Unsafe

Parte IV

Senza

 

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Sentiva la penombra aleggiare sul capo, precariamente retta dalla luce dei candelabri. Rovistò, svogliata, con la forchetta nel piatto, senza riuscire ad ingoiare quello che aveva in bocca. Ogni movimento aveva un’eco in quella sala, anche un sospiro. Continuò a giocare con la forchetta mentre il pensiero valutava le poche informazioni in più che aveva. Era un uomo malato di sifilide. Era un nobile. Ma quanti nobili non l’avevano? Infilzò distratta una foglia di insalata. Un’altra gemma… cosa vuol dire? Guardò il fondo della stanza, l’altro capo del tavolo vuoto e sentì di stare buttando via la vita esaminando le parole di un pazzo. Tutto perché quella storia, quegli eventi assurdi con cui aveva scelto di scontrarsi, le si erano radicati dentro come gramigna.

No. Non era quello. Quello era il suo lavoro, ma c’erano altre cose che all’improvviso la facevano sentire inutile.

 

Erano rientrati a palazzo nel pomeriggio. Già la luce era troppo tenue e volgeva al buio e la neve era compatta sul viale posteriore, quello che portava al salone, come una lastra di ghiaccio. Non avevano parlato molto durante il tragitto, con gli occhi lacrimanti per vento e le mani rigide per il freddo. Avevano tutti e due una gran fretta di riscaldarsi. All’improvviso aveva sentito i piedi slittare sul suolo scivoloso ed istintivamente si era aggrappata al mantello di André, trascinandolo a terra. Avevano urlato tutti e due in modo buffo. C’era solo da ridere, dopo giorni di costrizione e cordoglio, ed erano scoppiati a ridere. Si erano lanciate manciate di neve che non rendevano onore alla memoria delle battaglie fanciullesche, ma si era sentito nel cuore quel senso di liberazione che le regalavano i momenti con lui.  Si era impegnata nella zuffa, a spingerlo per terra, mentre rideva e la teneva bloccata, poi erano caduti di nuovo e avevano smesso di ridere all’unisono: Nanny e il generale, sulla soglia, li guardavano con la compassione che si riserva a due adulti stupidi. Era stato bello in fondo leggere nello sguardo del padre fino a che punto si stesse ricredendo sulla natura del suo rapporto con André. Lasciavano l’impressione di essere tanto infantili da non poter essere gli amanti perversi di cui si favoleggiava. Ma qualcosa all’improvviso le aveva fatto male, proprio quando non se l’aspettava.

Aveva scorto alle loro spalle sua madre. Il viso minuto e delicato di sua madre che faceva capolino in un elegante collo di pelliccia. Non la vedeva da mesi, ne aveva perso il conto, e non le sembrò reale che fosse lì, sulla soglia. Si era sentita felice un attimo in più, fino a quando Nanny non aveva rotto il silenzio dicendo: “Oh… ma che guaio… tiratevi su, qualcuno dovrà buttare del sale qui sul viale! Come farà madame a passare? È già in ritardo per aver aspettato che finisse di nevicare…”.

“Madre… partite già?” le aveva chiesto tirandosi su, temendo la risposta.

“Sì… è già tardi, ho potuto assentarmi da Versailles per un paio di giorni, ma ora sono attesa da Sua Maestà…”.

Si era sentita delusa proprio quando aveva creduto che avrebbe avuto qualche istante da dedicarle. Madame doveva aver colto quella sfumatura nel suo sguardo e, mentre uno dei servitori lanciava  manciate di sale sul ghiaccio e il generale, noncurante, riempiva la pipa, con aria colpevole le aveva sussurrato “Oscar… Mi dispiace”. Lei non aveva replicato e l’aveva lasciata andare. Senza esitare aveva pensato “No. Non le dispiace”.

 

Infilzò un’altra foglia d’insalata senza vederla e mandò giù il boccone mentre passi si avvicinavano alle sue spalle.

André si fermò, appoggiando tutto il peso del corpo sulla spalliera della sedia più vicina.

“Ah… eccoti…” mormorò ironica, mangiando un altro boccone che non le andava. Troppo voluminoso anche questo, come tutte le schifezze che, ultimamente, si sentiva costretta a ingoiare.

“Ero nelle scuderia, lo sapevi. Ho cambiato le staffe a un paio di cavalli, compreso il tuo”.

“Perché non mangi con me?” gli chiese, innervosita.

“Perché me lo chiedi? Quando ci sono i tuoi parenti non siedo mai al tuo tavolo” rispose semplicemente.

