emilia, Reggio Emilia, 26 dicembre 1919 - Felina, Castelnovo Monti, Reggio Emilia, 19 aprile 1945) nel 1943, è ordinato sacerdote dal Vescovo Mons. Eduardo Brettoni, e mandato viceparroco a Felina. Don Giuseppe, ogni giorno in preghiera davanti al Tabernacolo, poi sulla bici o a piedi a visitare i parrocchiani. Nel settembre 1943, si avvia la lotta per la resistenza ai nazifascisti: lui dà una mano affinché l'Italia ritrovi la libertà perduta. Aiuta i braccati dai violenti di ogni colore. Dà sepoltura agli uccisi insepolti, si reca a trattare perché nessuno finisca in Germania o in carcere, spesso preludio della morte. Non si arrende neppure quando rischia la pelle. Pretende che si evitino violenze "Amate i vostri nemici". Dilaga un clima di odio, in primo luogo contro i preti, da parte di molti. Nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1945, vengono uccisi due padri di famiglia. Il 10 aprile 1945, è Pasqua: per le benedizioni pasquali viene accompagnato da due ragazzi, Raimondo e Meo, che spesso lo sentono ripetere: "Devo avvisare il tale che si metta in salvo perché lo vogliono uccidere". La domenica in Albis, 8 aprile 1945, alla Messa delle 11, la più frequentata, don Giuseppe lancia una focosa predica contro la violenza. E’ la sua fine. Subito dopo la Messa, qualcuno lo ferma sul sagrato e gli dice: "Per carità, che cosa le faranno adesso?". Risponde: "Uccideranno anche me? Ebbene, sconterò il mio purgatorio e andrò diritto in Paradiso, suonando il violino!". Il 19 aprile 1945, don Giuseppe va a celebrar Messa a Poiago per un funerale. Quando rientra a Felina, verso le 13, gli viene detto che sono venuti in due a cercarlo perché c'è bisogno di lui. Don Giuseppe non indugia neppure a pranzare e, in bici, va al luogo dell'appuntamento: è prete e come può astenersi dal servire i fratelli? Ma quando li vede, comprende bene che cosa vogliono. Per tutto il pomeriggio, tra Monchio e il monte Fosola, dove viene trascinato, da Astro e Briano, è trattato come Gesù tra il pretorio di Pilato e il Calvario, soprattutto dopo che, riuscito a scappare per qualche momento, è di nuovo catturato e condotto a morte. All'imbrunire, sul monte Fosola, una raffica lo abbatte sul ciocco d'un albero: cade con il cranio trapassato e la mascella spezzata, nel suo sangue. Ha 25 anni appena. All'indomani, 20 aprile 1945, i due chierichetti, Raimondo e Meo, mandati dal parroco, scoprono sul Fosola il loro "don Pepo", immolato come il Cristo Crocifisso. Si inginocchiano e giurano: "Noi ora prenderemo il tuo posto... Noi saremo sacerdoti di Gesù, come te!". Lo diventeranno entrambi, nel 1954 e nel 1956. http://www.mascellaro.info/aps/node/51

 

 

