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Parte VI
Del tempo, del passato, dell'ombra
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Si era svegliata molto tardi e lui non c’era. Ricordava però che aveva dormito al suo fianco. Era emersa dal groviglio di stoffa e si era sentita sola. Non era così che aveva immaginato la licenza e si era rimproverata per come erano andate le cose. Le ore erano trascorse troppo lente e vuote: uno stillicidio inutile di minuti fatti di secondi, di movimenti compiuti inconsciamente e solo per sopravvivere. Si era massaggiati i muscoli del collo indolenziti e tesi come corde, i piedi ghiacciati e bianchi, ma continuava a sentirsi abbattuta e debole. Non imputò questo malessere al freddo che aveva preso sulla torre.
Lo imputò alla violenza della città, sotto il cielo acceso dalle stelle: ogni notte succedeva qualcosa laggiù, anche se non sapeva esattamente cosa, era qualcosa che non avrebbe potuto perdonare.
Lo imputò alle parole di madame: pietra su pietra, parola per parola costruiva un muro che le separava. Con un accanimento improvviso che non riusciva a spiegarsi.
Lo imputò a quello stupido, idiota, imbecille, indelicato e stronzo di André che se ne era andato senza dire nulla, chissà dove, in un giorno che lei aveva faticato a ritagliare per tutti e due tra i rebus delle licenze da assegnare. Rimanevano il pomeriggio e un'altra notte: all’alba li avrebbe attesi di nuovo la caserma. Tutto era andato troppo storto: non era per niente dell’umore adatto a sperare in una schiarita.
Scavando, circoscrivendo parole, amputando pensieri, passando le mani fredde su quei maledetti muscoli del collo ancora tesi e immobili, disseppellendo e archiviando sospetti, sapeva bene quale spina la stava facendo sanguinare più di tutto. L’aveva localizzata ma non osava toccarla.
Il passo più lento. Il passo troppo sicuro nel buio. Gesti troppo precisi per essere fatti con disinvoltura, troppo pesati, troppo calcolati. Le scuse per non prendere la spada. Tendergli ancora un agguato col pugnale per accertarsene?
E non tutte le donne possono vantare come trofeo l’occhio di un uomo innamorato. E qualcuno ha la forza di andare a letto con la persona che l’ha fatto mutilare… Ancora le parole velenose di quell’estranea.
Per non sentirle più risuonare fra i pensieri afferrò la busta che conteneva i brandelli della lettera, l’aprì e ricominciò ad esaminali. Aveva perduto il conto delle volte che lo aveva fatto con la speranza di accorgersi di qualcosa di illuminante e che li aveva messi da parte delusa.
Di nuovo i fogli sul tavolo. Prese a fissarli. Avrebbe potuto descriverli brandello per brandello. Posò il gomito sulle ginocchia e una mano sulla bocca. Il confine fra concentrazione e astrazione a volte è labile.
“Io ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto che mi si avvicinasse il figlio di uno degli amici di Armand… Era così bello!” disse all’improvviso Marie Victoire.
Oscar staccò gli occhi da quei resti, per ricordarsi che la sorella le era seduta accanto.
“Come… scusa?” chiese, senza capacitarsi di quelle parole. Si intuì imbarazzata per quello che sarebbe seguito.
Marie Victoire sorrise e le sembrò strano un sorriso su quel viso dagli occhi bassi. “Dicevo così… Che lui mi piaceva…Credo che mi piacesse. Te l’ho detto perché mi sembrava che pensassi ad André”.
“Ah…” mormorò imbarazzata. “No… veramente stavo pensando ad altro”. Con una mano distanziò fra loro i brandelli sul tavolo. “… il mio lavoro”.
“Eravate molto giovani la prima volta?”.
Oscar sperò di aver capito male quella domanda. Non era domanda a cui sarebbe mai riuscita a rispondere. Sollevò uno sguardo sconsolato sulla sorella.
“Scusa… è che a volte ho pensato che con Laurent un figlio forse lo avrei fatto” disse Marie Victoire, distogliendo lo sguardo.
