CAPPELLANI
MILITARI
ULTIMO CAPITOLO
Considerazioni finali
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da
"l'Impegno", a. XV, n. 2, agosto 1995 © Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli. È consentito l'utilizzo solo citando la fonte |
Mimmo Franzinelli: La religione castrense tra ammortizzazione e legittimazione della violenza bellica
http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/franzinelli295.html
I cappellani dinanzi
all'internamento
delle popolazioni nel
capitolo campi di concentramento italiani nel 1944
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Tre modelli di sacerdozio militare
L'uniformazione categoriale dei cappellani (realtà dietro cui stavano opzioni e soggettività diverse) vela la necessaria distinzione tra chi era entrato nel clero militare per spirito di servizio e per testimonianza religiosa, chi lo fece in ottemperanza ai desideri (ordini) del suo vescovo e chi impresse una valenza politica al proprio apostolato. Una distinzione di massima è altresì riscontrabile tra i reclutati dalle parrocchie e dai conventi: I casi di fanatica politicizzazione sono in grande maggioranza riferibili al clero secolare. Sin dai primi mesi di guerra, nella campagna contro la Francia, è possibile individuare le tre principali "correnti" in cui si suddivise il clero militare: quella rigorosamente sacerdotale, quella patriottico-nazionalistica e quella fascista.
1-Il bergamasco don Giacomo Vender è il prototipo del religioso assolutamente rispettoso dei limiti della rigorosa assistenza spirituale: lo potremmo definire una sorta di parroco dei soldati. Cessati i combattimenti, trovandosi di stanza a Montauroux, si recò presso la Curia di Tolone per concertare il proprio comportamento e svolse addirittura un'opera di mediazione tra il sacerdote locale ed i suoi fedeli (da tempo ai ferri corti). Le relazioni da lui inviate all'Ordinariato militare sono prive di retorica e non contengono considerazioni politico-militari. Vender espresse la massima preoccupazione per la deficitaria situazione morale delle truppe, così come in tempo di pace aveva presumibilmente seguito con apprensione la condotta ed il costume dei fedeli:
"In generale lo spirito dei soldati è buono. Noto però troppa intesa, assai ambigua, tra i militari e l'ambiente femminile della zona. In ciò non ottengo alcun miglioramento. La stampa che vedo tra le mani dei soldati concorre maleficamente. Il settimanale 'Gente Nostra' da mesi non giunge più al Reggimento. Era forse il periodico più passabile, ma - dicono i soldati - appunto per questo poco interessante". Don
Giacomo Vender sacerdote loverese (bg) per il suo impegno per i
perseguitati durante gli anni della Resistenza trascorse un periodo nel
carcere bresciano senza venir meno alle sue convinzioni di libertà e
giustizia. La sua detenzione si concluse con una condanna e la reclusione
nelle carceri di Bergamo, da dove venne liberato dai partigiani
bergamaschi
2-…fra Ginepro: vedi Biografia Padre Reginaldo Giuliani
3- Esponente della terza corrente del clero militare è don Ferruccio Richeldi, cappellano
patriottico-nazionalista.. Tempestosi i suoi rapporti coi preti francesi, che egli tendeva a scavalcare, per una connaturata diffidenza:
"Il Clero francese, intelligente ed assai abile, è eminentemente nazionalista e poco propenso alla politica dell'Asse: così pure in particolare alla politica italiana. Sono naturalmente assai contrari al passaggio dei territori di loro giurisdizione all'Italia. In complesso la popolazione rispetta il soldato italiano e accoglie volentieri il Sacerdote italiano (cappellano militare). Bisogna notare che il Clero francese ha molta influenza sulla popolazione, ciò raffredda in gran parte i rapporti di essa verso di noi, rapporti che sarebbero naturalmente più cordiali e ispirati a maggiore
fiducia". Il nazionalista Richeldi si urtò col clero francese, dal momento che egli non concepiva altro modo, se non il nazionalista, di esercitare il mandato pastorale.