“C’è solo mio padre… Che stupidaggine…” mormorò. Si ricompose senza riuscire a ingoiare quel che aveva in bocca.

André le accennò un sorriso. “Dai… lo so…” le rispose lasciando intendere che comprendeva cosa la tormentasse. Ci fu un breve silenzio. “Mi sono venute in mente un paio di cose da valutare su quei pezzi di carta. Possiamo vederle dopo, se non sei così stanca da voler andare subito a dormire”. Le disse, abbandonando lo schienale della sedia.

“Come vuoi” fu la risposta evasiva.

“Perché non vai a trovarla tu a Versailles?” le chiese a bruciapelo. Alludeva alla madre.

“Dopo quello che ho visto fuori… con quale faccia rimetto piede là dentro?” gli chiese sorseggiando dell’acqua, giusto per fare qualcosa.

André ci aveva pensato mille volte. Dalle licenziosità del postribolo mascherato da reggia, dai pettegolezzi e dai sotterfugi alla realtà che spezza le vite dei poveri e dei dimenticati: la loro vita era cambiata. Ma ciò che sentiva ancora più chiaro e forte era che erano cambiati i tempi. Ed anche loro stavano cambiando irrimediabilmente, pur rimanendo uguali.

“E poi cosa cambierebbe…” aggiunse lei, mentre la osservava invece di stringerla.

Abbassò lo sguardo fingendo di cedere alla perentorietà di quelle parole.

“Anche se stasera non ti interessano quei pezzi di carta io ti aspetto” le disse lasciando scorrere, mentre se ne andava, la mano sul tavolo fino a toccarle furtivamente il braccio. Si udiva la servitù in movimento nella stanza accanto.

“Non mi va proprio di dormire…” rispose Oscar prima che lui raggiungesse la soglia della porta.

“Vuoi… che prenda qualcosa da bere?” le chiese uscendo.

“Sì, prendi anche qualcosa da bere. Del cognac.” gli ripose mettendo da parte il piatto, vuoto nonostante la mancanza di appetito.

 

Si svegliò che albeggiava. Avevano dimenticato le tende aperte e la luce le invadeva gli occhi, sotto le palpebre serrate, ma era stanca e non si mosse neanche un po’. Ancora troppo addormentata, si concesse del tempo per pensare e ricordare. André ora respirava regolarmente accanto a lei.

Si chiese quando avrebbe smesso di accorgersi che arrossiva anche al solo ricordo, ma non rimpianse di aver bevuto sufficiente cognac da non frenarsi e quanto bastava per non ubriacarsi. Sapeva molte cose André. E a volte ne parlava.

Sapeva dei volti delle ragazze morte con la pelle grigia e trasparente, sapeva del disgusto e la pietà per Danielle, degli incubi in cui aveva visto la smorfia secca sul viso del ragazzo morto avvelenato; della strana voglia di stanare quella dannata preda, che a volte le faceva perdere la pazienza, costruire e disfare castelli di ipotesi; sapeva di sua madre, minuta e lontana, col capo biondo, sempre più chiaro, soffocato nel collo di pelliccia più alla moda; del timore che stava iniziando a covare per il buio e suoi fantasmi; e dell’attrazione irresistibile per il buio e i suoi fantasmi, che la incendiava appena la sfiorava e le dava pace.

Le passarono davanti agli occhi immagini e sensazioni troppo vive. La causa di quelle piacevole stanchezza. Si chiese se non fosse stato sempre quello che avevano cercato in tutti i loro scontri, nelle stoccate, gli slanci e le guardie tenute ben alte. Un tempo, triste e nervosa, gli avrebbe chiesto di prendere la spada. Perché con la spada lo avrebbe strapazzato per bene.

Stringendo le palpebre e ascoltando il flusso del sangue, si accorse che si era allontanato in punta di piedi dal letto.

Si sollevò a sedere, coprendosi istintivamente col lenzuolo. Avrebbe voluto chiamarlo, ma per un attimo non ce la fece. Nemmeno a dire il nome. Per quello che vide.

Un dito a percorrere la scia bianca di una vecchia cicatrice, sempre ben nascosta. Una mano a coprire la traccia irritata di un nuovo taglio, netto sullo zigomo. Un’operazione metodica, compiuta, senza speranza, allo specchio nella luce dell’alba. Forse per controllare una volta in più che non fosse stato un incubo. O per accertarsi che l’immagine che non combacia appartiene, nonostante tutto, all’essere.

“André…” chiamò. Temette di interrompere la ricerca dell’errore. Allo stesso tempo, sentì il bisogno di interromperlo. Forse un bisogno egoista. Di non vederlo così.

