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Parte II

Intervallo al veleno

 

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“E allora lo avete portato via…”.

“Sì padre. Non sappiamo se sia stato lui. La folla lo avrebbe massacrato. Ci sono delle cose di cui dovremmo accertarci… Io ho solo visto che c’era una donna morta… lì dentro” disse, rivedendosi di fronte l’immagine che ormai le era dolorosamente familiare.

“De Germaine è furioso per il fatto che tu non gli abbia lasciato punire quell’uomo. Dice in giro che copri i servi e i poco di buono…”.

“Padre! De Germaine crede di lavare le sue mani lorde di vecchi crimini facendo giustizia sommaria, come se altro sangue versato potesse servire a questo, a far dire che è un uomo giusto, che ha agito per il bene dei cittadini… e voi questo lo sapete bene!” rispose irruente e temendo che il discorso prendesse una piega troppo privata.

“Lo so bene, ma mettertelo contro per la seconda volta sarebbe un grande errore. La prima volta sei stato fortunato, ma questa? Hai idea del potere di quell’uomo… No, non ce l’hai!”.

“Non fa differenza questo. Anzi, sapete cosa vi dico? Lui era là e che non si senta in alcun modo scagionato”.

“Ma era là molta altra gente! Nemmeno tu puoi accampare pretesti per punire un uomo per le sue vecchie colpe… Eri là anche tu Oscar…”.

“Padre, io ero là apposta. Sono andata là per scoprire cosa diavolo sta succedendo nelle notti di Parigi, per porre fine a tutto questo, perché è mio dovere…”.

“Lo so ma non mi riferisco a questo. Questo io lo so, non mi riferisco a questo… De Germaine dice che probabilmente in quel luogo… così… eri occupata a fare altro…”.

“Voi vi preoccupate dei pettegolezzi che sparge quell’uomo? Il mio nome è stato trascinato nel fango altre volte in passato e non me ne sono mai curata. Il mio comportamento ha sempre chiarito quanto non fosse vero. Io la strega che circuiva la regina con avances e prestazioni di chissà quale tipo… Io, la causa di un aborto di un futuro delfino di Francia… E tutto questo lo ero sempre all’occorrenza” si difese. Si sentiva crollare. Ma fu solo un attimo.

Il generale non le rispondeva.

“Io vi chiedo permesso di potermi allontanare”. Voleva pensare e non attese il consenso per voltare le spalle e dirigersi verso la porta.

“André era con te, vero?” le domandò. Lei non seppe cosa rispondere, perché non capiva se questo particolare li avrebbe salvati o distrutti agli occhi del padre. Prima che desse una risposta, il generale la precedette con una domanda: “È per questo Oscar, che hai rifiutato e ridicolizzato qualunque pretendente?”. Era una domanda addolorata e liberatoria. Se lo chiese anche lei, ma se l’era chiesto tante altre volte.

“Per tutto c’è un motivo” fu l’unica cosa che gli disse lasciando la stanza.

 

Si dice. Si mormora, ma la fonte è autorevole anche se non so chi è. Si dice che madamigella Oscar non sia così fredda e insensibile al fascino maschile come lasciava intendere, il che è veramente un brutto colpo per le damigelle che hanno covato vane speranze. Capite cosa intendo, anche voi avete sempre sognato di vedere cosa c’era sotto quell’uniforme… Pare che sia dedita a passatempi per nulla differenti da quelli di qualunque altra dama e nel modo più spudorato, a quanto pare, dal momento che è stata sorpresa mezza nuda con l’attendente in un postaccio della notte parigina; una specie di bordello, di affittacamere. Pensate che il proprietario, anni addietro, ospitava quel depravato di Giacomo Casanova! Ah… Giacomo, era così… capace! Lì la gente è dedita alla perdizione senza nemmeno salvare le apparenze. Pensate, c’era quel certo Saint Just, quel debosciato scrittore di libelli pornografici. Il conte di Mirabeau ed è tutto dire… Sì, l’attendente mezzo nudo anche lui, ve lo ricordate? Un bel ragazzo. Adesso fa un po’ spavento dicono: s’è fatto sfregiare per lei, anche se quella storia non è mai stata chiara a nessuno. Chissà che facevano… come vi capisco: io certe notti me li sognavo tutti e due, certo che lui, sfregio a parte, senza abito deve essere ancora un bel vedere, mi è sempre parso avesse un bel paio di spalle. È chiaro che c’è qualcosa da chissà quanto tempo, sono cresciuti insieme e chissà quali porcherie hanno fatto fin da piccoli, fin dalla tenera età… Come spiegarselo allora… sempre insieme, liberi tutto quel tempo, dopotutto erano sempre un uomo e una donna.  Lo avranno fatto nello sterco di cavallo! Vero duchessa!, potreste aver ragione, che gran spirito che avete, che beffarde fantasie verbali che usate per descrivere queste immoralità! Come si può prendere una donna come quella, che ti comanda a bacchetta con lo sguardo? Alcuni dicono che gliene faccia fare di tutti i colori, credetemi! Tutto remissivo e poi… al momento buono… altri dicono che lei sia un’assatanata… Sul fatto dite? Non ho capito se li hanno colti sul fatto… Addirittura nella sala di quel postaccio dite! Ma che cose! Si saranno fatti trasferire alla guardia metropolitana per trovare un ambiente più consono alle loro abitudini. Certo che peccato! Se fossero ancora qui sarebbe ancora più divertente, prima non c’era mai abbastanza materiale su di loro! Un vero peccato, non c’è più tanto gusto… Mia nonna – riposi in pace – lo diceva sempre che questo secolo ha scoperchiato tutte le porcherie del mondo, ma l’importante, secondo me, è godersele tutte con decoro!

