Ghosts

 

Titolo: Ghosts
Autore: LoLL (ladygaladriel@email.it)
Tipo: RPS.
Pairing: Orlando/Viggo
Rating: NC-17
Sommario: Orlando e Viggo a confronto con i loro ricordi.
Disclaimer: Orlando Bloom e Viggo Mortensen non mi appartengono (anche se mi piacerebbe molto...). Questo è un lavoro di fantasia e, per quanto ne so io, quanto scritto non è mai accaduto.
Note dell’autore: è il mio primo racconto slash, siate buone....

 

(Ascoltate “Gocce di memoria” di Giorgia)

Orlando

 

Quanto tempo è passato? Non lo so più.

Il tempo non ha più importanza ormai, visto che non si può fermare e non si può tornare indietro.

Ricordo che era estate e che questa casa dalle pareti di legno bianco, per un po’, è stata la nostra casa. E che qui sono stato veramente felice.

Mi ricordo la polvere illuminata dai raggi di sole che filtravano dalle tende; ricordo i mobili ammassati, i letti sfatti, l’odore del mare. Ti ho guardato dubbioso, chiedendoti se era proprio quella. E tu, ridendo, mi hai detto: “Sì, questa sarà la nostra casa per cinque giorni”.

E all’improvviso mi era sembrato il posto più bello del mondo.

Stringo la maniglia e mi accorgo che sto tremando. Poi apro la porta ed entro e il silenzio di queste stanze ormai vuote è più forte di qualsiasi rumore. Mi appoggio alla parete per non cadere, scivolo lentamente a terra. Fuori piove e la pioggia entra dai vetri rotti.

E poi, all’improvviso, eccoli i ricordi, chiari, vivi, splendidi e dolorosi. Ma non è per questo che sono venuto qui, in fondo? per ricordare? Perché i ricordi sono tutto quello che mi rimane e mi rendo conto che ne ho bisogno per sopravvivere. Perché tu non ci sei più. Perché per troppo tempo ho chiuso le emozioni in un posto remoto che non sapevo di avere. Perché è ora che paghi per i miei errori.

Ti amavo da morire. Eri tutto il mio mondo; non mi rendevo nemmeno conto degli sguardi compiaciuti, ironici, scandalizzati di chi ci stava intorno. E tu mi hai portato in questa casa per proteggermi da tutto e in questa casa, per la prima volta, hai fatto l’amore con me.

Sorrido pensando a quella prima notte. “La vergine sacrificale”, non so perché mi era venuta in mente quella immagine, ma era un po’ così che mi sentivo, nonostante tutte le notti passate da solo, a masturbarmi come un adolescente, immaginando che la mia mano fosse la tua, succhiandomi le dita e poi sfiorandomi le labbra e il corpo immaginando che quelle fossero le tue labbra, gridando il tuo nome nell’orgasmo. Nonostante questo avevo paura. Non del dolore, ma di quello che sarebbe stato dopo. Come sarebbero cambiate le nostre vite? Come mi avresti guardato? Avremmo ancora scherzato sul set? Cosa avrebbero detto gli altri?

Come se fare l’amore con te mi avesse marcato in modo visibile... No, certo che no. Visibile no, ma nell’anima sì. E per sempre.

Ma tu, come sempre avevi capito tutto: avevi capito il mio disagio e la mia paura e senza parlare mi avevi fatto sedere sulla sabbia di fronte a te e mi avevi preso fra le braccia e la tua bocca si era appoggiata sulla mia fronte in un bacio che ancora adesso brucia al ricordo.

In quel momento preciso avevo capito che nulla sarebbe cambiato, se non che io sarei stato tuo per sempre, se lo avessi voluto...

Allora, senza parlare mi ero alzato e ti avevo preso per mano portandoti in casa, con il cuore che batteva a mille e le gambe che tremavano, ma deciso ad andare fino in fondo. Perché quella era l’unica cosa che volevo. Essere tuo per sempre.