Si voltò. Lasciò  ricadere la ciocca sull’occhio. Dov’era sempre. “Ci sono cose… a cui non puoi non pensare… a volte, Oscar” le avrebbe voluto dire. Ma pensò che fosse giusto non dirlo, perché non ce n’era bisogno.

 

“Lo so che farei meglio a stare qui con te” le disse, scostando le lenzuola e stendendosi su di lei con movimenti lenti per abbracciarla.

Per aspettare di sentirsi più forti.

Era accaduto alcune notti prima.

Avevano finito di sedare un tafferuglio notturno fra ubriachi. Sfinita, delusa, si era allontanata dai suoi uomini ed aveva condotto il cavallo per il morso qualche passo più in là con l’intenzione di montare in sella. Dalle concerie vicine e dalle fogne arrivavano folate di vento maleodorante. Aveva pensato che non ne poteva veramente più. Le voci impastate e rabbiose della rissa si spegnevano. Cominciava a udirsi di nuovo lo scorrere della Senna.

“Vi ricordate di me o mi avete dimenticato?” aveva detto una voce maschile, distraendola dal disgusto che covando.

“Come state?” aveva risposto riconoscendo il volto fra i lembi del bavero e il cappello calcato sulla fronte.

“Come posso” fu la risposta. “E voi? Come state?”

“Bene…” rispose lei, ma avrebbe voluto aggiungere qualcosa altro.

“Il vostro André sta bene?” chiese ancora l’uomo, sollevando il capo e lasciando intravedere il viso pallido fra ciocche chiare.

“Sì… certo. Sta bene” rispose per cortesia, rendendosi di nuovo conto che, in parte, mentiva. “Grazie ancora” aggiunse, ricordando, mentre l’uomo annuiva e rispondeva “Non dovete ringraziarmi. Sono contento”.

“Cosa ci fate qui nel cuore della notte?” chiese stupita, mentre lui risaliva in groppa al cavallo.

“Sto come posso. Non la vedrò nemmeno stanotte, non è possibile. Non dovete stupirvene…”.

“Mi dispiace…” le scappò di dire. “Mi dispiace Fersen” disse sinceramente.

“Si è giunti da tempo alle bassezze più infime, alle delazioni più assurde… non posso permettere che lei soffra. La infangano con lettere anonime e io non posso sopportare che sia per me… cerco un modo… per vivere o morire… lo cerco anche stanotte…”

Oscar non rispose. Provava una senso di vuoto. Gli amori e le passioni altrui sono il giocattolo preferito di chi spreca il suo tempo.

“Capisco…” riuscì a dire, chinando il capo.

“Lo so che capite Oscar… Ora stanno tirando dentro le loro storie da salotto anche voi…”.

“Lo hanno sempre fatto ed anche questa volta non mi importa… perché in parte è vero, ma loro non possono capire di cosa si tratti in realtà”.

“È vero. Cosa possono capire…? È tutto sporco per loro, perché hanno bisogno dello sporco”.

“Hanno orecchie e bocche luride”. “Luride” ripeté soprappensiero, rivedendo, nella luce d’oro dei candelabri, volti e situazioni.

“Sentivo che sarebbe successo… e quella notte ne ho avuto la certezza. Siete amanti?” chiese Fersen, sentendo di poterle parlare col cuore in mano.

“Amanti…?” chiese Oscar. Il suono assurdo di quella parola la riscosse. Sapeva di proibito e di sotterfugio. Di espediente. Di prestato. Di squallido.

“No… amanti no…” disse perdendosi nelle parole. Fersen la guardò interrogativo, temendo di aver frainteso tutto. Di essersi spinto oltre e di averla offesa.

Lei temporeggiò un po’, con lo sguardo che chiedeva aiuto vagando nel buio, come se cercasse al suo fianco un appiglio senza trovarlo. C’erano solo voci d’uomini, lontane, e lo scivolare sommesso dell’acqua sul letto del fiume.

“Innamorati…” disse in un soffio, con la voce che si spegneva nell’emozione di sentire il suono di quella parola. “Innamorati” aveva ripetuto, sentendo che non faceva male. Non dava dolore dire quella parola.

Ora ci ripensava, mentre osservava i tratti del viso di André che nel sonno si erano distesi. Le cicatrici non le vedeva. Le sembrava quasi al sicuro lì al suo fianco, mentre il sole fuori dalle finestre era più alto.