ILARIUCCI Don Luigi, parroco di Garfagnolo (Reggio Emilia), ucciso il 19 agosto 1944. Dal memoriale di Don “Carlo” Orlandini. …Altri sbandati arrivavano intanto a Poiano (sua parrocchia), informati del mio ritorno. Costituii tre distaccamenti, cui diedi il nome di «Battaglione della Montagna»; al comando furono prescelti Dante Zobbi «Rinaldo», Dino Ferri «Ferro» e Giuseppe Morelli «Burocchi». Mi preoccupai subito di ottenere armi e generi di prima necessità, mettendomi in contatto con il magg. Johnston, che si era portato in Garfagnana: potei fissare un primo incontro alle pendici del monte Caval Bianco. Mi diede assicurazioni circa i rifornimenti e promise di tornare al più presto fra noi (Don «Carlo» inizia la riorganizzazione dei suoi per suo conto, non fidandosi più delle vecchie strutture di Comando. I comunisti sparsero la voce che non voleva più combattere). Un primo lancio servì infatti a metterci in pieno assetto. Intanto nuovi distaccamenti andavano formandosi. Dal marasma che aveva preceduto il rastrellamento e dalla assoluta inettitudine al comando dimostrata da molti comandanti di formazione e dallo stesso «Miro», avevo tratto le mie conclusioni pienamente condivise dai partigiani della mia zona, da «Zago» e da tutti coloro che mi erano rimasti al fianco: o si riorganizzava il Movimento su basi di disciplina, si vietavano i saccheggi ed i prelevamenti indiscriminati, si bandiva la politica di parte in seno alle formazioni e si creava un Comando con persone dotate di coraggio e di capacità, oppure avrei dato vita ad una brigata indipendente, sotto il mio diretto comando. Queste furono le condizioni che posi chiaramente ad «Eros», in occasione di una visita che egli mi fece, accompagnato dalla staffetta «Resina» (Rosa Becchi) e da altri due partigiani.
Per indurmi a recedere dai miei propositi mi offrì la carica di Vice Comandante generale; gli risposi che non aspiravo a quello e restai fermo sui miei punti, Dopo l'infruttuoso colloquio «Eros» inviò i due partigiani del suo seguito da «Sintoni» con una lettera. L’indomani i due andavano ad ammazzare il Parroco di Garfagnolo, don Luigi Ilariucci,
Prima di decidere definitivamente volli incontrarmi con «Miro» che sapevo essere a Dèusi. Vi andai con una squadra di uomini, che però mi sconsigliarono, anzi mi impedirono, di entrare a Dèusi, perché circolava insistentemente la voce che attribuiva ai comunisti l’intenzione di uccidermi
3) L'uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, avvenne il 19 agosto, mentre dalla sua parrocchia si portava a Costa dè Grassi per un servizio religioso. Dopo la guerra don Orlandini (Carlo) denunciò i due esecutori del fatto: «Rufo» «Stella». «Sintoni» = Pattacini Fausto: era stato comandante della Brig. G.A.P. di Reggio. Nel maggio deve salire in montagna con un gruppo di suoi uomini: si reca nella Val d'Enza, ancora sguarnita di gruppi partigiani. Sarà il Comandante del Distaccamento F.lli Cervi. Dal «diario» di Eros sembra che nella lettera egli chiedesse informazioni sulla situazione nella zona, ricevendone riscontro proprio il 19/8.
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MANFREDINI Don Luigi, parroco di Budrio (Reggio Emilia), ucciso il 14 dicembre 1944.  dal memoriale di Don Carlo Orlandini Ed. Del Noce Padova 2009. … In questo frattempo a Villaminozzo erano scesi anche «Eros» e «Miro», i quali unitisi al Comando modenese avevano dato vita ad un Comando unico di tutte le formazioni delle due province con a capo «Armando» (Mario Ricci) commissario Osvaldo Poppi "Davide" ed avevano proclamato la cosiddetta «Repubblica di Montefiorino". Fui chiamato anch'io con l'incarico di intendente generale; quindi il settore di Ligonchio passò sotto il comando di Remo Torlai (Tito). Arrivato a Villaminozzo vi trovai una grossa confusione di partigiani fra reggiani e modenesi. Alla loro entrata in paese i
modenesi avevano arrestato varie persone, tra le quali il parroco, ma non le avevano fucilate perché volevano fossi io a giustiziarle: era infatti soprattutto contro di me che essi intendevano in tal modo sfogare il loro livore. Il parroco Don Manfredini era incolpato di aver fatto arrestare don Pasquino Borghi: toccava quindi a me di vendicare il mio carissimo confratello ucciso. Riuscii a salvare la vita di tutti. Siccome il parroco, causa la sua imprudenza, rischiava di venir fatto fuori contro il mio volere, scrissi al Vescovo di toglierlo da quel posto. Fu trasferito in pianura, ma anche laggiù lo raggiunse la vendetta dei partigiani.  Don Luigi Manfredini fu trasferito a Budrio di Correggio ma venne ucciso la notte del 14 dicembre 1944 da due partigiani comunisti.

   
 