“Laurent è l’uomo di cui parlavi prima?” chiese Oscar. Da molesta all’improvviso le sembrava tenera. Uno sguardo ceruleo bastò a darle conferma.
“Sono quei pezzi di carta?” chiese d’un tratto. Continuare quel discorso doveva esserle penoso: oltre il limite del senso di liberazione i rimpianti fanno il loro lavoro e imbavagliano le parole.
“Sì. Quelli”. Per ammazzare la delusione stava contravvenendo alle sue abitudini: confidava a sua sorella qualcosa del suo lavoro. Ora le veniva più facile pensarla come Marie Victoire e non come “mia sorella”. Marie Victoire, da un po’, non le si rivolgeva più col maschile.
La fissò mentre prendeva in mano uno dei brandelli e tenendolo nel palmo della mano vi passava sopra il pollice. Le somigliava molto, eppure non le somigliava affatto. Sembrava molto più chiara, eppure avevano occhi e capelli dello stesso colore. Aveva le mani lisce; mentre le sue erano spesso screpolate - i guanti di pelle sono freddi d’inverno – e indurite dall’uso della spada.
“Che carta spessa però!” disse, tornando a posarle addosso le pupille delicate. “Che stupidaggine…” si schermì da sola, pensando di aver fatto un’osservazione inopportuna.
Oscar la guardò incuriosita. Non le sembrò un’osservazione stupida. “Perché?” le chiese.
“È rovinata… ma è molto bella, molto spessa. Avevo delle magnifiche penne spagnole, avevano dei pennini grandi e cesellati, le usavo sulla carta che Armand ordinava per la nostra famiglia… ma avrebbero meritato carta morbida e spessa come questa…”.
“Dici?” le chiese Oscar, prendendo di scatto in mano uno dei resti della lettera.
“Sì…” rispose incerta Marie Victoire. Le sembrò troppo strano che si fosse rianimata per delle osservazioni mondane sulla consistenza della carta.
Oscar chiuse il palmo intrappolando il ricciolo di carta. Aveva qualcosa di felino nello sguardo.
“Grazie!” le disse secca con un lieve sorriso. Marie Victoire avrebbe risposto prego, se ci avesse capito qualcosa e se qualcuno non fosse entrato nella stanza. Forse era stata là tutto il tempo.
“Quando credi di tornare a casa Marie Victoire? Tuo marito ha promesso che ti regalerà ben più che carta da lettere: un nuovo calesse e un nuovo clavicembalo. Ha detto anche che la domenica potrai recarti a messa in compagnia delle dame che ti sono più gradite… Credo sia ora di porre fine a questa commedia” concluse madame.
Marie Victoire fece per parlare. “Quando ti deciderai? È durata già troppo per l’onore di questa famiglia questa farsa! O torni indietro o ti ripudierà e allora…” la incalzò madame.
“Certo! Come no! Che uomo generoso! Questo non è matrimonio: è prostituzione!”.
Non aveva parlato Marie Victoire, ancora seduta sul divano. Oscar sovrastava madame, col pugno chiuso.
“Che vuoi dire, insolente?!” alzò il tono della voce madame.
“Che paga una donna che non lo ama per andare a letto con lui!”.
“Deve dargli degli eredi!”. “Eccolo è tornato” disse concitata madame, interrompendo il discorso, indicando la porta.
André si bloccò sulla soglia. Era troppo soprappensiero per rendersi conto che nel salottino c’erano delle altre persone oltre ad Oscar. Le urla lo strapparono al ricordo della candela che il dottore gli aveva lasciato scorrere di fronte agli occhi. Ad un certo punto aveva avuto paura di non vederla più e di sentirne solo il calore sul viso.
Tre paia di occhi addosso. Per nulla pacifici per motivi differenti.
Per un istante non seppe che fare. Lo sguardo di Oscar gli diceva di non muoversi.
“Allora sarebbe una prostituta anche tua madre” incalzò madame. “E l’unica che non è una prostituta scommetto che qui sei tu!” urlò ancora, guardando André. “Quell’uomo è stato preso in questo famiglia per badare ai tuoi cavalli e farti da sguattero”.