Sento un rumore e mi giro di scatto verso la porta, ma è solo il vento. Mi accorgo di avere la faccia bagnata; sto piangendo. Eccole, finalmente, fottute bastarde lacrime. Avevo pianto anche quella notte, ma erano lacrime diverse, erano lacrime di dolore e di piacere immenso, di paura e di felicità. Erano lacrime dolci, in fondo, dolci come il tuo sapore nella mia bocca, come i tuo gemiti e come le parole che mi sussurravi con la tua voce bellissima e profonda. Avresti potuto farmi venire anche solo con le parole, e tu questo lo sapevi bene e mi avevi portato così vicino che quasi avevo perso il controllo. E poi ti eri fermato, e io ti avevo supplicato di andare avanti, di toccarmi, di fare l’amore con te. E tu l’avevi fatto, prima con le mani, poi con la bocca e alla fine, quando il mio corpo era pronto, eri entrato in me, muovendoti piano, tenendo le tue mani intrecciate con le mie, asciugandomi le lacrime con le labbra, sussurrandomi che presto sarebbe passato. E io volevo dirti di non fermarti, ma il dolore era troppo e non sapevo cosa fare.

Siamo rimasti così per un tempo che mi era sembrato interminabile, con il nostro respiro affannato, i tuoi occhi fissi nei miei, le nostre dita avvinghiate. Capivo che per te era doloroso quanto per me, lo vedevo dai tuoi occhi, dal tremito delle labbra, dalla mascella contratta nello sforzo di stare immobile. Poi ti sei mosso piano, non ricordo come, ricordo solo una scossa che mi ha attraversato il corpo e i miei fianchi che si sono alzati istintivamente verso di te e ho gridato il tuo nome. E così è iniziato tutto. Benvenuto Orlando Bloom nel mondo del piacere assoluto che nessuna donna sarà mai in grado di darti.

Sentivo i miei gemiti diventare grida e poi soffocarsi nella tua bocca mentre mi baciavi come mai avevi fatto, niente tenerezza, niente baci dolci e delicati, niente sfiorarsi di lingue e di labbra. Erano baci violenti, stavi scopando la mia bocca come stavi scopando me e io avrei voluto che non smettessi mai. Ho gridato mentre venivo, ho sentito il fiotto caldo del mio seme sullo stomaco e nell’incoerenza del momento ero riuscito anche a chiedermi cosa avevo fatto di così grandioso perché il tuo orgasmo era arrivato subito dopo il mio e mi era sembrato mille volte più potente, le tue grida più forti il tuo piacere più sublime.

...ingenuo io, che non sapevo ancora nulla di come funzionano certe cose...

Ma ho imparato in fretta, come si suol dire: “l’allievo supera il maestro”. Sì, perché in quei cinque giorni abbiamo fatto l’amore così tante volte che abbiamo perso il conto e ogni volta scoprivo qualcosa in più per farti impazzire e che mi faceva impazzire. E ogni volta credevo che fosse la migliore in assoluto, e ogni volta, regolarmente, mi sbagliavo.

Sto sorridendo. Strano, credevo di essermi dimenticato come si fa. Ma i ricordi corrono e si accavallano e tracciano disegni strani nella mia memoria e sono tutti disegni bellissimi. Sì, perché le cose brutte e tristi sembrano così poco importanti ora, soverchiate dalla potenza di altre immagini: noi due appena svegli, attorcigliati nelle lenzuola, che ridiamo perché non riusciamo a liberarci, le nostre passegiate al tramonto sulla spiaggia, tu che mi accarezzi i capelli mentre mi leggi una poesia, i miei disperati tentavi in cucina, la pioggia che batte sui vetri e tu che mi avvolgi nella coperta anche se non fa freddo ma solo perché una volta ti ho detto che mi piace guardare la pioggia, la volta che abbiamo provato a fare l’amore in mare, come nel video di Boys of summer, ma poi ci abbiamo rinunciato perché c’erano sabbia e acqua dappertutto, tu che mi massaggi la schiena e poi cominci a sposare piano le mani verso le cosce, sapendo che nel giro di pochi secondo inizierò a supplicarti ti toccarmi...

Immagini, ricordi, momenti. Appartengono al passato e sono presenti come fantasmi in questa casa.

Dovrei alzarmi ed andarmene ma sarebbe troppo facile, non erano queste le regole. Volevo ricordare perché i ricordi fanno male ma non è abbastanza il male che provo ora. Perché non sei sincero Orlando Bloom?

“I sogni muoiono all’alba” diceva il titolo di un film. E allora prova a ricordare, Orlando, quando è arrivata la tua alba. Quando sono morti i tuoi sogni? o i sogni di Viggo? o... forse erano i VOSTRI sogni?