Ma dovette scomodarsi da Roma Palmiro Togliatti (era anche Ministro di Grazia e Giustizia sotto la Presidenza del Consiglio affidata a De Gasperi) che convocò a Reggio Emilia nel Settembre del 1946 i massimi dirigenti delle Federazioni comuniste emiliane per dire loro che questi delitti politici e le violenze in genere dovevano cessare, e questo anche nell’interesse dell’immagine dello stesso partito. E in questa veste fece adottare il Decreto Presidenziale n. 4 del 22 Giugno 1946, pubblicato nella G.U. del successivo 23 Giugno con efficacia (retroattiva) dal 18 !!!!, che recava amnistia ed indulto per reati comuni politici e militari. Nella relazione introduttiva scriveva: “Per i reati politici ci si è trovati di fronte a esigenze in parte e talora contrastanti, di cui si è dovuto tener conto nel determinare il contenuto e i limiti dell’atto di clemenza. Giusta e profondamente sentita, da un lato, la necessità di un rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale. La Repubblica, sorta dalla aspirazione al rinnovamento della nostra vita nazionale, non può non dare soddisfazione a questa necessità, presentandosi così sin dai primi suoi passi come il regime della pacificazione e riconciliazione. Un atto di clemenza è per essa in pari tempo atto di forza e di fiducia nei destini del Paese. La coincidenza con l’omicidio di Don Pessina è un fatto meramente casuale oppure ben voluto da Togliatti?. Dobbiamo inoltre ricordare che nella notte del 26 Marzo 1947 l’Assemblea Costituente votò con 350 SÌ e 149 NO l’art.7 della tuttora vigente Costituzione che prevede che lo Stato e la Chiesa Cattolica,sono, ciascuno, nel proprio ordine indipendenti e sovrani e che i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi dell’11.02.1929. Togliatti portò tutto il PCI al voto a favore di questo testo unitamente alla DC (Don Rossetti) che lo aveva proposto. Votarono invece contro sia socialisti di Nenni che altri Deputati appartenenti ai partiti laici minori. Il voto favorevole del PCI era tutt’altro che scontato e la scelta sicuramente giusta di Togliatti è tuttora fonte di diverse interpretazioni. Ne diede una con una sua vignetta Giovanni Guareschi nel suo settimanale “Candido”, allora di grande successo, nel numero 14 dell’Aprile immediatamente successivo sia al voto favorevole del PCI all’art. 7 che all’arresto di Nicolini avvenuto il 13 dello stesso Marzo 1947. Ripresentiamo la vignetta il cui commento alla luce dei fatti, oggi noti nella loro interezza, lasciamo ai nostri lettori. Resta il fatto che Togliatti, dotato di grande intuito,votò l’art.7 per non riaprire un dissidio tra Stato e Chiesa Cattolica;resta il fatto della responsabilità del PCI reggiano e correggese nell’omicidio di Don Pessina; resta il fatto che Mons. Socche non è il responsabile dell’errore della Giustizia penale ai danni di Germano Nicolini. In questo clima politico di prepotenza settaria, che oggi è difficile credere che abbia caratterizzato la ora paciosa e sazia provincia reggiana,maturò il sacrificio di una nobile figura di sacerdote qual’era Don Umberto Pessina, zelante nel suo ministero parrocchiale e nello stesso tempo, attento alla giustizia sociale a favore del gregge affidatogli. In questi ultimi anni più che dell’omicidio di Don Pessina si è parlato e scritto della revisione della condanna a suo tempo inflitta a Nicolini che si è sempre dichiarato innocente dello stesso. Nicolini nel 1993 ha pubblicato un corposo libro dal titolo volutamente polemico “Nessuno vuole la verità”.  - Nicolini (classe 1919, cattolico, comandante del terzo battaglione Sap della 77ª brigata Manfredi con il nome di «Diavolo», fu arrestato poco dopo essere stato eletto sindaco anche con i voti Dc. Dopo la condanna come mandante dell'omicidio, fu radiato dall'esercito e interdetto dai pubblici uffici.  Assolto 45 anni dopo il delitto ( ha ottenuto la medaglia d'argento al valore militare, una pensione e un sostanzioso assegno) imputa il suo caso ad un complotto ordito ai suoi danni dal Vescovo Beniamino Socche su istigazione del sacerdote correggese Don Neviani e dal Capitano dei Carabinieri, Vesce. Di certo non si può dimenticare la immediata reazione di Mons. Socche all’omicidio di Don Pessina;fu indomita, suscitò l’interesse di tutta la nazione sul clima di odio e di violenza che caratterizzava l’egemonia della struttura partitica comunista sulla provincia reggiana,pretese che venissero individuati e condannati i colpevoli anche allo scopo di tutelare i suoi parroci nel loro ministero religioso. Mons.Socche tramite Don Enzo Neviani aveva sì raccolto la denuncia di una donna di Correggio, denuncia contro Nicolini che aveva, dato il clima politico del tempo, una sua credibilità, ma la condanna spettava ai giudici ed i giudici, e non il Vescovo Socche, condannarono Nicolini. La condanna si è dimostrata ingiusta e sbagliata e questo solo grazie alla fine dell’omertà del PCI nell’uccisione di Don Pessina ed i giudici hanno nel 1993 hanno restituito a Germano Nicolini la sua onorabilità (ndr: e una cifra considerevole, ma non di tasca dei giudici). Don Pessina invece non può ottenere purtroppo alcuna revisione giudiziaria;rimane un martire della fede ed un esempio di testimonianza per i sacerdoti e le generazioni future e deve essere ricordato oggi, in occasione del sessantennio del suo sacrificio,ma dovrà essere ricordato anche in futuro come modello di coraggiosa coerenza nella fede nel Cristo risorto.