André non rispose.
Marie Victoire era già fuggita. Oscar voltò le spalle e si avviò verso l’uscita. Quando le passò accanto le sussurrò “Ditelo ancora e non vi assicuro che la prossima volta starò ferma”.
Quando fu uscita, madame ebbe l’impressione che André la guardasse con commiserazione. No, non era lo sguardo spento. La commiserava.
“Sai che fine fanno gli uomini come te, André?” chiese. Irritata dal cercare nel suo viso, senza trovarli, i tratti di qualcun altro.
André non rispose e si allontanò senza salutare.
“Fosse stato lui come te. Lui rimase sempre al suo posto” pensò.
“Tuo padre, prima di morire, avrebbe dovuto insegnarti qual è il posto per quelli come te”gli sibilò dietro.
“Avevo un anno… quando morì mio padre” rispose laconico, già fuori dal salottino.
“Non farmi perdere tempo! È una cosa che qualcuno deve controllare”.
“Non c’è tutta questa fretta… puoi fermarti un attimo ed ascoltarmi”. André la seguiva. Lei, per tutta risposta, si appoggiò di peso alla porta della scuderia; la porta strisciò pesantemente sul pavimento e si aprì a scatti sulla penombra.
“E invece sì. Ti ho già detto quello che dovevo e non voglio ascoltare nient’altro. Devo parlare con qualcuno che faccia il cartaio”. La indispettiva tallonandola. Non le avrebbe dato tregua. “Ti vuoi spostare?” disse voltandosi stizzita.
André fece un passo indietro, spiazzato dal tono che da polemico era diventato aggressivo. “Che vuoi fare?” le chiese, vedendola trascinare a fatica la sella verso César. Non gli rispose. “Fra poco nevicherà. Non lo hai visto il cielo?”.
Le stava sfuggendo la sella di mano. Gliela tolse e si diresse verso il cavallo. “Vuol dire che vengo con te” commentò in tutta tranquillità e posò la sella sull’animale.
“Piantala per favore!” urlò lei.
César ebbe un moto. André si voltò a guardarla senza rispondere.
“Idiota! Tu non sei il servo di nessuno” disse alterata e con un gesto brusco gli allontanò la mano dalla fibbia della sella. “Per cosa credi che ti abbia licenziato?”.
Era la prima volta che faceva riferimento a quella sera. Nonostante tutto lo avevano custodito come un segreto che ciascuno avrebbe portato per sé. Per lei quell’atto di insensibilità e poi uno stupore che l’aveva paralizzata. Per lui l’istinto fuori dagli argini e la paura perfino di se stesso.
“E tu… per cosa diavolo credi che ti segua? Mi fai così stupido da credere che prendi il cavallo e te ne vai, perché veramente al calar del sole ha un senso andare a cercare cartai a Parigi?”.
César iniziò ad essere irrequieto. C’era poca luce e dalla porta aperta, lentamente, il gelo si sostituiva al respiro caldo degli animali. Alcuni attrezzi appesi ai chiodi dondolarono spostati dal vento con suono metallico. Mentre il sole, pallido, scompariva dietro l’orizzonte, silenziosa, la neve scendeva dal cielo e si posava sul terreno in una coltre bianca. Sarebbe diventava spessa, calma e morbida come l’ovatta. La notte prometteva un candore tranquillo, troppo discordante coi loro due cuori. Lampi e un sole nero sarebbero stati più adatti. Come se i colori del mondo si accordassero sempre agli stati d’animo…
“È una stupida scusa! Maledizione! Mi vuoi evitare… lo conosco già questo gioco” le gridò contro. Le sbarrò il passo. “E non sopporto di vedere che ti fai a pezzi da sola, senza dirmi nulla di quello che ti passa per la testa… ieri mi sono sentito inutile per l’ennesima volta al tuo fianco, quando ti ho visto sulla torre, seduta per terra… non mi hai detto una parola… Mi manca un occhio, ma non ho bisogno di vedere per capire quello che succede a te…”.