Al ritorno dalla nostra vacanza in questa casa? No, certo che no! Eravamo così felici allora, pieni del nostro amore, della nostra passione che non sentivamo nemmeno la stanchezza, non ci importava delle chiacchiere degli altri e non ci facevamo domande per il futuro. No, e allora quando? Al ritorno dalla Nuova Zelanda? No, nemmeno allora. Io ti amavo da impazzire e non sarebbe bastato l’universo fra di noi a farmi smettere di amarti. Quando abbiamo litigato perché io volevo dire al mondo di noi e tu hai detto di non essere pronto?

No. Non è nemmeno qui. Questa forse è stata la fine, sì, ma non l’inizio.

E allora quando, Orlando, dillo, coraggio, ammettilo: quando? La verità è che non lo so.... E questo mi fa impazzire perché, ripensando al passato, non riesco a trovare una sola ragione, un solo motivo che abbia portato le cose al punto in cui sono arrivate. Tu mi amavi, e io ti ho ferito, per motivi che non riesco nemmeno a capire.

E ora che non ci sei più darei la vita che mi rimane per ritornare indietro e non lasciarti prendere quell’aereo. È l’ultima volta che ti ho visto.

Poi, questa mattina, come se fosse stata lì ad aspettarmi in silenzio, per tutto questo tempo, eccola, una foto di noi due. È una foto buffa, tutta storta perché l’hai fatta puntando all’improvviso la macchina fotografica verso di noi. Così a me non si vede una parte di testa e a te una parte di mento. Ma è una foto tenera perché mi stai baciando su una guancia e io sorrido con gli occhi chiusi.

Ecco perché sono qui, perché questa foto, come una chiave magica, ha aperto la porta del posto segreto dove avevo rinchiuso i nostri ricordi e ho capito che senza di te non esisto.

L’eco dei miei singhiozzi rompe il silenzio di questa stanza e ora, per la prima volta in vita mia, vorrei morire.


(Ascoltate “Calling you” di Yvetta Steele)

 

Viggo

 

È strano come certi particolari saltino all’occhio di colpo, come il dettaglio di una fotografia che viene messo a fuco per la prima volta. È successo questa mattina, guardando il calendario, all’improvviso l’ho visto: il 15 giugno. Voglio dire, il 15  giugno c’è sempre stato su quel calendario, come su tutti i calendari, ed è stato lì giorno dopo giorno, insieme agli altri giorni. Ma oggi l’ho visto per la prima volta, e sono rimasto a fissarlo fino a che le immagini si sono fatte sfuocate e i numeri sono diventate delle macchie bianche su un fondo nero e solo allora mi sono accorto che stavo piangendo. Perché quello che stavo guardando non era un 15 giugno qualsiasi, ma il 15 giugno di tre anni fa quando ti portai in California approfittando del periodo di pausa che PJ ci aveva concesso e ci rinchiudemmo per cinque giorni in quella piccola casa sulla spiaggia. Lì abbiamo fatto l’amore per la prima volta, lì ho capito che eri tutta la mia vita.

Come ho vissuto questi tre anni non lo so.

Anzi, lo so fin troppo bene: ho fatto finta che tu non contassi nulla.

Chi è Orlando Bloom? Una bella faccia, uno dei soliti attori di nuova generazione destinato a durare fino a che un altro attore dalla bella faccia e di un’altra generazione non prenderà il suo posto.

A chi mi chiedeva come erano i nostri rapporti sul set avevo imparato a rispondere sempre la stessa canzoncina: eravamo ottimi amici, eravamo una grande famiglia.
Ai nostri amici che mi chiedevano preoccupati cosa fosse successo rispondevo sempre allo stesso modo: è finita, come finiscono tante storie.

Stronzate. Gigantesche, ridicole stronzate, lo sapevo io e lo sapevano gli altri.

La nostra storia non è mai stata come le altre. Era speciale. TU eri speciale.

Questa mattina tutto è andato al suo posto e la verità si è mostrata nella sua cruda semplicità.

Ho avuto paura.

Ho avuto paura e ho fottuto tutto.

Ho avuto paura di quello che era il mondo al di fuori da quel personalissimo universo che era la Nuova Zelanda.

Ho avuto paura del tuo successo, che ti portava sempre più lontano e ogni volta per un tempo più lungo.

Ho avuto paura del confronto con gli altri, tutti quelli con cui avevi a che fare per lavoro o per amicizia.

Ho avuto paura di quello che la gente poteva pensare.

Ma, soprattutto, ho avuto paura delle tua giovinezza e del fatto che, sicuramente, un giorno mi avresti lasciato per qualcuno più simile a te, qualcuno che avrebbe avuto il coraggio di dire al mondo quanto ti amava, qualcuno senza un figlio quasi della tua età, qualcuno che si sarebbe buttato con te da un ponte, e non metaforicamente parlando.