MATTIOLI Don Dante, parroco di Coruzza (Reggio Emilia), prelevato dai partigiani rossi la notte dell'11 aprile 1945 col nipote.

PESSINA Don Umberto, parroco di San Martino di Correggio, ucciso il 18 giugno 1946 da partigiani comunisti.

RIVI Rolando, seminarista, vedi a fianco

TERENZIANI Don Carlo, prevosto di Ventoso (Reggio Emilia), fucilato la sera del 29 aprile 1945 perché ex cappellano della milizia. Veniva prelevato nei pressi della basilica della Madonna della Ghiara, a fronte alla Prefettura di Reggio Emilia, da appartenenti formazioni partigiane,

Da una fonte riporto che: Ufficialmente sono stati 729 i membri del clero italiano - dai vescovi ai seminaristi, dai religiosi ai “fratelli laici” - morti a causa della seconda guerra mondiale. 422 morirono prima dell'8 settembre 1943: cappellani militari uccisi in combattimento, parroci periti sotto i bombardamenti. 191 invece risultano morti durante la Resistenza, di cui la maggior parte (158) trucidati dai tedeschi e 33 dai repubblichini. Infine 108 furono le vittime dei comunisti: 53 caduti durante la Resistenza, 14 immediatamente prima del 25 aprile e 41 dopo. Analizzando le stesse cifre da un altro punto di vista, l'impressione di stranezza non muta: a fronte di 57 sacerdoti morti in combattimento, infatti, di 31 defunti in prigionia e 18 nei campi di concentramento; di contro ai 265 religiosi morti durante i bombardamenti, ai 49 scomparsi in servizio per malattia e ai 30 dispersi; ben 279 appartenenti al clero italiano sono rubricati alla voce «assassinati per rappresaglia o per odio di parte»: come dire che quasi il 40 % delle vittime belliche con la talare non furono stroncate dai colpi diretti della guerra, bensì per motivi più ideologici o addirittura «politici», che siano neri oppure rossi. Per fare un altro paragone significativo, almeno in cifre assolute: i decessi dei cappellani militari durante tutto il conflitto sono stati 148, mentre i parroci italiani morti violentemente furono 238 (più 41 viceparroci e 129 tra seminaristi, novizi e religiosi laici); quasi che per i sacerdoti il fronte sia stato meno pericoloso dell'ombra del campanile (del resto lo fu anche per la popolazione civile).

ALTRI

BARDET (Border) Don Luigi, parroco di Hone (Aosta), ucciso il 5 marzo 1946 perché aveva messo in guardia i suoi parrocchiani dalle insidie comuniste.
BEGHE' don Carlo, Parroco di Novegigola (Apuania), sottoposto il 2 marzo 1945 a finta fucilazione che gli produsse una ferita mortale
CALCAGNO Don Tullio - direttore di «Crociata Italica» (già scomunicato per i suoi eccessi mussoliniani), fucilato dai partigiani comunisti a Milano il 29 aprile 1945.
CAVIGLIA Don Sebastiano, cappellano della GNR, ucciso il 27 aprile 1945 ad Asti.
DE AMICIS Don Edmondo, cappellano, pluridecorato della prima guerra mondiale, ucciso dai «gappisti», a Torino, sulla soglia della sua abitazione nel tardo pomeriggio del 24 aprile 1945.
DOLFI Don Adolfo, canonico della Cattedrale di Volterra, sottoposto il 28 maggio 1945 a torture che lo portarono alla morte l'8 ottobre successivo.
DORFMANN Don Giuseppe, fucilato nel bosco di Posina (Vicenza) il 27 aprile 1945.
FASCE Don Colombo, parroco di Cesino (Genova), ucciso nel maggio del '45 dai partigiani comunisti.
PELLIZZARI Don Francesco, parroco di Tagliolo (Acqui), chiamato nella notte del 5 maggio 1945 e fatto sparire per sempre.
ROMITI Padre Angelico, o.f.m., cappellano degli allievi ufficiali della Scuola di Fontanellato, decorato al v.m., ucciso la sera del 7 maggio 1945 da partigiani comunisti.
SANGIORGI Don Leandro, salesiano, cappellano militare decorato al v.m., fucilato a Sordevolo Biellese il 30 aprile 1945.
SOLARO Don Luigi, di Torino, ucciso il 4 aprile 1945 perché congiunto del federale di Torino Giuseppe Solaro anch'egli soppresso.
VIOLI Don Giuseppe, parroco di Santa Lucia di Medesano (Parma), ucciso il 31 novembre 1945 da partigiani comunisti.

