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Parte V
La spina e la furia
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Varcò la soglia della caserma in un mattino insolitamente mite, lei, tempestosa come l’oceano. Lo capirono in molti che quella non era giornata. Tacquero sulle ultime leggende provenienti da Versailles: quella donna con coltelli al posto dello sguardo li avrebbe uditi da chilometri, avrebbe smascherato anche i loro pensieri e avrebbe fatto pagare il minimo sbaglio a chiunque. Tacquero perché così non c’era gusto: era come correre incontro ai guai mentre lei ti si avvicinava a passi pesanti e falde del mantello tese.
Al saluto militare fu fredda, quasi infastidita.
Attraversata la piazza d’armi varcò controvoglia la porta dell’androne e si sentì precipitare nel solito buio umido che le diceva che era arrivata in caserma. Da lì in poi si imponeva sempre di non pensare ad altro. Si ripeté la solita scena d’ogni giorno. Vide i soliti volti cui rispose con cenni scuri e distratti. In una sensazione di fastidio generale, un volto la infastidì più di tutti: il carceriere le caracollò davanti pallido in una specie di saluto. Quasi lo ignorò mentre lo guardava allontanarsi mesto e sbiancato nella penombra. Piegato su se stesso, quasi dimagrito. Non lo sopportava, era stato un sollievo non vederlo per tanto tempo ed ora era lì.
Quando posò la mano sulla maniglia della porta dell’ufficio fece giusto in tempo ad abbassarla ed a rimanere ferma. Schegge di pensieri la bloccavano sulla soglia. Rimase ferma definendo immagini e idee. Pensò di spingere la porta per entrare, ma si guardò inevitabilmente indietro. Guardò il corridoio da dove era arrivata. Richiuse la porta, tornò sui suoi passi e preceduta dal ticchettio minaccioso degli stivali ricomparve nell’androne. I soldati si misero di nuovo sull’attenti. Li scrutò tutti nella loro apparente impassibilità, prendendo tempo. Il carceriere era curvo sul suo tavolo nel corridoio di fronte.
Gli occhi di Oscar cacciavano qualcosa. Inseguivano il particolare.
“Il colonnello Dagoût?” chiese per motivare quell’irruzione. In realtà non aveva nulla a che fare con quello che le era venuto in mente.
“Non c’è oggi…” stava dicendo timidamente un soldato.
“Tu. Seguimi” gli disse scarna, facendogli un cenno.
Il ragazzo la seguì per il corridoio. Di fronte alla sua porta gli ordinò con lo stesso tono “Cerca il soldato Grandier. Mandalo nel mio ufficio. Sbrigati”.
Entrata nello studio rimase in attesa in piedi, di fronte alla finestra, col mantello ancora sulle spalle e le mani che giocavano nervosamente col laccio che lo legava al collo.
“Mi è venuta in mente una cosa” disse, voltandosi con le mani dietro le schiena, non appena André ebbe varcato la soglia, senza lasciargli il tempo di salutare. “Mi è venuto in mente che il giorno in cui il ragazzo è stato avvelenato una persona ti ha visto fare qualcosa che non dovevi… intendo qualcosa che poteva dare fastidio a chi lo ha voluto avvelenare. E forse è la stessa persona che gli ha consegnato il veleno”.
“Ha visto che raccoglievo quei pezzi di carta…” concluse lui. “Ci ho pensato più di una volta”.
“Ti può aver visto solo una persona” aggiunse avvicinandosi e distinguendo il segno sullo zigomo destro.
“Lo dobbiamo provare…” disse lui comprendendo. Non c’era bisogno di troppe parole.
“Sei proprio sicuro di non ricordare l’uomo che ti ha seguito? André è impossibile che non ricordi nulla… se lo vedessi ora lo riconosceresti?” gli disse scaldandosi.
“Forse. Non posso assicurartelo… Credi che sia…”.
“L’uomo che ti ha sparato non potrà più usare la mano che hai colpito col pugnale vero? Non può essere una coincidenza… quello che ti mostro adesso” disse prendendolo per il braccio e trascinandolo lungo il corridoio.
“Guardalo e non parlare” gli chiese sottovoce prima di imboccare lo stretto corridoio in cui era di guardia il carceriere.