Risate nasali fecero un coretto scoordinato ed occhi sottili e compiaciuti, dalle zampe di gallina incipriate, si rimirarono con piacere negli specchi di Versailles, mentre le intelligenze correvano a ad indovinare, sotto la giacca, i glutei del primo valletto di passaggio.

 

Era trascorsa una settimana da quella notte e più nessuno era morto a St. Antoine. I soliti delitti sì, ma più nessuno era morto per mano di quell’assassino abitudinario. L’uomo con la livrea rossa era lì in carcere, senza prove, per lui solo accuse; negava ma non raccontava nulla di quanto quella notte fosse successo. Sembrava che avesse perso la lingua e Oscar perdeva la pazienza quando se lo trovava di fronte, ostinatamente muto. Sicuramente così si sarebbe lasciato impiccare. Si manteneva al margine della cella in silenzio.

Perché in fondo il silenzio protegge, pensò, scusandolo, Oscar, mentre passava in rassegna i soldati. Lesse l’elenco dei loro nomi, ma guardò solo André mentre gli altri rispondevano all’appello; quando se ne rese conto era troppo tardi. Rimase stupita dal fatto che a un certo punto lui avesse abbassato lo sguardo. Un comportamento insolito da parte sua. Forse quando aveva fissato quel taglio che gli era rimasto sul labbro si era sentito nudo. Lei si sarebbe sentita così. Ma il silenzio protegge, è vero. Forse, mentre protegge una parte di te, ne distrugge un’altra vasta il doppio, pensò all’improvviso, quando le vennero in mente le ultime notti e se ne vergognò.

Era stata brava però a dissimulare e deviare i discorsi. No, non era stata granché brava… quasi non si erano parlati e non si erano visti che di sfuggita. Non c’era stato nessun confronto e lei non era stata brava concluse, chiudendo la porta dell’ufficio ed avviandosi verso le stalle. André era in licenza: sicuramente sarebbe andato a bere con Alain. Di nuovo in quel mondo soffocante e allo sbando, fra quei volti e quel tanfo di umanità. Nonostante lo schifo le venne in mente un’idea strana: l’idea di camminare di nuovo fra quelle strade come una zingara, senza regole, coi piedi sulla pietra e il rumore di medaglie che svelasse, indiscreto, dove andava, mentre l’ombra dal passo incerto la seguiva fin nel vicolo a gradini che portavano verso il basso. Ma passò subito. Salì in groppa e spronò il cavallo. Si rivide, in una frazione di tempo che sfuggì al controllo della ragione, aggrappata ad André con tutte le sue forze, col viso nascosto nell’incavo fra la clavicola e il collo. Era una delle immagini che la poca luce del moccolo le aveva consentito di imprimersi nella mente nella notte alla locanda. Si ricordò anche che gli aveva chiesto di sbrigarsi, perché stava bruciando, gliel’aveva ripetuto a bassa voce nell’orecchio. Ma era tutto così irreale e lontano. Irreale e lontano da far stare male. Pressò con più decisione i talloni sui fianchi del cavallo e lo spinse al galoppo, sperando che il vento si sarebbe portato via strada facendo tutti quei pensieri strani.

 

Tornò dal parco verso casa. La guidavano solo le luci delle candele dietro le finestre, che si spegnevano una ad una. Ormai era troppo buio e una passeggiata fra gli alberi nel cuore della notte assumeva un significato lugubre. Chi sprofonda nella natura cerca ristoro, ma nella notte è come se rincorresse la pena che, d’inverno, fra gli alberi, è ben visibile, nel buio. L’aveva vista ed era tornata indietro, rabbrividendo al pensiero dei delitti nella notte di Parigi, al sapore di follia che ogni tanto le rifluiva in bocca. Quando salì su per i gradini vide, nel riquadro della finestra aperta, un’ombra. Ma non se ne spaventò e gli andò incontro, perché prima o poi sarebbe successo.

“È tardi. Non fa freddo nel parco?”.