 

ЖЖЖ

 

C’è qualcosa che non va nell’aria e nel tempo. In tutto quello che succede c’è qualcosa di irrimediabilmente errato; delle sbavature, anche minuscole che, da quando è iniziato tutto questo, pungono e mi fanno male, come mai ne hanno fatto. Questa camera mi è estranea ed è fredda. Sa di non vissuto perché mai nessuno ci vive. Un giorno una cameriera accorre frettolosa per prelevare un oggetto e un altro giorno un altro oggetto ancora. Un giorno una collana, l’altro un soprammobile dorato e contorto… e il giorno successivo ancora. Così negli anni mia madre ha svuotato di sé questa stanza e questa casa. Ha inesorabilmente fatto in modo che mi abituassi al suo non esistere in vita, finché non ho creduto che fosse così.

Forse rimettere in moto il cuore espone a sofferenze contro cui ci si credeva corazzati. Se reagire all’orrore mi ha spinto alla vita e all’amore… (qui sospese in aria, mentre scriveva, la penna).

… l’amore mi ha spinto a volerne di più ancora, e per forza, da chi me ne doveva ed ha svuotato di sé la mia vita…

Sollevò lo sguardo dal foglio e guardò di nuovo la stanza fredda intorno. Muri e oggetti senza alcuna traccia umana. Si sentì stupida e fuori posto lì dentro. Come se non bastasse già tutto il resto: lo pensò fra sé e sé, piegando in due il foglio e riponendolo in tasca. Non le andava comunque di strapparlo. Si avviò alla porta e prima di oltrepassarla, mentre la lasciava ruotare sui cardini, sentì un brivido gelato lungo la schiena.

“Ricordati che fra quelle donne, quelle donne di corte che vivono di lusso e chiacchiere, da anni c’è tua madre” le disse una voce che tentò subito di soffocare dentro.

 

Provò di nuovo. Chissà perché le parole, sconnesse e senza senso che fossero, si componevano in fretta sul foglio. Come se fosse improvvisamente convinto che sarebbe riuscito a darvi un significato.

“Anche questa volta non significa nulla… non si può nemmeno pronunciare una parola così” commentò lei, sconsolata, leggendo la sequenza di lettere sul foglio.

Guardò le parole. Storse il naso e prese un altro foglio, intinse di nuovo la penna nel calamaio e la posò ancora sul foglio.

“André… spiegami cosa stai facendo almeno…” chiese lei, stupita da quella fretta.

“Sì, scusami…” rispose, sfiorandosi imbarazzato la fronte con la penna. “Ti ho detto che mi erano venuti in mente i tempi del precettore…”.

Oscar si rabbuiò.

“Mi sono ricordato che aveva una passione per Giulio Cesare… e una volta ci disse che cifrava i messaggi militari scrivendo per ogni lettera quella che nell’alfabeto veniva tre lettere dopo… o più meno il meccanismo era questo. Forse non ricordo il numero preciso. Comunque invece di scrivere una “A “ scriveva una “D”. E così via…”.

“Quindi chi traduceva era costretto a trascrivere tutto spostando ogni lettera di ogni parola. Hai fatto questo ora?” chiese lei, prendendo il foglio che aveva messo da parte.

“Già… ma non vuol dire un accidente” le rispose scotendo il capo, fingendo un’aria affranta. “Proviamo a spostare le lettere delle parole, avanti o indietro di un certo numero di posti… potrebbe valere come idea di base”.

Oscar intinse la sua penna nel calamaio. “Va bene. Non è male come idea… È un tentativo e non mi sembra che abbiamo molte alternative da provare”. Si accinse a scrivere. “Vado avanti di quattro” tracciando lettere nere sul foglio. “Io indietro di due” disse André facendo la stessa cosa. Era come isolare una goccia nel mare di combinazioni possibili.

Dopo poco, saltando avanti e indietro di varie lettere, il flebile entusiasmo si tramutò in sbadigli: ogni parola che scrivevano non aveva il minimo senso compiuto. André cominciava a intravedere il lato comico della situazione. Si stiracchiò senza ritegno spingendo indietro la sedia. Di due giornate di licenza, una notte se ne andava ancora via così: a fare i topi di biblioteca con la pendola che brontolava ogni mezz’ora.

Batteva, impietosa come sempre, i suoi colpi notturni. Batté l’una in punto.

“Prova avanti di una” disse tanto per contraccambiare lo sguardo di Oscar, un misto fra sconsolatezza e rimprovero. Posò il capo sulle braccia conserte. Seguiva con lo sguardo la mano di lei che velocemente tracciava lettere.

“André!” disse lei un attimo dopo, sollevando la penna. “Guarda qui!” e gli spinse sotto gli occhi il pezzo di carta.