L’uomo se li trovò davanti all’improvviso e, bianco come un cencio, nascose, furtivo, una fiaschetta sotto il bancone, ma un odore di vino cattivo lo tradiva. Non sbiancava per esser stato sorpreso con del vino, Oscar ne era sicura. Non aveva quasi più la mano destra: era avvolta, informe, in una benda sporca e tentava pateticamente di nasconderla nel fianco pingue. Lo guardarono in silenzio dall’alto in basso, mentre rimaneva fermo sul suo sgabello.
“Prendete le chiavi. Portateci nella cella in cui era l’uomo che è stato avvelenato. Dobbiamo fare dei controlli” gli disse fredda. Se era lui gli avrebbe affondato senza scrupoli il coltello nella piaga.
I passi nella cella suonavano di vuoto. Oscar si muoveva sotto la luce che filtrava dall’alto, dalla finestra con le sbarre, lasciando vagare lo sguardo per i muri. I raggi di luce addolcivano il colore dei capelli, ma l’ombra sul viso era scura. Faceva domande laconiche a cui già tempo prima erano state date risposte. Lo faceva per prendere tempo. Era una specie di sottile tortura, pensò André, mentre osservava il carceriere che come uno straccio in un angolo aspettava la fine.
Si accorse di guardarlo con odio. Quando aveva perduto l’occhio non aveva provato nulla di simile. Era un rischio calcolato. Non un dolore gratuito. Le contingenze erano diverse. E non ne aveva fatto una colpa a Bernard. Meglio non vedere mai più che perderla. Avrebbe rifatto la stessa scelta.
Gli occhi gli si serravano nervosi nel metterlo a fuoco. Ne sentì il respiro pesante. Era lo stesso respiro che aveva sentito alle sue spalle nell’ombra di quella notte. Guardò senza rimpianto il moncherino che nascondeva nel fianco abbassando lo sguardo.
Guardò Oscar oltre l’uomo intrappolato fra loro. La preda nella tela del ragno. Come il ragno ce la prendiamo comoda lessero l’uno negli occhi dell’altra. L’uomo stringeva nella sola mano abile il mazzo di chiavi. Sembravano più pesanti di quanto non fossero mai state. Il loro silenzio lo schiacciava.
Tornava il buio. Nella zona ricca della città le luci splendevano dietro le vetrate dei palazzi. Le strade si azzittivano con lo spegnersi del sole.
“Monsieur… monsieur Dupot mi pare…” chiese implorante l’uomo.
“Andatevene o vi frusto, pezzente!” intimò dura e noncurante una delle guardie in uniforme presso la cancellata.
“Sono certo che lavora qui… che è qui…” continuò a questuare l’uomo, stringendosi con una sola mano nel mantello liso che lasciava intravedere il ventre.
“Via! Imbecille. Portatelo via!” urlò la guardia e l’uomo venne trascinato lontano dal cancello in malo modo. Continuava a chiedere di monsieur Dupont.
“Alla fine quando ci sono guai nell’aria ci troviamo sempre qui di fronte” aveva detto André.
La scena della questua presso il cancello volgeva al termine. Il carceriere rotolava nella melma sul lastricato trascinato via dalle guardie. Si impegnavano a farlo tacere.
Erano in ombra in un vicolo. Mantelli pesanti e cappello calcato sugli occhi. Oscar non aveva risposto ed aveva continuato a fissare le luci del Palais Royal. Il suono delle voci si spense.
“Era lui che ti seguiva quella sera. Ed ha capito che lo sappiamo. Sta morendo di paura e chiede aiuto a chi lo ha tirato in questa storia. Chi diamine è questo monsieur Dupont?”.
“Già…” le rispose, spostando lo sguardo dal capannello delle guardie alle luci oltre la cancellata. “Non ne ho mai sentito parlare. È un cognome borghese. D’altronde lì dentro non ci sono solo nobili… lo sappiamo bene”.
“Ci sono troppe cose che quadrano poco” aveva detto fra sé e sé Oscar. Aveva osservato le guardie tornare ai loro posti. Il silenzio era completo.
Col buio e il silenzio nuovi incubi e nuove preoccupazioni le erano tornate alla mente. Le donne. I quartieri bassi. I sangue gratuito.
Poi aveva sentito la voce di André dire “A questo punto dobbiamo chiederlo direttamente a lui chi è monsieur Dupont”.