Oscar scosse il capo. E si voltò dall’altra parte, facendogli un segno con una mano, non voleva più ascoltarlo.
Sentiva rabbia e pena crescerle dentro. Ad ogni secondo l’una soffocava l’altra. L’una inseguiva l’altra. Se avesse detto veramente quello che le succedeva, quello che credeva di intuire, sarebbe scoppiata a piangere. Non ne aveva nessuna voglia. Nemmeno la voglia di dargliela vinta.
“Senti…” gli rispose voltandosi e spintonandolo all’improvviso. “Piantala!”. “Piantala!” ripeté minacciosa. “Sono stufa. Stufa fino alla nausea di complicazioni, doveri ed altre schifezze. E fra poco sarò stufa anche di te” disse con una voce di ghiaccio. Non si sentì più forte. Lo sguardo che le rivolse in cambio di quelle parole le fece paura.
La neve cadeva sul viale con un rumore da sogno. Milioni di volteggi soffici.
I segni d’arma sul viso e l’odio che gli occhi riservano alla tortura. Le fece paura il suo non reagire. Le fece anche rabbia e lo spinse di nuovo. In un percorso di pensieri inverso e tortuoso. Per essere sicura di non averlo ucciso con le parole. Come se tutti i modi in cui aveva imparato ad aprire il cuore fossero stati cancellati dal cadere della neve, bianca come uno zero, sul mondo.
Non accusò il colpo. Rimase fermo sulle gambe e fu come sbattere contro una roccia. Le afferrò un polso.
“Devo essere proprio un idiota. Hai ragione. Vai a cercare il cartaio… vai…” le disse, trascinandola di peso verso il cavallo. “E trovane uno idiota, almeno quanto me, da stare aperto di sera e con la neve a metà polpaccio…”.
Cercò di liberare il polso ma non ci riuscì. Era troppo forte la stretta.
“E poi per oggi non fai in tempo a salvare nessuno, comandante! Solo a farti male da sola. La ragazza ferita è morta stamattina in un ospedale… ho chiesto notizie in città”. Mentre parlava era già pentito. Gli occhi lasciavano passare solo il dolore.
“Sei uno scemo… uno scemo… io volevo stare sola con te e te ne sei andato…” disse cedendo. Liberandosi solo di un frammento della verità.
Se avesse confessato di sentirsi colpevole nei suoi confronti lui avrebbe negato. E temeva che avrebbe negato per paura di ammettere la verità.
Ora sì che tentava di arginare le lacrime. Ed era difficile, perché bruciavano fra le ciglia. Serrò le palpebre e affondò il viso nella sua giacca. Sentì il suo cuore contro il viso battere troppo veloce.
“Mi dispiace… mi dispiace…” le disse. La voce era calma: quella che lei conosceva.
Le posò le labbra sui capelli e scacciò le ombre vaghe che ricordavano lo studio del medico.
ЖЖЖ
Sarebbe fortunato un uomo se potesse radicarsi in un unico momento.
Scegliere un momento e scegliere di raggrumarsi in esso come sangue vivo sulla ferita che lo genera.
Scegliere un momento e rendere grazie per il privilegio di averlo vissuto nonostante una maledizione lo afferri per capelli: il destino che graffia gli occhi. Li spegne, mentre l’istinto dice di prendere tutto quello che c’è.
La parola, il colore, il suono, la forma, il calore.
È lei. Metà del corpo rischiarata dalla luce del camino. La luce scontrandosi coi contorni definisce le forme. Sembrano dorate.
Forme, colori… Il tocco, il brivido, il gemito. La stoffa sotto la pelle. Ancora la fiamma che si dibatte in prigione.
Fuori la notte è immensa e schiusa. Parigi è immensa e abbandonata. Ma cosa importa.
Un sussurro. La mano. La pelle. Il profumo. La lingua e il bacio. Il sesso. Il liquido.
E la mia vista per tutto questo!