C’era scritta una parola di senso compiuto. “Disseppellirò”.

Si guardarono negli occhi increduli, a bocca aperta. “Dai… vado avanti!” fece lei entusiasta e si precipitò a sottoporre allo stesso trattamento le altre parole sui brandelli di carta.

… disseppellirò all’alba…… bevete…  stessa sorte a vostra sorella… sarà inevitabile…

Ancora non ci credevano. Sembrò che si aprisse una porta, ma in realtà si resero conto che quelle parole non dicevano molto.

“Secondo me la chiave di tutto è bevete” gli disse ricordandosi della fialetta col liquido velenoso.

“Sì, ne sono convinto” annuì lui, riguardando le frasi, tentando, senza riuscirvi, di far combaciare i pezzi di carta.

“Era veleno” si era ripetuta. “A quale grado di disperazione si deve essere arrivati per ingerirlo così… a comando? Bisogna aver deciso morire… e quell’uomo mi dava quest’impressione, ma non  lo credevo veramente capace”.

Lui aveva scosso il capo e l’aveva corretta “Chissà… forse invece lo ha fatto per vivere”.

“Già…” disse lei, dopo un’iniziale perplessità. “Il punto è che quello è un veleno mortale. Ma ci sono alcuni veleni che concedono la morte per poche ore, vero?… Magari proprio fino all’alba” gli disse, tendendogli la briciola di carta con le parole “disseppellirò all’alba”. Si erano guardati, come se lo sguardo avesse forza, e le labbra si erano tese in un sorriso di soddisfazione.

“Una trappola… un invito a bere un veleno che con quel sotterfugio lo facesse uscire di prigione, ma in realtà gli avrebbe dato la morte”.

“Lo hanno ucciso perché sapeva qualcosa di troppo. Se n’è accorto ed ha cercato vomitarlo, ma ormai era il veleno aveva iniziato a fare effetto, così è rimasto fra la vita e la morte… e alla fine l’ha avuta vinta chi lo voleva morto” concluse André, tirando le fila del discorso. “Lo sai che potrebbero essere pure congetture, no?” le chiese mentre, a braccia conserte, la osservava animarsi.

Glielo chiese perché non si accorgesse di cosa stava pensando. Che era così bella che a volte aveva il timore che fissandola si sarebbe gli si sarebbero consumati il cuore e gli occhi. Ma non poteva farne a meno, perché per anni si era nutrito di quello, e perché i suoi occhi si spegnevano da soli. L’avrebbe portata a letto e le avrebbe chiesto di accendere tutte le candele.

“Lo so. Abbiamo le nostre congetture e… queste parole” rispose lei impugnando i fogli di carta. In fondo agli occhi il luccichio della sfida si era risvegliato.

“Dopotutto, chiunque sia stato, non è un gran furbo… avanti di una lettera…” disse scherzando e stringendole la mano.

“Già… proprio l’opzione che stavamo tralasciando” ironizzò lei.

 

ЖЖЖ

 

Di nuovo notte cupa. Ma più nulla era successo. La dannata preda riposava o se l’era presa il buio. Sperò che si fossero spalancate le porte dell’inferno e se lo fossero ingoiato. Lo sperò con quanta forza aveva, mentre scivolava sotto le coperte umide e la branda scricchiolava sotto il suo peso. Ogni notte ripercorreva quella storia; ogni particolare.

Altra notte in caserma e lei che se ne tornava da sola a casa. Avrebbe preferito stare a pietrificarsi per il freddo nei vicoli per mettere le mani alla gola di quel bastardo. Ma erano due settimane che non accadeva nulla: temeva la calma che precedeva il delirio. Il delirio? Questo si chiedeva e si voltò ancora una volta, rumorosamente, nella branda.

“Grandier… la pianti?” disse una voce assonnata nella penombra. Guardò verso la finestra senza scuri, spalancata sulla luna, ma non vide nulla. Solo buio pesto. Si chiese se Oscar fosse già arrivata a casa. Se lo chiedeva sempre. E lo prendeva una specie di smania.

Che la sifilide ti porti! Pensò senza nessun freno, passandosi le mani sul viso. Sicuro, senza sapere perché, che ci fosse un legame fra quella storia e la sua cicatrice.

 

Di nuovo… Di nuovo! Lo sapeva sarebbe successo di nuovo!

Faceva un freddo atroce, così atroce che non sarebbe caduto neanche un fiocco di neve e la notte sarebbe rimasta infinitamente nera e sporca di sangue.