ЖЖЖ
Sua sorella, la testa bassa, giocava col cucchiaio nella minestra. Nell’aria, nei rumori delle posate contro la porcellana, nel tintinnare dei bicchieri vibrava la tensione. Sua madre all’altro capo del tavolo sollevò lo sguardo e tamponò la bocca col tovagliolo candido e gesti brevi e metodici.
Distolse lo sguardo e tornò a pensare alla sera prima.
“Ti ricordi di me, no? Questa sera ho portato anche i proiettili” aveva detto André premendo la pistola sulla schiena dell’uomo.
Lo avevano bloccato nel buio e lei lo aveva spinto col viso contro il muro, immobilizzandogli le mani e il capo.
“Madamigella gradite del vino?” le chiese uno dei servitori. Rifiutò. Non guardò sua madre, ma vide sua sorella portarsi il cucchiaio alla bocca continuando a tenere lo sguardo basso. Dopo un attimo richiamò il servitore e si fece versare del vino bianco. Portò il calice alle labbra.
L’uomo aveva cominciato a gridare e a chiedere pietà. Lei non sapeva cosa dirgli. Avrebbe voluto gridargli “Madeletto stronzo di un codardo! Codardo!” e colpirlo, ma si era controllata. Le erano venute in mente cose tremende da gridargli contro ma gli disse solo “Vedi di fare silenzio!”. Glielo aveva sibilato fra denti.
“Se non mi racconti tutta la storia ti faccio fuori l’altra mano!” gli aveva intimato André continuando a premergli contro la pistola. “Ti ha mandato da me monsieur Dupont vero?, dopo che gli hai detto che avevo trovato i frammenti del messaggio. Che diavolo voleva?! Chi è quella belva?”.
“Gliel’hai data tu la fiala col veleno a quell’uomo in prigione. Lo sappiamo, non negare!” lo aveva incalzato lei puntandogli il ginocchio contro la schiena, mentre quello, al colmo della disperazione, tentava debolmente di divincolarsi e la mano di André lo spingeva contro il muro.
“A cosa pensi Oscar? Da ieri hai un’espressione molto tirata. Non deve essere stata una bella giornata” le disse sua madre. Lei incollerita continuò a fissare il liquido chiaro che oscillava nel bicchiere. Non aveva intenzione di risponderle.
“Io… io non c’entro niente… non c’entro niente!” s’era messo piagnucolare.
“Mi credi scemo da crederti, brutto pezzo di merda?!” gli aveva urlato in viso André, voltandolo violentemente e sollevandolo quasi da terra. Lei aveva indietreggiato.
Madame continuava a fissarla.
Lo avevano chiuso nella cella.
“Io sono povero! Sono povero! Non mangio tutti i giorni… non mangio tutti i giorni…” aveva continuato a dire senza fine.
“Questo concetto l’ho afferrato” gli aveva detto lei da dietro le sbarre. “Vedi di non ripetermi sempre la stessa storia!” Si era sentita cattiva perché aveva intuito quel che avrebbe detto. André era di fianco a lei rigido, con le braccia conserte. Non diceva una parola.
“Avanti!” aveva urlato lei. E mai aveva sentito la sua voce così sferzante.
“Io sono povero non mangio… monsieur Dupont mi ha chiesto di consegnare un piccolo pacchetto a quell’uomo… mi ha dato dei soldi e l’ho fatto… non so perché… non sapevo che c’era…”.
“Chi è monsieur Dupont?” aveva tagliato corto.
“È un giovane… lo conosco di vista… non sapevo che c’era veleno! Quando gli ho raccontato cos’era successo, che un soldato aveva preso i resti della lettera, mi ha offerto tante di quelle lire tornesi… tante che avrei mangiato un anno… e mi chiese di ucciderlo… io non ammazzo la gente, ma così…”.
“Basta” aveva detto calmo André, senza muoversi. “Vedi di spiegarmi perché sei andato come un idiota a chiedere aiuto al Palas Royal”.
“Ho sentito che lui va lì… lavora lì, mi sembrava… non so che fa… gli volevo chiedere di aiutarmi… ora voi volete ammazzarmi…”.
“Hai detto che è un giovane… è in buona salute questo tipo? Com’è?”.
“Sì… è un giovane… è rubicondo… è grasso… lui mangia, ha la forza di un toro. Perché ha chiesto una cosa così a un uomo come me…”.