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Il cappellano e la morte in guerra
I doveri di servizio portarono i cappellani a vivere fianco a fianco con violenza e morte: "Compito particolare dei cappellani militari in zona di combattimento è di avvicinare e di seguire anche i più piccoli reparti, portando a tutti la parola del conforto e della fede, atta a tenerne alto lo spirito, ed a identificare le salme". ….. La spiritualizzazione ed il superamento della morte in combattimento costituiscono l'ossatura del diario di don Gnocchi "Cristo con gli alpini", uscito in prima edizione dopo la campagna di Grecia e successivamente completato dall'esperienza della guerra di Russia. Molti cappellani notarono che nell'incombenza del pericolo la tensione spirituale era maggiore che non nei momenti di riposo. Sul fronte della moralità - battaglia sempre affrontata energicamente dai religiosi inseriti nelle armate - la campagna di Grecia si rivelò emblematica: quando ai combattimenti si sostituì l'occupazione, i cappellani assistettero attoniti al rilassamento morale dei soldati, che "fraternizzarono" con donne
locali, si rivelarono sempre più insofferenti della disciplina e in alcuni casi commisero atti di autolesionismo, sconosciuti invece alla fase della campagna militare. Decisamente tragico il panorama tracciato da don Romualdo Formato per il 33° reggimento artiglieria "Acqui": Durante le operazioni belliche il mio Reggimento non ha avuto alcun caso di autolesionismo. Finite queste, in meno di due anni ho avuto quattro casi di suicidio: un Capitano medico, un Sottotenente medico, un Caporal maggiore e, recentemente, un Artigliere. Durante le operazioni, nessun caso di follia. Finite queste, nella stessa Batteria di cui faceva parte il Caporal maggiore suicida vi fu una serie preoccupante di casi, più o meno gravi, di follia con tendenza sanguinaria" Dinanzi al fenomeno del suicidio i cappellani assunsero a tutta prima un atteggiamento rigoroso: in Albania, nell'agosto 1939, quando nella divisione "Julia" due soldati si tolsero la vita, furono negati i funerali religiosi; il provvedimento irritò i comandi, che in occasione dell'esumazione delle salme per il rimpatrio ordinarono agli ecclesiastici di eseguire le onoranze funebri.
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La discriminante della violenza bellica
Il tema della violenza balza con forza dalle relazioni dei sacerdoti aggregati alle truppe di occupazione delle regioni slave. In quelle terre i cappellani ebbero l'immediata e generale impressione di operare in un contesto lacerato tra mondi ostili: allo scontro etnico si sommavano le divisioni religiose tra cristiani e musulmani (e, sia pure con minor vigore, tra cattolici ed ortodossi). Alcuni cappellani si sforzarono di moderare e di attenuare le brutalità belliche. Fu il caso di padre Giorgio Zoldan, un sacerdote di sentimenti fascisti ma decisamente diffidente verso le "bande" alleate, alle quali gli italiani solevano affidare le azioni "sporche" di antiguerriglia. Ecco uno stralcio dalla relazione stilata a Zara nel dicembre 1942:
"Ritornò quel pomeriggio una banda con due prigionieri presi a Vodice, vennero consegnati ai carabinieri. Non m'ha fatto buona impressione il vedere che alquanti militari trattarono in modo non conveniente i due individui. Verso le ore 19-20 il capitano delle Bande David stabilì (non so con quale autorità) di procedere alla fucilazione dei prigionieri; da notarsi che a tale sentenza erano presenti alcuni militi, il brigadiere dei carabinieri ed il sottoscritto. Feci noto al cap. David che dovevo provvedere per la loro assistenza spirituale; avuto il consenso chiamai immediatamente il parroco del posto, ma giunti nelle vicinanze del luogo dell'esecuzione si sentì una
sparatoria''
Vi furono comunque, specie nel clero della Milizia, sacerdoti che benedissero e sollecitarono le azioni contro i "ribelli", adempiendo così ad una funzione di legittimazione del conflitto agli occhi dei combattenti. Tra di essi spicca la figura di un prete-squadrista, padre Cesare Romiti, della 105a Legione camicie nere, impegnato in Slovenia ed in Croazia. Egli glorificò in pubblico ed in privato le sopraffazioni attuate dai reparti fascisti contro i nativi:
"Qui regna sempre e specialmente in questi giorni un'atmosfera di lotta senza quartiere a questi fuori legge che hanno subito sensibilissime perdite, oltre 170 morti, mentre la 2a Legione Camicie nere alla quale insieme a don Muzzi ho portato il mio modesto contributo ha avuti 31 morti. È stato un susseguirsi di spostamenti da una zona all'altra, alla caccia di briganti comunisti, che ovunque sono stati sbaragliati dall'impeto dei nostri legionari. In questo duro periodo i partigiani hanno avuto
sensibilissime perdite: ammontano a più di 400 fra morti e feriti".