Nell'autunno del 1946 Enzo Biagi parlava di "piccola Russia nella piana del Po", e aggiungeva: "Qui non vi è certezza di vivere, la tranquillità manca. I carabinieri fanno il possibile e l'impossibile, ma la gente, gli osservatori, i testimoni, si chiudono nel mutismo assoluto. Nessuno ha visto, nessuno ha udito".

II clima di quei giorni fu sintetizzato nell'intervento alla assemblea costituente, almeno come riferiscono i giornali, del deputato comunista Francesco Scotti, commissario politico in Spagna: "Quei 300.000 li abbiamo ammazzati noi, ed abbiamo fatto benissimo". Poi smentirà, accusando i giornalisti di aver travisato le sue parole. Non smentirà invece Pietro Nenni (Ma Pisanò, li fissò tra i 95 e 100mila)

 

IL CASO SCALFARO

Alla vigilia della liberazione, per contrastare quello che ormai sembrava essere diventato il mattatoio Italia, il CLN decise di costituire un tribunale speciale sulla falsariga di quello Fascista del 1926 (riepiloghiamo da Anpi Ass.Naz. Partigiani: Il Tribunale speciale fascista fu istituito nel 1926, con la legge n. 2008 [26 novembre], recante "Provvedimenti per la Difesa dello Stato". Esso reintroduceva la pena di morte per gli attentati contro la persona del Re e del capo del fascismo e puniva con sanzioni severissime ogni attività politica contraria al regime. Tutti i partiti politici erano già stati sciolti e messi fuori legge. Tale attività dunque, era bollata come "sovversiva". Altra specialità di quel tribunale consisteva nel fatto che il collegio giudicante non era costituito da magistrati, ma da ufficiali della milizia fascista. Ciò non lasciava adito ad alcun dubbio sulla loro imparzialità. Per il modo stesso della sua origine e della sua costituzione, era un tribunale per il quale non valeva la norma generale che "la legge è uguale per tutti").
Il decreto che istituì invece le Corti d'assise straordinarie (22 aprile 1945 n. 142 intitolato
"Istituzioni delle Corti straordinarie di assise per i reati di collaborazione con i tedeschi") aveva vigore per sei mesi e sostituiva i tribunali partigiani in cui un dibattimento a senso unico durava in media 2 ore. Furono istituite nei capoluoghi di provincia e nei centri minori come Sezioni delle Corti. Al Cln, che aveva fatto fuoco e fiamme per ottenerla, fu assegnata l'esclusiva della nomina dei giudici popolari, tutta brava gente per la quale la colpevolezza degli imputati era assolutamente fuori discussione: formazione delle giurie ("Art. 5 - Entro sette giorni i Comitati di Liberazione Nazionale del capoluogo ... compilano un elenco di almeno cento cittadini maggiorenni di illibata (etimologia: Non toccato, intiero cuore incorrotto ed immacolato), condotta morale e politica e lo presentano al presidente del Tribunale del capoluogo... Il presidente del Tribunale, entro i successivi sette giorni, compila l'elenco di cinquanta giudici popolari, scegliendoli tra quelli designati dai Comitati di Liberazione Nazionale...".) Con le medesime disposizioni fu previsto che le Corti fossero composte da un Presidente nominato dal Primo presidente della Corte d'appello tra i magistrati di grado non inferiore a quello di consigliere di Corte d'appello e da quattro giudici popolari estratti in sorte dall’elenco. Il funzionamento delle Corti straordinarie d'assise era previsto (art. 18) per la durata di sei mesi: successivamente i processi sarebbero stati trasferiti alle Sezioni speciali di Corte d'assise destinate a rimanere in funzione fino al 31 marzo 1947. Con il decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944 n. 159 il governo del Sud aveva già emanato una serie di disposizioni dal titolo "Sanzioni contro il fascismo" che prevedevano da un lato la punizione di coloro che per le cariche rivestite venivano considerati responsabili dell'instaurazione e continuità del regime fascista, dall'altro la punizione di coloro che avevano promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 o avevano in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista, nonché di chi dopo l'8 settembre 1943 (art. 5) aveva commesso delitti "contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore (...)". La competenza veniva affidata per la prima delle suddette categorie di reati a un'Alta Corte di giustizia e per la seconda categoria alla magistratura ordinaria o militare secondo le norme vigenti. Il 22 aprile 1945, nell'imminenza della liberazione, con decreto legislativo luogotenenziale n. 142 si istituiva come detto le Corti straordinarie di assise a esse affidando l'esclusiva competenza per tutti i reati di collaborazionismo come definiti dal precedente decreto del 27 luglio 1944. Ai comuni omicidi di strada si erano aggiunte le condanne a morte delle corti. Dal 25 aprile 1945 al 5 marzo 1947 vi furono 88 esecuzioni di collaborazionisti. Le ultime tre fucilazioni ebbero luogo nel marzo 1947.
Matteo Dominioni da Intermarx rivista virtuale di analisi e critica materialista: Le Corti d'Assise straordinarie si pronunciarono per un numero di casi presumibilmente tra i 20.000 e i 30.000. Non erano veri e propri tribunali popolari ma la presenza del popolo era significativa nei processi per più ragioni: i fatti di cui erano chiamati a rispondere gli imputati erano quelli più efferati e che maggiormente avevano formato l'antagonismo della gente verso il regime nazifascista; le aule dei tribunali molto spesso erano colme di persone che "animavano" i processi...