Il sussurro. Il respiro sincopato. Il calore. Il sudore. Brividi come scosse.
La sconvenienza di lei che quando la voce non è più un sussurro dice… Che chiede.
Sia grazie alla debole luce del fuoco. Potesse l’uomo inchiodarsi a un’ora della sua vita e la maledizione allentare la presa. Il destino ritrarre gli artigli.
Riaverla indietro per un’ora… Un minuto… Un istante! La mia vista.
Potrebbe piangere. Potrebbe… ma le lacrime non bastano a corrompere il destino. Sono merce di scambio per i miserabili. Merce che ha valore solo per chi la possiede.
È una visione accesa di fuoco e sfocata il corpo di lei che si contrae sul suo. È più morbido del solito. Non è quello che si favoleggia sulla femmina nel vicolo cieco delle camerate. Non è fottere. Sono carezze viscerali. È eccitante da chiedere di morirne. Lo chiede.
Ti supplico… così…
E ne muore.
Forse era mattino. Forse. Chissà. Gli sembrò che nella stanza fosse entrata la luce leggera dell’alba. Il camino era spento. Steso sul fianco ce l’aveva di fronte. Tentò di voltarsi dall’altra parte del letto, ma si fermò. Era appoggiata alla sua schiena. Reclinò il capo sul cuscino e accarezzò la mano che gli cingeva la vita.
Chiuse gli occhi, perché essere costretto a mettere a fuoco le immagini era tormentoso. Era uno schifo completo. Deglutì a fatica. Si chiese per quanto poteva fingere. Avrebbe finto anche dopo? Perché sarebbe successo. Ormai era certo. Il medico lo aveva detto. I contorni delle immagini si sfaldavano come nebbia sullo sfondo. I colori evanescenti. A cosa serve un uomo così?
Non avrebbe mai cercato le parole giuste per dirglielo. Probabilmente, se lei lo avesse notato, sarebbe stato capace di negarlo. Aveva finto molte volte di vedere bene, catalogando particolari che le rifilava al momento giusto. Si sentì stupido. Già l’aveva turbata troppo lasciandosi strappare quelle confessioni sul disagio di dover vivere con un volto che non è più il proprio. Stupido.
Un vantaggio sarebbe stato non vedersi allo specchio in quelle condizioni. Ma quel segno gratuito l’avrebbe portato sulla pelle ogni giorno della sua vita. Non avrebbe più visto lei: questo era quello che veramente lo uccideva.
Strinse le lenzuola fra le dita e schiacciò il viso contro il cuscino.
Merda!
Tutt’intorno il silenzio era profondo. Irreale. Più lo ascoltava più gli sembrava che gli si solidificasse attorno. Che diventasse materia. Avanzava fino ai piedi del letto. Toccava le caviglie e strisciava lungo le gambe nell’ombra. La vista e l’udito spenti. Gli sembrò che volesse afferrarlo per la gola per impedirgli di parlare. Sentì un brivido infantile lungo la schiena. Per reazione lasciò andare un suono della voce. Per uccidere il nemico invisibile. E scattò a sedere sui gomiti.
Il silenzio si ritirò, come il mare in bassa marea, oltre la sponda del letto. Si accorse che stava sudando. Rimase così, a capacitarsi dei suoi pensieri assurdi. Lo distrasse lei che, addormentata, si girava nel letto. Quello scatto aveva interrotto il flusso regolare del suo sonno. Il movimento le scoprì un fianco: questo poteva ancora vederlo. Per quanto?
ЖЖЖ
La bottega del cartaio era inondata dal sole. La luce era fredda e splendente, attraversava i vetri e si posava sui cumuli bianchi di carta. Alcuni garzoni attraversavano l’ampia sala fra gli spifferi d’aria provenienti dalla porte aperte.
“Ora arriva mastro Jobert” disse uno di loro e s’allontanò pulendosi le mani con uno straccio.
Rimasero fermi in attesa, senza dirsi niente, chiusi nei mantelli delle uniformi.