Nell'esperienza bellica di padre Luca Galassi, cappellano del 23° reggimento fanteria "Isonzo", ritroviamo il contraddittorio rapporto intrattenuto da molti militari italiani con la guerriglia partigiana
"Entrato in Jugoslavia -
scriverà il religioso in una relazione dell'autunno 1944 - ho partecipato ai vari rastrellamenti eseguiti dalle nostre truppe contro i gruppi di ribelli, riportando vari encomi e proposte per ricompense
militari". Rimpatriato dopo l'armistizio e tornato al suo convento della Verna, egli dichiarò di avere attivamente appoggiato il movimento partigiano aretino. Quanti soldati italiani, tra il 1941 ed il 1944, videro ribaltato il loro ruolo, passando da rastrellatori di partigiani a...partigiani rastrellati? Da ben altra prospettiva osservò gli eventi bellici un altro cappellano, don Pietro Brignoli, sacerdote bergamasco che con toni di accorato sdegno registrava nel proprio diario
le quotidiane violenze di cui era suo malgrado testimone in Croazia:
"Si esce per le operazioni. Verso le 10 del mattino la nostra artiglieria e un gruppo di artiglieria alpina aprono un fuoco infernale, da un'altura, su un paesetto nella valle: qualche donna e qualche bambino uccisi: il resto della popolazione fuggita nei boschi, dove tutti i maschi incontrati dai nostri battaglioni venivano considerati come ribelli e trattati di conseguenza. Per fortuna quella gente ha le gambe buone"
Per un senso di invincibile ritegno ed in segno di massimo rispetto verso una scelta pagata a caro prezzo, il cappellano dell'esercito occupante evitò di avvicinare i prigionieri condannati a morte, ma alla loro memoria dedicò preghiere e cerimonie religiose, considerandoli i "suoi fucilati". A quattro anni dalla morte di don Pietro Brignoli il diario bellico venne dato alle stampe, in edizione "purgata" per attenuare l'effetto delle crude descrizioni dell'occupazione italiana. Nonostante l'operazione censoria,
"Santa messa per i miei fucilati"
rimane tra i documenti di più decisa condanna alla guerra italiana in Croazia. Del resto, solamente un provvidenziale rimpatrio aveva evitato al cappellano di incappare nei rigori della corte marziale, a causa della sua insufficiente "italianità''.
Non desta stupore, nel quadro di un conflitto totale, che anche i cappellani figurino tra le vittime della guerra. In alcuni casi pare anzi che su di essi si concentrasse il fuoco nemico. Così almeno attestano le fonti ufficiali dell'epoca che presentano il sacerdote-militare come il simbolo dell'italianità cristiana e ne commentano la presenza al fronte come la definitiva riprova della giustezza della guerra mussoliniana. Ecco la descrizione della morte di don Raffaele Testa, decorato con medaglia d'argento al valor militare (ma era stata proposta la medaglia d'oro alla memoria) per il comportamento tenuto in Montenegro il 28 aprile 1943 durante un'imboscata nemica:
"Don Testa assume il comando di circa 30 uomini, li schiera a difesa ed ordina di aprire immediatamente il fuoco. Egli è in piedi, completamente allo scoperto, e incita tutti a combattere e resistere contro 'i nemici di Dio e della Patria'. Un finanziare si abbatte sul fucile mitragliatore che azionava; don Testa gli si avvicina, lo compone, lo benedice, impugna il fucile mitragliatore e continua a far fuoco incitando sempre tutti, con la parola e
l'esempio". Nella descrizione dell'energico comportamento di don Testa l'immagine del cappellano emerge secondo i desideri e le aspettative degli ufficiali.
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Testimonianza di pace tra le armi?