«Ogni proda è cimitero, in Emilia e dappertutto». Lo scriveva il prete "di sinistra" don Primo Mazzolari. E per molti anni, dopo la guerra, tra i comunisti della pianura padana si sentì il sacrilego motteggio, ogniqualvolta capitasse una scampagnata sul prato con lambrusco e salame: «Non mettere la mano per terra, potrebbe morderti!»... «Se, dopo la liberazione, ogni compagno avesse ucciso il proprio parroco, ogni contadino il padrone, a quest'ora avremmo risolto il problema!».

Tanto bastò perché gli alleati dopo mesi di caos imponessero un ritorno parziale alla giustizia ordinaria. Per saperne di più "I conti con il fascismo" di Hans Woller edizioni Mulino.

Dalla "Laudatio" in onore di Oscar Luigi Scalfaro pronunziata dalla Prof. Elisabetta Galeotti, Professore ordinario di Filosofia politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università del Piemonte orientale "Amedeo Avogadro", in occasione del conferimento della laurea h.c., da parte della Facoltà di Lettere e Filosofia di tale Università, avvenuto in Vercelli il 27 ottobre 2003, ... A conclusione del mio intervento, riportando un episodio dell’esperienza da magistrato del Presidente Scalfaro nel confuso (confuso per prof. Galeotti) periodo successivo alla liberazione dei nazifascisti, episodio che sintetizza in modo esemplare la sua etica pubblica. La vicenda si riferisce a quando Oscar Luigi Scalfaro, giovane magistrato di 27 anni, si trovò nel 1945 a far parte delle Corti di Assise speciali della sua città, Novara. Pur non essendo originariamente nominato Pubblico Ministero, in una certa occasione, per carenza di magistrati disponibili, si trovò a rivestire questo ruolo per un processo complicato relativo a uno spietato assassinio compiuto dalla polizia repubblichina. Si trattava di un crimine efferato, accertato e ben circostanziato per il quale, seconde il codice penale di guerra allora in vigore, veniva richiesta la pena capitale. Il giovane magistrato, contrario per principio e turbato dall’idea di dover chiedere la condanna a morte, studiò l’incartamento a lungo e si consigliò anche con un sacerdote laureato in diritto civile e canonico. Costui cercò di sollevare dalle sue spalle la terribile responsabilità, ricordandogli che la Chiesa riconosce allo stato il diritto di comminare la pena di morte in casi particolarmente gravi. Arrivato il giorno del dibattimento, Scalfaro presentò prima i fatti e le responsabilità, affermò che su di essi poggiava la richiesta della pena capitale, ma continuò dichiarando la sua opposizione ad essa e argomentando il perché. Aggiunse anche che se avesse trovato un conflitto tra il dettame della sua religione e la pena di morte, si sarebbe dimesso dalla magistratura, ma poiché la sua religione l'autorizzava....andò avanti. Le condanne a morte ottenute da Scalfaro nel '45 sono state 7 (sarebbe interessante conoscere la versione odierna del laureato). Fra di esse quella dell'avv.Enrico Vezzalini pubblico accusatore di Ciano al processo di Verona.

Il Caso Fanin: Giuseppe, (coltivatori diretti originari di Sossano Vicentino: vivevano a Tassinara di S.Giovanni in Persiceto (BO) dal 1910) secondo di dieci figli, nacque l'8 gennaio 1924. Non rispose alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale, ma ciò non gli evitò un arresto, dopo il 25 aprile da parte dei partigiani con l’accusa di collaborazione coi fascisti. Portati lui e il padre Virgilio nella sede del CLN furono poi prosciolti da ogni sospetto. Giuseppe diplomato nell'Istituto Agrario di Imola, fondò le ACLI dopo la costituzione della DC a S. Giovanni. Nel 1946, in rappresentanza della corrente cristiana nella CGIL, partecipò all'Assemblea preparatoria del Congresso della Federterra. Fu, come altri, oggetto di incidenti e di tentativi di aggressione (le cooperative di consumo bianche furono assalite e saccheggiate). Nei mesi successivi all'attentato a Togliatti da parte di un giovane neofascista (14 luglio 1948), fu tacciato, in un volantino della Lega braccianti di S.Giovanni in Persiceto, di essere un "servo" degli agrari. Tanto bastava per decretare la sua condanna a morte. La sera del 4 novembre, mentre rientrava a casa in bicicletta, fu abbattuto a colpi di sbarra da tre braccianti comunisti, su mandato del Segretario della Sezione del PCI di S.Giovanni in Persiceto