“Per non sporcarsi le mani, no? Stupido… Sei in arresto” lo aveva interrotto lei. André aveva fatto girare la chiave nella serratura. Il rumore di ferro aveva percorso il buio della cella. Un’eco breve contro i muri spogli. L’uomo era ammutolito.
“Ci dovresti ringraziare per averti messo qui a guardare il sole a strisce. Di sicuro noi non ti ammazziamo. È strano che non lo abbiano ancora fatto gli uomini cui chiedevi aiuto. Sei fortunato che abbiano tardato fino ad ora”.
Lo aveva ascoltato dire quelle parole perfettamente controllato. Poi si erano avviati verso l’uscita. In caserma era buio ed erano rimasti pochi uomini. Ancora non avevano acceso tutte le fiaccole.
“Le mie figlie hanno perduto la lingua!” commentò sarcastica madame. Scosse il capo e gli orecchini lampeggiarono alla luce delle candele.
“Io non mi sento molto bene. Preferirei andare a letto” disse sua sorella alzandosi dalla sedia.
“Volesse Iddio che fossi incinta, così tuo marito non avrebbe motivo di picchiarti…” lasciò risuonare nella sala la voce di madame.
“Basta!” gridò Oscar. Colpì il tavolo e fece sobbalzare posate e bicchieri coi loro rumori freddi. Ci fu un attimo di silenzio. Un servitore imbarazzato, guardò da una parte poi dall’altra e sparì nelle cucine.
“Che lingua biforcuta!” esclamò osservando la donna all’altro capo del tavolo. Sua sorella era in piedi con una mano sugli occhi.
“Credo che andrò a letto anch’io” aggiunse, togliendo la mano dal tavolo. Non aveva intenzione di intavolare nessuna discussione.
“Troverai sicuramente il letto caldo. Le firmi tu le licenze ad André vero?”.
Guardò sua sorella. Gli occhi le suggerivano di lasciar perdere. La voce di madame attraversò ancora la sala: “È sempre stato strano quel ragazzo… va a letto con la stessa persona che lo ha fatto mutilare”.
Uscì dalla stanza a testa bassa. Si trovò su un pianerottolo. Non sapeva nemmeno quante rampe di scale aveva percorso.
“Non è detto che il Palais Royal c’entri niente… Avevo paura che lo ammazzassi” gli aveva detto sinceramente nel suo ufficio.
Lui aveva scosso il capo e non aveva risposto. Si era appoggiato sul bordo della scrivania col cappello fra le mani. Lo sguardo di quel giorno che le aveva chiesto di risparmiare Bernard.
“Vuoi tornare a casa con me?” gli aveva chiesto quasi vergognandosi.
La notte era fredda. Forse non quanto le notti precedenti. Ma le sembrò ancora più fredda quando sentì una goccia calda scivolarle lungo la guancia. Una lacrima.
Chinò il capo sulle ginocchia ed unì i piedi perfettamente. Avrebbe voluto essere una pietra per non pensare. Il vento fischiava creando corrente fra le ampie arcate della torre. Forse avrebbe cancellato anche quel suono fastidioso, diventando pietra.
“Se non ti andava… potevi dirmelo e basta. Guarda che posso capirlo... Venire qui sopra, al centro della rosa dei venti, non mi sembra un’alternativa ragionevole” disse una voce che la fece sussultare e si trovò ricoperta da un mantello.
“Non è per quello…” rispose sconsolata, lasciando scivolare il mantello giù dal capo per visualizzare il colpevole. “È ironia?” chiese senza scherzare. Fissò la sagoma di fronte a lei nell’ombra.
“Scusa” le disse chinandosi e posandole le mani sulle spalle. “Non è la serata giusta - vero? - per scherzare”.
Per un po’ si udì solo il rumore del vento. Stava diventando più deciso. Si infilava come una mano irata fra le chiome degli alberi e scioglieva le nuvole in cielo. Oscar si mordeva un dito col capo chino.
Si sentì sollevare d’improvviso e non oppose resistenza. Una falda del mantello si agitò nel vento e provò un brivido. Non era stato il vento.
“Sarà meglio rientrare” disse lui laconico, imboccando la porta sulla scalinata che si avvolgeva su se stessa nella torre. Gli strinse le braccia attorno al collo e, quando lui fece un passo verso il primo gradino, le sembrò un salto nel buio. Sentì uno strano battito del cuore.