E così ho giocato d’anticipo: ho cominciato a essere freddo, a negarti le cose che ti facevano piacere, a ridere dei tuoi comportamenti, ho smesso di venirti a trovare quando lavoravi lontano, ho smesso di ricordarmi le date delle nostre varie ricorrenze dicendo che ne avevamo troppe. Ho smesso di toccarti. Ho smesso di fare l’amore con te, ho smesso di giocare con te.

E la cosa più crudele: ti ho fatto credere che fosse la colpa fosse tua.

Così mi sono vendicato del fatto che, un giorno, mi avresti lasciato.

Solo che non avevo fatto i conti con una cosa: Orlando Bloom. Una volta che ti è entrato in circolo non puoi liberarti di lui, fa parte del tuo sangue, del tuo respiro, della tua carne e della tua anima. Puoi odiarlo, ignorarlo, ma lui non se ne va, rimane dentro di te.

E allora eccomi qua, di notte, su questa strada deserta e silenziosa, con la macchina che brucia ogni limite di velocità, pronto ad affrontare i miei fantasmi.

Ti amo, Orlando. Non ho mai smesso di amarti un solo istante, anche quando pretendevo di odiarti.

Questa mattina, vedendo quel numero sul calendario ho finalmente lasciato liberi i ricordi e all’improvviso, ho ricominciato a vivere: perché il dolore è vita ed è comunque meglio della totale assenza di emozioni che sono stati questi tre anni, e il dolore che provo in questo momento è così forte e straziante che mi blocca il respiro.

Ho tirato fuori la scatola in cui avevo segregato tutto quello che, in qualche modo, mi ricordava di te, ho affondato le mani nelle cose che avevo nascosto. E ho iniziato a piangere. Perché tutto quello che toccavo e che vedevo eri tu e mi sono reso conto che mi mancavi così tanto che mi sembrava di impazzire.

Ho guardato le foto della nostra vacanza in quella piccola casa al mare: eri così giovane allora che avrebbero potuto benissimo scambiarti per mio figlio. Ma la cosa, a quel tempo, non mi importava. Perché sapevo che mi amavi, perché avevamo ancora così tanto tempo da passare insieme in Nuova Zelanda, perché i nostri amici erano dalla nostra parte.

Ho rivisto la  foto che ti ho fatto la mattina dopo che, per la prima volta, abbiamo fatto l’amore. Non so per quanto tempo sono rimasto a fissarla, so solo che eri così dolce e sereno nel sonno, una bellezza da togliere il respiro, con il viso appoggiato di profilo sul cuscino e la mano vicina alla bocca socchiusa. Mi ricordo di avere provato una stretta allo stomaco al pensiero delle tue lacrime la notte prima, mentre entravo in te, poi però ho sorriso perché hai aperto gli occhi, ti sei girato verso di me e hai allungato un braccio per toccarmi e con la voce impastata di sonno mi ha detto che mi volevi, subito. E io ho capito che lo volevi veramente, così mi sono sdraiato di fianco a te e ho iniziato ad accarezzarti e anche se tu volevi di più non riuscivo a smettere perché volevo toccare ogni centimetro del tuo corpo e perché mi piaceva guardarti mentre tentavi disperatamente di non chiudere gli occhi e mi piaceva sentire la tua voce che mi supplicava di non fermarmi.

Ricordo ancora le mie dita che ti sfioravano: le labbra, il collo, il petto, il ventre e poi si spostavano all’interno delle cosce, là dove la pelle è così sensibile, lentamente, avanti e indietro, e ti vedevo spingere i fianchi verso l’alto, eccitato e disperato; e quando mi sono reso conto che eri quasi al limite e ho visto la tua mano spostarsi all’improvviso in mezzo alle tue gambe nel disperato tentativo di trovare sollievo al tormento che ti stavo infliggendo ti ho bloccato e mi sono chinato su di te, sul tuo bel viso sudato e stravolto dal desiderio e ti ho detto chiesto se eri vicino e tu mi hai risposto qualcosa di incoerente, mentre cercavi furiosamente di liberare le mani e non riuscivi a controllore i movimenti dei fianchi, sempre più veloci. Allora sono sceso piano, tracciando con le labbra umide un percorso lungo e tortuoso e quando finalmente ti ho preso in bocca e la mia lingua ha iniziato a muoversi piano sul tuo sesso, succhiandolo lentamente, ho sentito le tue mani avvinghiarsi nei miei capelli e ho capito che non potevi più resistere. È bastato un solo movimento, deciso, sicuro, e ho sentito il tuo seme caldo nella mia bocca. Ho preso tutto quello che mi hai dato e mi è sembrato il sapore più buono dell’universo, perché era il tuo sapore. Poi abbiamo fatto l’amore, ed è stata la cosa più bella che la vita mi abbia mai regalato.