(FONTE: Per Giuseppe Fanin - Documenti - Nuova Universale Cappelli).

 

Il Caso Bottazzi "Beta"

 

Dal libro di Giampaolo Pansa "Il sangue dei vinti": "Anche l'altro capo del gruppo si atteggiava a teorico. Era Beta, 23 anni, già seminarista di Don Tarozzi e poi studente universitario". La Gazzetta di Modena descrisse Beta così: "Era magro, effeminato nella voce, nel gestire, nel camminare. A volte aveva sul viso un' espressione di sadismo e di follia". Dall'intervista di "Beta", indicato come Dante Bottazzi nel libro di Ermanno Gorrieri “Ritorno a Montefiorino”, rilasciata a TeleModena: «Non ho niente di cui vergognarmi. Sono venuto qui in Croazia nel 1946, perché ero ricercato dalla polizia. Ho cominciato subito a lavorare, poi mi sono laureato all'università di Zagabria. Ho avuto anche il diploma di partigiano dal presidente Pertini. E sono iscritto ai Ds e all'Anpi di Castelfranco Emilia».  «Il segretario di Castelfranco è una ragazza di 25 anni, Nadia Manni. Come poteva sapere?» spiegano in federazione (bastava studiare storia). A dichiararsi è stato proprio Bottazzi, in un’intervista ad Alessandro Smerieri e Maria Elena Mele, che l'avevano cercato per una trasmissione rievocativa su Telemodena: «Ho la coscienza tranquilla. Sono innocente. Sono tornato più volte al paese, liberamente». «Ho sempre lavorato e tuttora lavoro per la giustizia sociale. Questo mi ha spinto a reiscrivermi. Sì, sono iscritto ai Ds».
Scrive ancora Gorrieri: «L’agricoltore Luigi Cavallotti viene spogliato, derubato e poi strangolato con una fune. L'operaio Dante Schiavoni viene trovato cadavere, con un biglietto al collo: "Eroicamente mi sono ucciso per aver fatto la spia". Confusa con la vittima designata, il fattore Leo Pesci, viene freddato per errore il diciassettenne Giorgio Veronesi». Bottazzi non fu processato per le vittime di cui scrivono Pansa e Gorrieri, uccise nel mini sotto-triangolo di 6 chilometri per lato Castelfranco-Manzolino-Piumazzo. La condanna riguardò solo i tre casi predetti.

Così altri definiscono la banda Bottazzi

Radunavano in piazza Manzolino la gente ed ammazzava seduta stante tutti quelli che la gente definiva "spie".
Capi temuti ed assoluti della banda (descritta dai giornali dell'epoca come «un piccolo esercito di malfattori, pronti a battersi con cappi e cartucce, contro le persone danarose, i benestanti, i padroni di poderi in nome di alti principi sociali») due individui: Vittorio Bolognini classe 1921 di Anzola Emilia, capobanda e Dante Bottazzi classe 1922. Vittorio Bolognini, alto, capelli castani, elegante, istruito, gelido in tutto, si era messo in testa di imitare Lenin e Stalin nell'instaurare una Repubblica dei Soviet e considerava la proprietà un furto, i possidenti reazionari e nemici dell'umanità, era stato comandante GAP ed avendo causato nella zona di Anzola Emilia la presa e uccisione di molti partigiani, dal CUMER venne condannato a morte. Si sottrasse all'esecuzione andandosene in montagna Pavullo, Montefiorino, dove si trovava la Brigata Garibaldina (cioè comunista) di Marcello e della Santa Giulia, sotto il comando di Mario Allegretti. Un giorno, a Volta di S. Martino di Polinago (provincia di Modena) uccise senza motivo e solo perché gli era "sembrato dall'aspetto una spia" un partigiano. Scampò alla morte grazie alla protezione del comunista Marcello, comandante garibaldino che lo proteggeva. A quel tempo si faceva passare per l'Aiutante Maggiore Generale delle SAP-Montagna incaricato da Pedrazzi del PCI di Modena. (Nel gennaio 1952 ci fu la condanna di Rino Covoni, Vittorio Bolognini, Dante Bottazzi, Giuseppe Stopazzini, Bolognini fuggì dalle carceri di Bologna ed in seguito graziato dal Presidente della Repubblica!).