“Toglietevi di mezzo idioti… devo passare!” urlò, sentendosi spellare la gola da ogni parola, mentre il fumo nero e denso delle torce nel vento le sferzava il viso e le toglieva il respiro. Faceva così freddo, ma si sentiva accaldata. Sentiva di vedere doppio e ovattato. Il vento gelido bruciava nelle orecchie. Gli uomini si scostavano pigri dal tragitto. Quelli che non si muovevano li spintonò lontano senza pietà.

Ancora… ancora… Quando fu arrivata fu come se si riaprisse il vecchio sipario che aveva sperato chiuso.

“Ha sbagliato il taglio… Non è morta…” disse il medico accucciato vicino a un corpo di cui scorgeva i capelli e una mano abbandonata nel fango. Un maledetto color porpora dappertutto: impastato nei capelli, nel fango sulla mano, sulla giacca del medico.

“E se non è morta sta agonizzando!” urlò come una furia. Vide i suoi stessi uomini indietreggiare di un passo, anche Alain. Tutto era sfocato e le faceva rabbia. Si accorse che André le stava accanto, il fucile in spalla.

“Portatela via! Portatela via! Presto! E fate qualcosa per lei…” disse con un tono di voce che sembrava uscire da una caverna. “Fate qualcosa per lei!” urlò ancora come una furia. I suoi uomini aiutavano il medico a spostare il corpo esanime e la mano penzolava bianca e morbida.

André aveva tremato a quella voce di lei: aveva tremato con lei.

Era tutto un turbine che gli stava facendo perdere il controllo. Una sequenza di eventi cui non erano stati destinati loro che avevano vissuto per anni in un mondo privilegiato. Forse era quello cui sarebbe stato destinato lui pensò. Non lei.

Sotto la città scorreva un fiume di rabbia più impetuoso della Senna. Lo leggeva sui volti deformati dal buio e dalla luce delle fiaccole: un mondo diverso, in cui le immagini prendevano forma e definizione solo nei contorni che tracciava l’oscurità. Come facevano a stare lì semivestiti, il torace e le gambe nude, nel freddo della notte? Le madri coi bambini attaccati al seno di fronte a tutto quel sangue e agli schiamazzi? Come facevano a dire “gli è successo a un’altra” e a guardarsi rassegnati?

Vedeva poco fra le fiaccole. Vedeva a tratti: solo dove il vento portava la luce. Vide il viso di Oscar sporco di fuliggine e sudato; la mano che nervosa si stringeva in un pugno che tremava.

Quante volte l’aveva presa in giro per quel gesto quasi infantile, segnale che la pazienza cedeva…

Amore mio stai perdendo la testa le avrebbe voluto dire e abbracciarla, ma non poteva: i suoi compagni le chiedevano disposizioni e lei si sforzava di organizzare i pensieri. Eppure rispondeva autoritaria. Il popolo intorno sfollava deluso, soddisfatta la sete di curiosità.

Si chiese se non facesse l’amore con lui per istinto di sopravvivenza, per un comando della natura, perché, quando si teme troppo, uomini e donne vanno gli uni verso gli altri, per fuggire a quel che li minaccia; a quello che non le doveva essere destinato; però non si volle dare una risposta. Se anche fosse stato, lei gli aveva sempre voluto bene e non si può costringere ad amare.

Si era perso nei pensieri e se la trovò all’improvviso di fronte. Si mordeva un labbro.

“La malattia se lo sta mangiando, sarà arrivato al punto in cui tremano le mani e la forza è sempre meno: non è più abile come prima. Ora riesce solo a sbagliare. È la seconda volta che sbaglia” le disse lucido. Le lasciò intendere “Non posso parlarti d’altro”.

“Già… dovrebbe essere un indizio in più, vero?” disse lei, continuando a mordersi il labbro.

Le torce si disperavano nel vento gelido.

 

“Fammi vedere cos’hai lì… cos’hai sul viso!” disse con voce concitata, stringendo il polso della sorella che si copriva il viso e si voltava perché non la vedesse. Ruotarono su se stesse ed alla fine la strattonò. La trascinò alla luce di una finestra.

“Stupido lasciami!” gridò lei in lacrime. “Lasciami, a te non interessa! Non puoi capire! Tu non puoi capire!” le gridò, scoppiando all’improvviso in lacrime.

Oscar si bloccò. Le lasciò andare il polso. Le parlava al maschile, come faceva suo padre, e la guardava con gli occhi sbarrati. Ora vedeva il livido sulla parte destra del viso: era recente, stava diventando viola.

“Chi è stato?” le chiese calma.

