DA BERSAGLIERI D'AFRICA
|
![]() |
|
Il personale continuò a indossare, sul rovescio del bavero, le fiamme cremisi; fu adottata la nappina rosso cremisi e il personale, nelle retrovie, era autorizzato a indossare sul bavero una spilla riproducente un fez (fonte Wikipedia Alpini) |
La
216a compagnia motorizzata costituita dal deposito del 7° bersaglieri era
destinata al fronte africano come reparto anticarro da 47/32.
Un giorno chiamato al comando di Bolzano ebbi l'ordine di dover ridurre il
nostro piumetto ad una sola penna, nera: l'intera compagnia armi e bagagli
doveva transitare nel corpo degli Alpini. Avremmo dovuto incorporare 86
conducenti di muli del 6° alpini e 76 muli da Mirandola.
Lascio immaginare il dolore di tutti i bersaglieri quando a Caprino Veronese
dovemmo sostituire le fiamme cremisi con quelle verdi, consegnare il fez e
ricevere il cappello alpino. I conducenti (dei muli) erano veronesi e bresciani
compaesani dei miei bersaglieri, in parte valtellinesi e bellunesi pratichi di
montagna. Sul Don la compagnia era
dislocata a Dacia, gli “autisti” a Podgornoje, due plotoni al
“Valchiese” e due al “Verona”. La sera del 17 gennaio 43 dopo lo
sfondamento dei russi sul fronte tenuto dagli ungheresi, gli autisti ci
raggiunsero e fecero il carico. A Podgornoje i depositi erano incendiati e i due
plotoni, col Verona e la 33 batteria del Bergamo, andarono incontro ai Russi. Il
resto si ritirava con la divisione. Il gen. Reverberi di Cavriago promise che
saremmo usciti dalla sacca cosa che poi avvenne, ma non per tutti. Il 23 gennaio, oltre
il ponte di Sceljachino, l'Edolo, il Vestone e il Valchiese con noi di
retroguardia coperti dalle katiusce tedesche
(nebelwerfer)
cercarono di fermare i carri russi. Dopo un'ora arrivò l'ordine di
sganciarci. Un mulo sprofondato nella neve ci fece perdere tempo e ci trovammo
al buio. Ci raggiunse il Morbegno del magg.
Sarti col quale puntammo su Warwarowka. Qui l'incalzare dei Russi si fece pesante: caricati i 47\32 su
slitte raggiungemmo il paese già occupato dal Quartier generale della JULIA,
dall'artiglieria a cavallo e da tedeschi. Attorno a noi si accesero mischie fin
quando non avendo più colpi da sparare, nella notte ci ritirammo verso dei
fuochi che credevamo amici. Era un plotone di carri leggeri russi. Persi parte
degli uomini, noi cademmo in una valletta dove affondammo fino alle spalle nella
neve. Dopo molte fatiche riuscimmo a trovare una rampa di salita. Non trovammo
vivo nessuno dei nostri. Seppi poi, tornato dalla prigionia che i superstiti
fatti prigionieri riuscirono a liberarsi e a ricongiungersi alla Tridentina. Il
sacrificio del Morbegno della notte aveva tamponato l'offesa russa, e il grosso
del corpo alpino continuava la marcia verso Nikolajewka.
La notte del 24 gennaio
la passammo in un pagliaio.
Sentimmo passare gente. Erano i resti della Cuneense e del Vicenza che a Waluiki
bloccarono i russi facendo uscire definitivamente dalla sacca la Tridentina.
Dei
quattro giorni trascorsi con la Cuneense ricordo alcuni particolari: gli
sbandati impazziti che si aggiravano di notte, le invocazioni di aiuto di chi si
allontanava dal grosso in cerca di alimenti o di riparo, la tormenta che ci
costrinse ad abbandonare i due semoventi tedeschi. In pieno giorno vidi saltare
in aria le slitte coi muli e i conducenti colpiti dai mortai.
Con i pochi della
216 che mi rimanevano meno Zanon che disperso poi si salverà, ci allontanammo
di 2 km e vicino a un pagliaio in fiamme cercai di scaldarmi i piedi. Un dolore
atroce mi morse improvvisamente: ero congelato. Non riuscii a rimettermi gli
scarponi e intanto arrivava al galoppo una pattuglia cosacca che ci catturò.
Presero i nostri orologi e le penne stilografiche e ci portarono alla scuola di
Waluiki già affollata di alpini. Io e gli altri ufficiali venimmo mandati a
Piniuk al circolo polare artico. Per due mesi ancora, nel campo, la gente morì
di tifo petecchiale e scorbuto. Alla partenza dall'Italia la 216a contava 245
bersalpini: metà circa riuscirono ad uscire dalla sacca. Dell'altra meta
ritornammo in patria, nel 46 in tre, di cui due congelati.
Ten.
Col. Aldo Morini - Bolzano
|
Che i bersaglieri avessero in organico dei muli non era una novità, era già successo nella grande guerra
(vedi sopra).
Che scalassero le montagne faceva parte delle disposizioni di impiego dell’800
in un Piemonte che di Montagne ne aveva da vendere.
Che avessero
sia i muli che la penna alpina ancora no. Sembrerà anacronistico, ma durante la seconda guerra mondiale gli italiani e principalmente i tedeschi utilizzarono moltissimi traini animali. Nelle retrovie l’uso da parte dei tedeschi del cavallo era molto comune
e metà della "gloria", se così si può definire l'avanzata in Russia, va
a questi animali e alle gambe dei soldati più che alla Industria
tedesca. Trainavano cucine, carri e altro che di volta in volta si prestava in mancanza di traino meccanico. L’est europeo era poi all’epoca la patria del traino animale: potenti cavalli da tiro che facevano tutti i lavori d’agricoltura
che di conseguenza subirono la requisizione di questi animali lasciando
i lavori agricoli alle braccia dei Russi. L’abbondanza di cavalli rendeva necessario che reparti interi del Reich conoscessero il traino, la conduzione, la cura,
i finimenti. Un reduce italiano, fatto prigioniero a Cefalonia, pratico di lavorazioni in cuoio, mi raccontò che venne aggregato a un reparto SS sul fronte russo che utilizzava cavalli e aveva bisogno di gente per selle e
finimenti
Ma da dove venivano Cavalli e Muli, per la nostra cavalleria e per il corpo alpino ?. Nelle vicinanze di Mirandola, piccola città della pianura modenese, a San Martino Spino era già esistente dal 1824 (Ducato Estense), una struttura detta Barchessone Vecchio per lo stallaggio di cavalli. Questi edifici furono definiti barchessoni probabilmente da "barchessa", termine utilizzato nei dialetti per identificare una struttura adibita a stalla e fienile. Altri sei edifici dal 1885 in poi, Portovecchio, Casalvecchio e Fieniletto, i restanti Pascolo, Barbiere e Cappello (successivi), furono adibiti all'allevamento dei cavalli al momento dell'istituzione del "5° deposito allevamento cavalli" dell'Esercito. Qui affluivano dagli altri centri ippici sparsi per l’Italia migliaia di cavalli e muli per la finitura. Il centro raggiunse la sua massima espansione alla fine della grande guerra, ma continuò a funzionare fino al secondo dopoguerra. Ora, salvo errori, resta in vita solo quello di Grosseto, nato nel 1865 come Deposito permanente al rifornimento di quadrupedi per il Regio Esercito. I muli sono stati eliminati per obsolescenza, eliminazione su cui, ad esempio, gli Usa vorrebbero ricredersi. Dei complessivi sette barchessoni oggi ne restano quattro restaurati. http://www.maretticarlo.it/Barchessoni/ |