     

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  Dante Bottazzi (1922), ex seminarista ed ex studente universitario (beneficato da quel don Torrazzi di Riolo che sarà da lui ucciso). Era magro, effeminato nell'andatura e nella voce, aveva un volto che esprimeva sadismo e follia.  Viaggiava in una Topolino nera detta "l'auto fantasma". (Bolognini aveva invece una 1100 Fiat) Questa banda, nel periodo di un anno, fu responsabile di 44 uccisioni, 22 incendi dolosi, 130 furti di bestiame, innumerevoli estorsioni e saccheggi. Il PCI di Modena, pur conoscendo tutto, non intervenne mai, al contrario.

Giorgio Morelli nome di battaglia "Solitario" (Albinea, 1926-Arco, 9 agosto 1947)
Il primo partigiano a entrare in Reggio Emilia, alle 16.30 del 24 aprile 1945, fu un cattolico: Giorgio Morelli, nome di battaglia «Il Solitario». Si era fatto prestare una bicicletta da donna da Ermanno Dossetti (fratello del più noto futuro deputato-monaco Giuseppe) ed a cavallo dello scalcagnato mezzo si era spinto nella città ormai quasi abbandonata dai tedeschi. Issato il tricolore sul balcone del municipio.
Era la tarda serata del 27 gennaio 1947 quando Morelli, che rientrava presso la sua casa di Borzano, venne raggiunto da due ciclisti, rimasti per sempre ignoti, che gli scaricarono contro ben sei colpi di rivoltella. Le ferite inflittegli, che inizialmente parevano non gravi lo portarono invece a morire nell'agosto successivo, a soli 21 anni ad Arco di Trento. Le ferite gli avevano, per quei tempi, irreparabilmente leso un polmone. La Nuova Penna (l'organo di stampa edito a Costabona da don "Carlo" alla fine della guerra e stampato con enormi difficoltà fino al 1947, dovevano stamparla dai Benedettini di Parma, perché in provincia di Reggio nessuna tipografia poteva permettersi uno sgarro del genere ai comunisti) si caratterizzò nel denunciare le uccisioni che insanguinavano il territorio reggiano a guerra finita ed altri omicidi avvenuti prima e che avevano riguardato partigiani liberi ed indipendenti. Erano questi, per Morelli, atti incompatibili con i veri valori della Resistenza che non potevano essere macchiati da azioni criminali, vere e proprie vendette ed esecuzioni motivate da fanatismo, da inaccettabili furori ideologici, da volontà di sopraffazione politica. dal discorso del Presidente del Senato Franco Marini pronunciato ad Albinea (RE) in occasione della cerimonia di commemorazione dei partigiani don Domenico Orlandini e Giorgio Morelli 7 gennaio 2008
Morelli, parlando con Eros: «Nel nostro ultimo colloquio hai pronunciato queste parole: "Preferirei darvi un colpo di pistola che discutere con voi!"». Auspicio che si realizza una sera di gennaio 1947; i colpi di pistola del solito agguato però non uccidono l'intrepido cercatore della verità MORELLI, che fa in tempo a farsi vedere a Reggio con addosso l'impermeabile sforacchiato, a mo' di sfida e di memento. La morte arriva il 9 agosto 1947, in un sanatorio del Trentino dove «Il Solitario» tenta di curare la tubercolosi nata dalla ferita. Sul suo diario è rimasta questa frase: «L'odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza che mi ha sorretto».

   
In Emilia-Romagna sono avvenute nella nostra regione più di 500 stragi, con 4.500 civili e partigiani uccisi. Più di un terzo del totale nazionale! Per quanto riguarda la provincia di Modena, risultano 127 uccisioni singole, 60 eccidi con 175 uccisi, 44 stragi con 580 vittime. I partigiani uccisi in combattimento risultano essere 703, gli uccisi per rappresaglia 882. Per quanto riguarda i procedimenti presenti  nell’Armadio della vergogna concernenti Modena, risultano 42 fascicoli, in prevalenza uccisioni singole, ma, in qualche caso, relativi a rappresaglie collettive: è il caso degli eccidi di S. Matteo, Concordia, Novi, Saliceto Buzzalino, Migliarina. Ci sono anche stragi: si tratta in particolare degli episodi di Monchio, San Cesario sul Panaro, Mirandola, Sant’Anna Pelago, Cibeno di Carpi. Claudio Silingardi - Istituto storico di Modena  
     

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