André ruppe il silenzio all’improvviso: “È un po’ che penso che è contro la normale prassi… tenere per sé gli indizi di un caso”.
Lo osservò un attimo, poi tornò a guardare altrove. “Non è un caso… Ha toccato te: questa è una faccenda privata” gli rispose.
André non trovò le parole per rispondere e fece qualche passo alle sue spalle.
Non si erano detti molte parole da casa alla caserma e dalla caserma alla bottega del cartaio.
“Sono così stanco” aveva detto la mattina, prima di lasciare il letto ed aveva una strana espressione trasparente. Forse credeva che non l’avesse sentito. Neanche a lei andava di alzarsi: i loro corpi erano ancora troppo caldi.
“Posso chiedervi perché me lo chiedete?”.
“Nulla di speciale. La contessa de Jarjayes, mia madre, è rimasta molto colpita dalla qualità delle carta e mi ha consegnato questo campione… Riconoscerete che è una carta molto diversa da quella che voi ci fornite. La contessa ritiene che sia di una qualità superiore, perfetta per scrivere sonetti, altre poesie, per la corrispondenza con personaggi di riguardo…”.
Scrutò un attimo mastro Jobert che esaminava ora il campione di carta con su scritto “all’alba”, ora lei. Decise che era interessato ad ascoltare quell’apologetica della particolare prestanza di certi tipi di carta e continuò indomita.
“Ne converrete, mastro Jobert, che gli studi di calligrafia in cui, in specie, le dame si accaniscono possono essere degni di tale nome soprattutto se la base è una carta come importante come questa”. Dopotutto, per quanto frivole, erano argomentazioni atte a motivare tutte quelle domande sulla carta.
“Eh… sì… importante…” confermò mastro Jobert, uomo di media statura, dall’aria simpatica e il cranio lucido.
“Saprete, mio caro Jobert…” continuò, sotto lo sguardo di un quanto mai perplesso André “… certe nobildonne ritengono che la qualità della carta sia un elemento determinante per il successo delle proprie opere, così come un bell’abito o i gioielli più alla moda un elemento fondamentale per fare conquiste! Capirete che mia madre, la contessa, terrebbe oltremodo a disporre di materiale di questa qualità per la sua corrispondenza”.
“Sì… certo. Capisco, madamigella Oscar!” confermò l’ingenuo Jobert. “Veramente un’ottima qualità. Peccato che il campione è piccolo e rovinato…”.
“Ma io ve l’ho sottoposto comunque perché sono al corrente della vostra competenza…”.
“Beh sì, certo…” si compiacque Jobert, continuando l’esame.
André rimase in disparte ad osservare la scena.
“Se vorrete, madamigella, potrò farvi avere dei fogli campione di questa qualità la settimana prossima”.
Oscar annuì pronta a formulare la domanda che le stava più a cuore, ma Jobert, rapido e sicuro nel parlare, la prevenne: “Non per vantarmi, madamigella, ma credo che questo campione venga dalla mia bottega. Non è un caso che la Corte e molti altri nobili si rivolgano a me e non ad altri… questo pezzo è stato perfino bagnato, se fosse stato di un altro… che so… di Antoine le Salaud (il puzzone) si sarebbe sciolto… e poi me ne sarei accorto… se non da altro dall’odore…ah ah ah ah!!!” concluse Jobert, divertito dalla propria battuta, senza trovare complicità nello sguardo gelido di Oscar e giusto un mezzo sorriso sulle labbra di André.
“Dite addirittura che potrebbe esser vostro?” chiese Oscar, vedendosi sulla buona strada. Mai avrebbe sperato tanto.
“Certo… non usiamo delle presse qualunque… certe presse le abbiamo solo noi a Parigi. Ed io non farei bene il mio lavoro se non riconoscessi i manufatti che escono da qui dentro” affermò con orgoglio e con un gesto ampio che indicava la bottega spaziosa.
“Certo, Jobert! Ma, ditemi, è un tipo di carta che fornite a molti nobili? Deve essere molto costosa”.