Scese sicuro e saldo lungo quella scalinata.
Lei si sentiva strana. Ingoiata dall’oscurità. C’era un altro pensiero che si agitava nella sua testa, mentre la trasportava nel buio come se il buio non esistesse. Non volle dargli ascolto per paura. Ed attese che quella discesa terminasse.
ЖЖЖ
L’inizio di ogni nuovo giorno non ha mai nulla di particolarmente bello e splendente. Ogni alba nasce dal buio. Lievi bagliori bianchi e dorati percorrono l’orizzonte. Le immagini si svelano lentamente. L’umidità della notte scivola sul verde.
Le albe sono tenui e tenere. Passerebbero quasi inosservate se non si pensasse che con esse torna il sole. Torna la luce. Torna la vita.
Ormai sono più lente e più buie anche le albe, pensò con la schiena contro il vetro e lo sguardo proteso all’orizzonte. Chiuse gli occhi e con le mani in tasca si diresse verso la balaustra. Coi gomiti sul marmo riprese a scrutare il paesaggio.
I tramonti, invece, sono spettacolari e drammatici. Ti spezzano il cuore e ne vuoi vedere ancora.
Il sole esplode il suo rosso sulle nubi. Il blu tende al viola. Si cancella piano il paesaggio e rimane, trionfante, solo il cielo. A volte il sole si dilata e sembra che sanguini. Da bambino lasciava gocciolare il tuorlo dell’uovo che la nonna gli dava per cena. Un momento prima era turgido e rosso sul bianco, poi mille rivoletti colorati imbrattavano il candore. Era un gioco scemo ma colorato. Nella sovrapposizione di colori, fantasticando un po’, si coglievano immagini.
A volte il rosso dei tramonti si era fermato fra i capelli di Oscar che, appoggiata alla porta della scuderia aspettava, a braccia conserte, che lui uscisse.
A volte i tramonti erano rosa e fatti di mille nuvolette sparse nel cielo. Qua e là riflessi indaco e arancione. Altre volte si perdevano nel maltempo e il sole moriva, anemico, dietro banchi di nubi nere.
Avrebbe voluto collezionarli quei tramonti; la gamma di colori e le forme contorte o banali delle nubi; l’intensità dei raggi e i toni scuri del paesaggio. Ma anche se fosse stato possibile rubare un tramonto non avrebbe più potuto guardarlo. Dopotutto, il tramonto coi suoi colori non è che un preludio al buio. Ed è un preludio triste per chi non vede bene, perché nel buio non scorge neanche le stelle.
Sì… metterli in un barattolo di vetro o in una scatola come quelle di latta dipinta in cui sua nonna nascondeva i dolci. E che Oscar svuotava senza ritegno sotto i suoi occhi perplessi. “Ma ti stai mangiando tutto…” le diceva incredulo, sottraendogliela e affondandovi le dita. “Non è vero ce ne sono ancora molti!” protestava lei, piccata. “Guarda qui!” le diceva, mostrando la scatola semivuota. “Perché ce li hai tutti in mano tu adesso!” recriminava lei, indicando la mano piena che nascondeva dietro la schiena.
Gli venne da ridere. Quei battibecchi erano ridicoli e divertenti. Alla fine li scoprivano sempre. Spariva sempre troppa roba e non erano mai abbastanza silenziosi. Allora pensavano solo a battersi e ad architettare nuove monellerie fra una lezione e l’altra. C’erano ancora alcune delle sorelle di Oscar e madame non era sempre via.
Oscar non era per nulla felice che la madre fosse tornata a casa. Lo sentiva e non ne capiva il perché. Giorni prima aveva avuto la sensazione che ne sentisse la mancanza più del solito. La rivide un attimo col viso tirato e livido, nella notte in cui avevano trovato l’ultima ragazza. Forse era la tensione per la crudezza degli eventi, pensò. I suoi stessi nervi erano rigidi e sfilacciati. Lo sapeva. Li sentiva deboli. Così poco saldi che non riusciva a chiudere un pugno ed a sollevarlo senza tremare. Si osservò la mano e poi la posò sul marmo della balaustra. Nella camera da letto alle sue spalle Oscar dormiva avvolta come una crisalide nel bozzolo: negli abiti del giorno prima, rannicchiata nel suo mantello, sotto le coperte. Gli era sembrato che sentisse un freddo che non finiva mai, anche mentre se la stringeva contro. Forse le aveva fatto paura il giorno prima. Davanti a quell’uomo aveva perso il controllo.