…..Lo Stato maggiore dell'Esercito richiese all'Ordinariato militare, a fine conflitto, un memoriale da opporre agli jugoslavi che accusavano alcuni ufficiali di crimini di guerra. Si voleva far risaltare:
"Gli atti di barbarie o comunque contrari al diritto delle genti commessi in Jugoslavia, sia prima che dopo l'8 settembre 1943, da parte delle varie formazioni jugoslave in lotta sia ai nostri danni, sia ai danni degli ebrei, sia ai danni della stessa popolazione jugoslava; l'opera di pacificazione ed umanitaria svolta dalle nostre truppe a favore sia degli ebrei, sia delle popolazioni delle varie fazioni in lotta; come la nostra azione contro le varie formazioni partigiane e contro le popolazioni che le appoggiavano abbia avuto unicamente carattere di giusta reazione ad atti di terrorismo e di inutile malvagità commessi ai danni delle nostre
truppe". Padre Tommaso Di Toro, già cappellano del battaglione "Val Natisone", approntò un circostanziato documento difensivo, dal significativo titolo
"Presunti atti di crudeltà commessi in Jugoslavia dai nostri
soldati". Eccone un passaggio essenziale:
"Si viene accusati di aver condannati a morte dei loro prigionieri, ma ciò avveniva solo quando si aveva contezza di massacri contro prigionieri italiani; e anche in tali casi, era sola e semplice fucilazione, e non sevizie; e se qualche volta i soldati hanno fatto di loro iniziativa qualche rappresaglia contro dei prigionieri capitati nelle loro mani, ciò avveniva solamente davanti al massacro dei loro compagni, ma l'ordine superiore era sempre per il rispetto dei prigionieri, qualunque fosse il loro reato, ma anche qui erano semplici fucilazioni e non sevizie. Ricordo infatti che le comunicazioni di fucilazioni che ci pervenivano da alti comandi erano sempre accompagnate 'in rappresaglia per altrettanti prigionieri italiani uccisi dai partigiani' e noi comprendevamo molto bene che l'ordine era anche sotto i limiti del necessario. Del resto davanti al massacro che essi facevano degli italiani, avremmo dovuto starcene colle mani in mano, e forse anche derisi? Se pretendono il rispetto dei loro prigionieri, devono anche essi rispettare gli altri, ciò che invece non hanno
fatto". Con queste motivazioni, al religioso parevano giustificabili esecuzioni capitali: quelle decretate dalla corte marziale e quelle decise senza tante formalità dai militari decisi a vendicare i loro commilitoni. Il cappellano prendeva in esame le proteste del governo jugoslavo, per rigettarle in
toto: "Gli italiani avrebbero ammazzati, fucilati e maltrattati pacifici e innocenti cittadini iugoslavi. In verità prima bisognerebbe stabilire se fossero realmente pacifici e innocenti cittadini, perché nell'azione di Berane contro l'ospedaletto non c'erano solo i partigiani colla stella rossa sul berretto, ma tutta la popolazione civile, che si unì ad essi attivamente; nel qual caso questa popolazione non sarebbe né pacifica né innocente. [...] I veri e pacifici cittadini iugoslavi no, non sono mai stati maltrattati e molto meno fucilati; e se qualche caso si fosse anche verificato, ciò lo è stato o per errore o per false informazioni degli stessi iugoslavi. Anzi a questo proposito posso affermare di qualche militare deferito e condannato dal tribunale militare italiano per qualche abuso contro qualche civile. [...]
.Ci sono delle accuse per uccisione di bambini, ma qui si fa notare che in guerra, pur volendo, non si può evitare sempre la
morte degli inermi. Del resto erano gli stessi partigiani che si servivano assai spesso dei fanciulli per farsi portare armi, munizioni e viveri, ponendoli pertanto nel pericolo. [...] Si dice che gli italiani abbiano incendiati interi villaggi. Che gli italiani abbiano effettivamente incendiato delle case, questo è vero e non sono io a negarlo; ma che queste case siano state di semplici, pacifici e innocenti civili, sono io il primo a negarlo, almeno per quel che riguarda il mio battaglione. Qui intanto voglio far notare di passaggio che nella maggior parte dei casi si trattava di case fatte di paglia o di
legname". Le conclusioni del memoriale rimettevano in discussione il giudizio sulla guerra, assimilando le rappresaglie italiane in Jugoslavia con i bombardamenti angloamericani in Italia:
"Del resto se vogliamo dare la colpa dei morti in Jugoslavia e delle distruzioni di case, dobbiamo dare la stessa colpa agli Alleati nei riguardi dell'Italia: quanti civili infatti non hanno uccisi coi loro bombardamenti, e quante città e paesi non hanno distrutti? Dovremmo dunque anche noi dichiararli criminali di guerra? Chi non vede che molte distruzioni sono oggi inseparabili dalla guerra? Del resto gli jugoslavi non avevano motivo alcuno di rivoltarsi; lo hanno fatto, ne segue che gli italiani non potevano portarsi
passivamente". La relazione redatta da padre Di Toro per conto dell'Ordinariato militare su commissione dello Stato maggiore dell'Esercito finiva lucidamente per legittimare l'evento bellico in sé, e giustificare il comportamento delle forze armate italiane in Jugoslavia nella fattispecie. Anche in questo caso la collocazione istituzionale del clero castrense - alle dirette dipendenze del Ministero della Guerra - contribuì ad affermare una visione "realistica" in cui la guerra veniva difesa, giustificata, approvata.
(La storia delle violenze in Jugoslavia si è poi dispiegata con i fatti seguiti al 90, oltre i confini dei comportamenti italiani, fatta di guerra fra etnie e religioni, cosa per altro conosciuta da sempre e da sempre ignorata dai modesti storici italiani.
Chi sa fa e chi non sa insegna o fa il giornalista e lo storico. La storia ha sempre un altro difetto di base, la scrivono sempre i vincitori)
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