“È molto costosa. Non la chiedono in molti. In effetti è un particolare tipo di carta che ho inventato io, se mi concedete di dire così, per le esigenze di sua eccellenza il Duca d’Orléans”.
Oscar si girò di scatto verso André. Si intesero.
“Sì… in effetti mia madre deve averla apprezzata proprio lì. Solo il Duca d’Orléans?” chiese con aria compiaciuta e interessata.
“Sì. È un lavoro molto particolare e di classe”.
“Ne convengo Jobert. Consegnatene un partita a palazzo Jarjayes la settimana prossima. Mia madre ve ne sarà grata. Io vi ringrazio fin da ora” disse con la solita espressione da felino pronto all’attacco. André lo sentì chiaramente.
Si diressero verso l’uscita. “Hai visto?!” disse Oscar.
Nel varcare la porta un ragazzino sbatté contro André. “Scusatemi…” disse alzando il capo, poi fuggì via spaventato.
André non ebbe il tempo di rispondere, ma continuò a camminare. Oscar vide che aveva cambiato espressione, ma non ebbe il coraggio di chiedergli nulla, neanche di rincuorarlo.
“Non cantare vittoria troppo presto. Ricordati di quanta gente frequenta quel palazzo” la ammonì. Fingeva di non essersi accorto della reazione del ragazzino.
Fecero qualche passo in silenzio. “Ti stai astenendo dal chiedermi qualcosa. Ti conosco” gli disse. Aspettava una domanda che tardava ad arrivare.
“È vero” confermò lui con le briglie del cavallo in mano. Oscar attese.
“Mi chiedo perché tu abbia tirato dentro in quel modo tua madre”.
Mi sono chiesto il perché di molte cose; in realtà di ogni cosa che mi passasse d’avanti agli occhi. Ma, quando gli occhi non distinguono più le cose, i perché rimangono a galleggiare nel buio. Ancora vivo, fra l’oscurità e l’ombra: una terra di mezzo fra la rabbia e la rassegnazione.
Mi chiedo tante cose su me stesso ormai, quante non me ne sono mai chieste. Sto diventando più vecchio e più egocentrico, allo stesso ritmo con cui perdo l’immagine di te.
Di te che, per non sentirti indifesa, esponi il fianco alla stoccata, tenendo ben stretti sotto la giacca il cuore e l’anima.
“Vuoi vendicarti di lei Oscar? Ha un senso?”.
“Non era premeditato”.
Montò a cavallo e lo spronò, senza più toccare l’argomento per l’intero tragitto.
ЖЖЖ
Dal fracasso e dagli scoppi di risa sembrava che tutti si divertissero molto. In realtà erano già un po’ tutti ubriachi ed era solo aumentata la tendenza alla platealità. Oscar posò il bicchiere quasi vuoto sul bancone ed osservò due soldati che ballavano a braccetto.
“Cosa hai in mente?” chiese André.
“Come?” chiese, distratta dallo spettacolo. Era una domanda cui non era pienamente in grado di rispondere.
“Che vuoi fare? Perché quella commedia?”.
“Quale?” chiese ancora sorseggiando dal bicchiere.
“Perché hai tirato dentro a questa storia tua madre?”.
Rimase col bicchiere a mezz’aria. Assaporò quello che le era rimasto sulle labbra. Una risposta precisa non c’era. Quella che aveva non era così plausibile da essere confessata. “Tu pensi che ho fatto male?”.
André non rispose. Chinò il capo sul suo bicchiere mentre un rumore di tavoli spostati e risa sguaiate esplodeva dall’altra parte della sala.
“Non l’ho mica coinvolta… Ho lasciato solo il suo nome per una consegna”.
André sospirò. “Sei sicura che non l’hai fatto per altri motivi… per l’altro giorno…”.
“No. Non ne sono sicura. Sei contento. Non lo sono” rispose netta e si voltò a guardarlo. “Cosa vuoi che le succeda?” chiese più calma.
“No… nulla, niente…ma forse non è stato prudente” rispose guardando altrove.