“È stato mio marito! Chi doveva essere!” le gridò in viso, piegandosi perché il busto non la faceva respirare. Raccolse le trine, i cerchi della gonna con le mani e fuggì a piccoli passi scoordinati, lasciandola a bocca aperta nella luce fredda di una finestra. Una finestra di vetro fra le lei e un cielo di ghiaccio. La vide sparire nel corridoio.

“Che disastro… la mia piccola… cosa doveva fare, la mia piccola?” sentì dire Nanny in un angolo della stanza. “Che poteva fare? È tornata a casa… scoppierà uno scandalo, ne parleranno fino a inventarsi tutto… ma che doveva fare…” continuò a dire con voce di pianto.

 

Si era lasciata cadere a corpo morto sul letto, il viso affondato nel cuscino e si era fatta quasi male al naso. Aveva sprecato tutte le sue forze a indignarsi, a infuriarsi e a soffrire: era come se quelle raffiche di sentimenti l’avessero svuotata e resa debole come una bambola di stoffa. Una bambola di stoffa stesa sul letto nella luce del pomeriggio che si spegneva. Il ricordo della notte le tendeva i nervi come corde di violino, ma non poteva scacciarlo.

Altro sangue. Sangue ancora. Le macchie di sangue dopo un po’ diventano indelebili: anche dai pensieri.

“Mia sorella pensa a me come a un uomo” fu il pensiero meno duro che le venne in mente, ma non il meno triste, accompagnato da quel viso in lacrime e contuso. Si addormentò.

Prima passi sul pavimento, poi attutiti dal tappeto, la riportarono alla conoscenza. Era ancora intontita ed aveva il capo pesante per il sonno inatteso. I passi si fecero leggeri e vicini e qualcuno le posò una coperta sulle spalle.

Si sentì felice, come se il sangue tornasse al cuore. “André…” mormorò, mentre un peso piegava il materasso dalla parte verso cui era girata.

“Allora è tutto vero!” disse, stonata, nel buio, una voce di donna.

Si alzò di scatto come se fosse stata ferita da qualcosa di tremendamente sbagliato che la prendeva alla sprovvista. Scrutò la sagoma che pesava sul suo materasso, esitando a darle un nome. Gli occhi tornavano a distinguere i tratti nell’ombra. Prima pensò che fosse sua sorella, ma sapeva chi era.

“Allora è vero che è libero di infilarsi nel tuo letto” disse la voce di sua madre.

“Cosa…?” fu tutto quello che, stordita e incredula, riuscì a dire, senza capire nemmeno lei cosa intendesse chiedere. Ferma, supina sui gomiti.

“È l’unico che si preoccupa se sto male” fu l’unica cosa che riuscì a replicare. Non le andava di fare quel discorso con sua madre. In realtà non sapeva quasi più cosa dirle. Da anni. Madame la osservava con le mani magre in grembo, sprofondate in un tessuto lucido e leggero. Damasco evanescente. Capelli tirati indietro e lunghi orecchini. Non le rispose nulla.

“Quando siete arrivata?” le chiese per spezzare un silenzio che diventava imbarazzante.

“Un’ora fa. Sono venuta qui per parlare con tua sorella e farla ragionare”.

“Farla ragionare…” chiese, temendo di capire cosa significava.

“È immorale che una moglie e una madre abbandonino in quel modo il proprio tetto. Dovrà tornare”.

Le venne immediatamente in mente quello che avrebbe voluto rispondere; ma era troppo facile rispondere, eppure temeva che sua madre non avrebbe capito.

“Immorale… non è immorale che una bestia picchi una donna e sia giustificata solo perché è suo marito? Dite piuttosto che vi preoccupano gli ultimi pettegolezzi di Versailles… questi figli che vi imbarazzano e vi espongono alla vuotezza delle chiacchiere…”.

“Oscar… con te non si è mai potuto parlare” tagliò corto madame. Si stava innervosendo.

“Lasciatela vivere…” aggiunse Oscar, passandosi una mano sul volto e reprimendo una sensazione di freddo e solitudine che le percorse la pelle. Madame ora le volgeva le spalle in silenzio.

“Dobbiamo sopravvivere. Per chi è nella nostra posizione cose che per te sono insulse contano. Contano anche le apparenze, perché le apparenze arrivano agli occhi e alle orecchie prima della sostanza che i tuoi libri rivoluzionari esaltano” disse perentoria alludendo a “La nuova Eloisa” che giaceva sul comodino. “Salverà le apparenze, poi potrà fare quello che vuole”. Nel parlare fingeva di guardare oltre i vetri. Ormai il paesaggio era indistinguibile. Era per non guardarla negli occhi. Oscar lo capì.