Una volta, anni prima, al tramonto, lo aveva congedato con aria di sufficienza e se n’era andata verso casa con un’espressione sognante. Aveva Fersen in testa, lui lo sapeva bene, e sembrava fluttuasse in un mondo di sogni. Aveva sentito il sangue ribollire ed aveva calciato un secchio che si era schiantato contro le staffe appese in un angolo, facendo un gran fracasso. “Che stronza!” aveva mormorato. “Vedrai che un giorno mi graffierai la schiena gridandomi che non ce la fai più!” (1). Lei aveva sentito solo il fracasso che l’aveva tirata giù dalle nuvole e gli aveva gridato “André! Ma sei impazzito?!”. “Scusa” le aveva detto, e si era chinato a raccogliere i ferri. Poi si era sentito in colpa per quel pensiero. Però non era stata solo quella la volta che aveva perso la calma… no. Altre volte… altre… il suo primo bacio non era stato come lo sognava. Non ci era abituato e non lo sopportava. Meglio non pensarci, pensò, voltandosi verso la camera da letto. Decise di aspettare dei bagliori che gli fossero visibili, prima di rientrare.
Poi forse sarebbe andato…
ЖЖЖ
“Lui sarà da lei! Te lo dico… te lo dico io!” aveva soffiato stizzita al marito che non rispondeva, con le gambe accavallate e la pipa nella mano. Se ne stava mollemente adagiato vicino al fuoco. “Te lo dico io!” aveva continuato a dire, passeggiando nervosamente per la stanza. “Umf…” era stata l’unica risposta che aveva avuto. Piccoli anelli di fumo indifferenti nell’aria. “Ma chi? Quei due?” aveva chiesto il generale. “Allora non ascolti quando parlo!” rispose, avvicinandosi col cerchio della gonna sollevato per muoversi più velocemente. “Ascolto. Solo che fanno cose troppo stupide e normali per essere i pervertiti che dicono le tue dame” le aveva detto, con una strana tranquillità. “Sì… le cose che vedi tu!” l’aveva incalzato stupita e nervosa. Poi erano rimasti in silenzio mentre il fuoco scoppiettava e si rifletteva sul metallo delle armi appese ai muri. Così si sentiva lo scrosciare del temporale contro le persiane chiuse.
Il generale aveva lasciato andare una boccata di fumo che si era spappolata di fronte alla sua bocca e per un attimo madame non lo aveva visto. “E che cosa potrei farci…?” le aveva detto, reclinando il capo sul pugno.
Madame Louise era rimasta immobile. Aveva mosso nervosamente il capo. Aveva tirato di nuovo su la gonna ed era uscita dalla stanza, congedandosi con un gelido “Buona notte”.
Prese in mano l’anello e lo posò nel palmo della mano. L’argento sbalzato era ormai annerito dagli anni, anche se non lo aveva mai indossato.Le era sempre costato. Lo infilò al dito e guardò la mano. Poi lo tolse, lo chiuse nel pugno, nervosamente, e pensò che invidiava sua figlia. O suo figlio. La invidiava in un modo irriferibile. Era un sentimento che interferiva con il debole ricordo di esserne la madre in seguito a un parto e a pochi anni trascorsi insieme; interferiva con la sua voglia di sapere chi realmente fosse diventata quella bambina vestita da maschio. Un sentimento poco nobile che diventava più bruciante se pensava che, magari, quei due si amavano davvero. Ed era molto probabile: erano sempre stati inseparabili. E il non poter mettere quell’anello di poco valore per gli altri e così significativo per lei le sembrava insopportabile, se pensava che non si cercavano per sperimentare orgasmi.
Detestava le donne che a Versailles facevano quelle insinuazioni, ma non sopportava André che sorrideva ad Oscar e lei che lo ricambiava timidamente.
Qual era il suo posto allora?
Ripose l’anello nel cofanetto ed esitò un attimo prima di chiudere il coperchio. La coscienza insinuava che, ancora, qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo.
pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2004
1) Una frase che dice Kurz in Full Metal Panic… ovviamente con tutt’altro tono.
Continua...
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