L’oste, indaffarato, si interruppe per versare da bere nel bicchiere teso che gli tendeva. Il soldato timido ed educato stasera andava in giro con un amico biondo stretto in un pastrano celeste. Delicato il biondino… da sembrare una donna. Alzò le sopracciglia. Quello le sue ragazze non se le filava. La sera che gli avevano sfasciato i tavoli aveva fatto un casino insieme agli altri, e alla fine, mezzo collassato per terra, ripeteva il nome di un certo Oscar.
“Ci serve quella carta…” disse, per giustificare qualcosa che le bruciava come ingiustificabile, come una macchia sul suo intuito, come la punteggiatura sballata in uno scritto. “Avrei potuto lasciare il mio… di nome” aggiunse a voce più bassa.
Nel casino intermittente la voce di Alain arriva a sprazzi. “Piccola e bianca… piccola e bianca… volevi i capelli d’oro… lui ti volse le spalle… e tu le voltasti a loro…” diceva la voce impastata.
Oscar sentì un brivido su per la schiena. Si voltò di scatto per ritornare al suo posto “Che diavolo dice…” disse istintivamente e poi tacque. La voce non si distingueva più.
“Potevamo farcela dare visto che eravamo lì…” disse André, fingendo di ignorare le parole della canzone. Non voleva cambiare discorso. “Ho sbagliato io… a non dirti nulla quando eravamo lì” chiuse guardandola e addossandosi la responsabilità.
“Ho proprio bisogno di una balia… sembra” disse lei senza colore.
“Non ho detto questo…” disse lui più diretto del solito. “Vorrei capire cosa ti sta succedendo… ti turba quello che dice tua madre? È quello che hanno sempre detto anche quando non c’era un briciolo di verità…”.
“Perché ora cosa c’è di vero?” gli rispose seccata.
Il fatto che stiamo insieme le avrebbe voluto rispondere. Ma era uno di quei momenti in cui Oscar per sfogarsi cercava lo scontro. Sarebbe stata un’altra cosa di cui si sarebbe pentita dopo, allora lui non rispose.
“E poi sono io che vorrei sapere che diavolo sta succedendo a te!” aggiunse, strappando di mano all’oste la bottiglia e versandosi da bere. La sua voce era spezzata e fievole, André la sentì ma non rispose. Lei non ebbe il coraggio di dire più nulla.
L’oste aggrottò le ciglia. Non sospettava che il biondino delicato bevesse tanto. Certo gli sembrava uno che avrebbe fatto meglio a nascere donna.
I soldati erano troppo impegnati a farsi a pezzi con l’alcol per notare il comandante in abiti civili. La serata trascorse così.
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Era molto stanca. Molto spaventata. Era arrivata una lettera, la mattina, che come tutte le lettere dell’ultimo periodo la faceva rabbrividire. È mai possibile?, si chiedeva. Perché la vita è così?, e le veniva da spaccare i vetri perché sua madre e suo marito l’avevano coi loro sguardi duri disabituata al pianto. Con le mani che tremavano richiuse la lettera e la ripose nel cassetto. Cassetto che non usava mai, come non usava mai tutti i mobili di palazzo Jarjayes. La lettera chiusa nel cassetto mandava impulsi di paura. Quelle parole sgretolate sulla carta avevano un sapore di tomba. La paura di madame divenne odio… odio austero e sordo per tutti gli amori felici.
Ebbe un guizzo d’orgoglio. Un orgoglio cattivo che tornava a galla per farla stare meglio. Dal portagioie prese una piccola scatola. L’anello d’argento scurito dal tempo era ancora lì, inerme, sul bianco velluto. Finché non fosse morta e dopo sarebbe rimasto lì a poltrire nel buio con una vecchia storia che sembrava sepolta, ma, prepotente, tornava alla luce col sapore di vecchie sconfitte. Perché al sapore della sconfitta si stava riabituando, dopo aver goduto di una gloria e di una felicità insospettate per gli altri e che, adesso, con ognuna delle sue lettere, con ognuna delle proprie visite, andava in pezzi.
pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2004
Continua...
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