“Non posso condividere quello che dite…” mormorò sottovoce.

“Le apparenze non contano per chi non si fa scrupolo di negare che al proprio attendente è permesso infilarsi nel proprio letto. Come se il mondo non intuisse che vuol dire che gli è permesso infilasi fra le tue gambe! Non tutte noi possiamo vantare, come trofeo delle nostre contese, l’occhio di un uomo innamorato. Anche alle apparenze è riprovevole l’uso che fai del corpo di quell’uomo. Per essere una donna… credi di poter giudicare gli uomini?”.

Pronunciò quelle parole taglienti guardandola impercettibilmente, senza voltarsi completamente.

Quando Oscar si rese conto di piangere era già scomparsa da quella camera.

 

Abbandonò la sua camera e si nascose in quella di André.

Non voleva che la trovasse mai più quella donna. Mai avrebbe creduto poche parole potessero causare un dolore simile. Si chiese chi fosse più crudele: lei o sua madre.

Non chiuse a chiave: sperava che lui tornasse a casa quella notte. Ma sapeva bene che non sarebbe tornato: non aveva chiesto nessun permesso; lei non aveva firmato nessun permesso. Avrebbe dormito nella branda, nelle camerate. Ma non chiuse la porta a chiave perché aveva troppo bisogno di lui. Era come lasciare uno spiraglio alla speranza.

Se lo chiese ancora: “Chi è più crudele?”. Se lo chiese senza sosta. Era proprio lei la più crudele, anche se non riusciva a smettere di piangere.

Avrebbe avuto senso correre fuori nella notte per andarlo a cercare e dirgli “Torna a casa, ho bisogno te”? Sarebbe stato terribilmente egoista. “È colpa mia, perdonami” gli avrebbe dovuto dire tanto tempo prima, quando la prima cicatrice lo aveva segnato. Ed ora si permetteva di dire che aveva bisogno di lui, che se lo voleva sentire dentro, perché da quando l’aveva presa il desiderio non era come nell’immaginazione, era violento e insostenibile, e saperlo lontano le causava quasi dolore. Tentò di non perdere il controllo, il mattino successivo lo avrebbe visto in caserma. Almeno avrebbero parlato, anche se era troppo che non stavano vicini. Ma sulle lenzuola immaginò di essere con lui, tentò di ricordarlo, tentò di illudersi che le proprie mani fossero le sue. E non ne ebbe vergogna perché ne aveva troppo bisogno e gridò il suo nome mentre fremeva sudata e i movimenti del bacino avevano perso ogni controllo, fino alla fine. Ripeté il suo nome gemendo fino alla fine, perché tornasse. Perché quella donna mentiva.

A volte aveva creduto che col socchiudersi delle palpebre se la sarebbe portata via per sempre. Sarebbe rimasta intrappolata in quello sguardo e non avrebbe chiesto altro. La voce di lui che sfuggiva sempre più al controllo. Era un grido di piacere o dolore? Ora le sembrò che quel grido sciogliesse la stessa disperazione di quella notte nella foresta. La notte del cavaliere nero. Forse ora le sue orecchie l’avevano riconosciuto.

Ti prego… ti prego… pensò, inarcandosi fra i sussulti, e la invase una pace che non le bastava.

La mattina il sole tornò ad illuminare la camera e si trovò sola. Quella speranza disperata non lo aveva portato da lei. Lo sapeva bene di non aver firmato nessun permesso.

Si sentì nuda. Si tirò il lenzuolo sulle gambe.

Era una stupida.

 

Fa male bere. Se lo ripeteva, ma tutte le volte si sentiva solo e beveva. Aveva bevuto dopo la fine della guardia, ma avrebbe giurato che non fosse tanto. Eppure ora nel bel mezzo della notte gli dava la nausea e gli faceva girare la testa anche da steso. Si era svegliato rannicchiato in quella stanza lugubre. Il vino gli aveva fatto vedere immagini che lo logoravano lontano da lei, in quella branda. Sopportare senza conoscere è più facile. Aveva immaginato anche che lo chiamasse con un tono di voce… con un tono di voce… Guardò le altre brande nel buio. Meglio non pensarci a meno di non arrivare fare qualcosa di stupido. Bloccò la mano sulla coltre. Si mise a sedere con la schiena contro il muro freddo perché lo svegliasse. Per calmarsi. Sembrava che anche il buio gli ruotasse attorno e tentò di respirare. Ebbe paura: non capiva se era malessere o eccitazione. Rasentava il dolore.

Continua...

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