Ti ho fatto sempre credere di essere io quello che aveva il controllo. Non era vero.

Eri tu che mi dominavi, con la tua passione, con il tuo modo completo e totale di lasciarsi andare, senza inibizioni e senza paura. Ti fidavi di me, in modo cieco e totale.

 

All’improvviso mi sono accorto che stavo stringendo qualcosa nelle mani; sono  riemerso bruscamente dai ricordi dei quei giorni felici e ho visto un pezzo di carta. Era il biglietto di scuse che mi avevi lasciato sotto il tergicristallo dell’auto la prima volta cha abbiamo litigato. Non ricordo nemmeno il motivo della lite. Ah sì: avevi raccontato qualcosa che avevamo fatto agli Hobbits e i 4 stronzetti, con affetto parlando, avevano pensato bene di raccontarla a chiunque gli capitava a tiro.

“Scusami Vig, non so perché ho fatto così. È che all’improvviso la mia vita è sottosopra. Tu hai stravolto il mio mondo e io non so ancora bene come comportarmi. So solo che vorrei gridare a tutti quanto ti amo e quanto sei importante per me. Ti prego, chiamami questa sera, io ho bisogno di te, parliamo... Vedrai che aggiustiamo tutto.”

Io avevo stravolto il tuo mondo! Cristo santo, come se il mio fosse rimasto uguale a prima. Ma come potevo spiegarlo ad un ragazzo di 23 anni che mi aveva messo al centro del suo universo che la gente non è tutta come i nostri amici? Che il mondo è crudele e che quello che stavamo facendo agli occhi dei più sarebbe sembrato strano nella migliore delle ipotesi e perverso nelle maggior parte dei casi?

Forse è da lì che ho cominciato ad avere paura, perché per la prima volta mi ero reso conto di come, una volta partiti dalla Nuova Zelanda, le nostre vite sarebbero tornate ad essere quelle di prima e che i solidi muri che ci proteggevano sull’isola sarebbero crollati in un colpo solo.

Una sola parola sbagliata alla persona sbagliata ed ecco che mi sarei trovato a spiegare ad un figlio adolescente perché suo padre se la faceva con un ragazzo poco più grande di lui.

 

Un altro oggetto un altro ricordo: una foto di gruppo. Mentre la fissavo, questa mattina, mi sono reso conto che sembravamo tutto tranne che attori, sembravamo un gruppo di amici durante una gita. Io, te, Karl, Craigh, Marton, Dave, Sean, Cate, Liv, Jon, Ian, e gli Hobbits come al solito ammassati l’uno sull’altro.

Avevamo fatto quella foto un giorno che c’era vento, mi sembra che fosse stato Peter a scattarla.

Mi viene da ridere perché mi rendo conto, ora, ripensando a quelle persone meravigliose, che il mondo ignora completamente chi siamo veramente, cosa proviamo, quali sono i nostri sogni, i nostri desideri e le nostre paure.

PJ diceva: “Prendi un gruppo di uomini e donne giovani e sani e chiudili per un anno e mezzo su un’isola e poi lascia che sia la Natura a decidere l’andamento delle cose!”.

E la Natura aveva fatto il suo dovere, eccome! Nel giro di quattro mesi il cast si era riempito di coppie più o meno clandestine e più o meno improbabili.

Così, Beanie e Cate  erano finiti a letto insieme esattamente ventiquattro ore dopo avere dichiarato il loro odio reciproco, Marton aveva perso la testa per una ragazza italiana che lavorava come assistente alla produzione e le aveva chiesto di sposarlo, Liv era riuscita nel suo intento di sedurre Karl, e Craigh aveva scoperto che non tutti gli Uruk-hai sono cattivi...

Per non parlare di Ian... la “Vecchia Regina” aveva dato lezioni di seduzione a tutti.

E poi, naturalmente c’eravamo noi, che vivevamo l’uno in funzione dell’altro.

 

È quasi l’alba; non so da quanto tempo sto guidando, i ricordi mi hanno fatto compagnia tutta la notte.

Guardo ancora una volta la rivista che ho appoggiato sul cruscotto. L’ha lasciata Lij la scorsa settimana, con la speranza di vedermi reagire. È un osso duro il ragazzo. L’ha appoggiata distrattamente sul tavolo della mia cucina dicendo che avrei almeno dovuto dare un’occhiata. L’ho ringraziato, gli ho detto che l’avrei fatto e appena se ne andato l’ho messa nella scatola, senza nemmeno aprirla.

Poi, questa mattina, quando credevo che il mio viaggio nei ricordi fosse terminato, l’ho vista sbucare fra le alte cose e l’ho presa.

Ci sei tu in copertina. Ormai non conto più le volte che mi sono trovato faccia a faccia con il tuo viso su un giornale, in televisione, su una locandina e ogni volta ho fatto come mi trovassi di fronte ad un estraneo. Ma questa foto è diversa.

Ho guardato gli occhi, tristi, freddi e distanti, i cerchi scuri li fanno ancora più cupi; la magrezza del tuo viso mi ha spaventato, hai le guance scavate e, nonostante l’abbronzatura hai l’aria sfinita. La tua bocca è una piega dritta, come di chi si sforza di sorridere ma vorrebbe piangere. I tuoi bellissimi capelli ricadono disordinati sulla fronte.

Quello non era il mio Orli. Quello che mi fissava dal giornale era un estraneo; un uomo cresciuto, triste, arrabbiato

Ho preso la rivista e l’ho stretta al petto come per consolarti e dirti che andava tutto bene e, per un momento assurdo, ho sentito la tua presenza.

Mi sono alzato, ho preso le chiavi della macchina e sono corso a cercare il tempo dove il mio Orlando mi guardava ridendo mentre lo fotografavo e i suoi occhi erano vivi e sereni e la sua bocca era sempre aperta in un  sorriso.

 

È un’alba strana, insolitamente fredda per essere il 15 giugno, piove e tutto sembra così diverso e lontano da quel 15 giugno di tre anni fa. E mentre svolto nel vialetto che porta alla nostra casa sul mare, improvvisamente la vedo: la tua macchina parcheggiata fuori; e di colpo mi rendo conto che, per tutto il tempo di questo viaggio, in qualche luogo nascosto nella mia anima, questa speranza c’è sempre stata.

Rimango seduto in macchina per un tempo che mi sembra infinito: ho paura ad entrare, ho paura di quello che posso trovarmi di fronte, ho paura di quello che sei diventato, ho paura di quello che dirai quando mi vedrai.

Ma la paura ha avuto il sopravvento troppe volte sulla nostra vita. Mi faccio coraggio e mi dirigo verso la porta che continua a sbattere per il vento; la spingo piano, con il cuore che mi martella così forte che mi sembra di sentirlo rimbombare nel silenzio surreale di quel posto. Per un attimo mi chiedo se non sia uno strano scherzo del destino che ha voluto che qualcuno abbandonasse una macchina come la tua proprio davanti a questa casa, ma poi ti vedo, seduto per terra, con le gambe rannicchiate e la testa appoggiata sulle braccia che stringono le ginocchia. Vorrei correrti incontro, abbracciarti e ricoprirti di baci e dirti che ti amo fino a che non ho più voce ma non voglio spaventarti, così mi muovo piano verso di te e mi inginocchio di fronte a te e all’improvviso alzi la testa e nei tuoi occhi gonfi di lacrime vedo lo stupore e la gioia e, improvvisa, ritornare la vita.

 

“Viggo...”

 

Non servono alte parole, ci troviamo subito l’uno nelle braccia dell’altro, e ridiamo e piangiamo, le nostre labbra che si cercano e finalmente sei qui con me e ti stringo così forte che ho paura di rompere il tuo corpo sottile.

 

“Mi dispiace Orlando, mi dispiace così tanto.....”

 

Leggo lo stupore negli occhi ma c’è tempo per le spiegazioni, ora ogni singola cellula del mio corpo ha bisogno di te.

 

“Andiamo a casa, Orli...”

 

Cerco di alzarmi ma mi blocchi, il mio cuore perde un battito ma poi vedo un sorriso, dolcissimo, illuminarti il viso.

 

“No... Viggo... questa è casa.”

 

Mi risiedo di fianco a te e ti prendo fra le braccia e mentre sento il tuo corpo rilassarsi penso che hai ragione: questa è la nostra casa..

 

Fine

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