“Sì, fa freddo” rispose, entrando nella stanza, mentre lui si scostava per lasciarla passare. La luce del candeliere era molto debole e il fuoco nel camino era completamente spento.

“Io ho bisogno di parlarti” le disse senza tergiversare. “Dovremmo parlare di quello che è successo” aggiunse, seguendola.

“Sì è vero… è vero…” fu l’unica cosa che rispose, oltrepassandolo.

“Se tacciamo così, ho paura di desiderare che non sia mai successo” le disse, afferrandole delicatamente le dita della mano che cercava il candeliere.

“Io… io lo so… ma… mi chiedo come… come… me ne vergogno…”. Lo vide che taceva, come se gli avesse detto quello che più temeva. Strinse le dita nelle sue ed aggiunse, naturalmente, senza farsi forza: “Io mi vergogno di parlarne… non ci riesco… Non mi vergogno di quello che è successo. Di quello che ho fatto”.

“Allora non importa” le disse dopo aver ripreso fiato, con una voce che le fece venire i brividi. Le sollevò il viso con una mano e posò le labbra sulle sue. “Non sei costretta. Ne parleremo un’altra volta. Dormi bene” le disse accarezzandole il viso e se ne andò nel buio dei corridoi.

Non avrebbe mai potuto credere di avere paura di essere troppo felice.

 

“Ma dannazione, che fregatura! Mi ha fatto prendere un accidente… credevo morisse e non sapevo dove sbattere la testa!”.

“Dovete spiegarmi per filo e per segno quel che è successo. Capito?! Avanti!” intimò al guardiano precedendolo ad ampi passi. La luce del sole dalle feritoie le pungeva ritmicamente gli occhi mentre, stizzita, percorreva uno dei corridoi interni che portavano alle celle, in caserma.

“Comandante… che devo dirvi? Quello là blatera nel sonno… parla sempre da solo, si lamenta e io pensavo che gridasse per quello… poi mi stava rompendo talmente tanto le scatole che sono andato a vedere e l’ho visto che si contorceva e si infilava le dita in gola… Sono entrato e se non lo reggevo mentre si vomitava l’anima finiva con la fronte contro lo spigolo del letto e s’ammazzava… così magari li passavo io per lui i guai con voi. Per uno come lui! Comandante!”

Letto? Quello è un letto? Si chiese, reprimendo l’antipatia per il guardiano e scorgendo il tavolaccio nudo nell’angolo della cella, mentre sentiva girare pesantemente la chiave nella serratura. L’uomo era ancora steso lì. Immobile.

“Ma che diamine!” esclamò coprendosi il naso. “Cosa vi costa far pulire, idiota!? C’è una puzza insopportabile” sbotto con sguardo furente verso il guardiano.

“Oh… Sì, sì, subito comandante… Comandante, fortuna che c’era il soldato Lassalle che è corso a chiamare il medico e quell’altro… quello… insomma… se no io non sapevo proprio che fare…”.

Guardò l’uomo sofferente sul tavolaccio di legno. Il viso pallido e magro. Alzò lo sguardo verso la finestra con le sbarre di ferro. Sul muro in alto. Abbassò lo sguardo sul porcile che copriva il pavimento, poi guardò di nuovo il prigioniero.

“Cosa gli è successo? Cosa credeva di fare?”.

“Ah comandante mio, che ne so io! Il medico gli ha dato della roba… ha detto che doveva  continuare a vomitare… io non ci ho capito niente. Un parapiglia!”.

“Come non ci avete capito niente!” urlò innervosita. “Dovevate tentare di capirci qualcosa!”.

“E’… è che io sono ignorante. Ma quel tipo, quel soldato che era con Lassalle, quello che è istruito ci ha capito… ha parlato col dottore ed ha pure rovistato nella cella, che io ho detto dicono bene che questo qui è strano…”.

“Che accidenti state dicendo? Imparate il rispetto! Ogni soldato ha un nome…” lo incalzò allo stremo della sopportazione, intuendo di chi parlasse.

“Non conosco il nome… quello che ha sempre la giacca abbottonata, quello che va a sbronzarsi con Alain… che dicono che è tanto amico con sua eccellenza…”.

Si voltò fulminandolo sulla soglia della cella.

“Ma io non ci credo eccellenza! Sono tutti pettegolezzi!”.

“Il soldato Grandier. Vedi di piantarla! E pulisci questo schifo” gli intimò con voce trattenuta osservandolo nella penombra della cella sotto la luce fioca che filtrava dalle sbarre. Le sembrò minuscolo, nonostante il ventre sproporzionato, e si voltò per tornare nei suoi uffici.

André le aveva chiesto di parlare appena era arrivata, ma, temendolo, gli aveva detto che non poteva ed era accorsa alle lamentele del guardiano. Ora, invece di provare sollievo per il fatto che non volesse parlarle di questioni private, si sentiva delusa. Mentre percorreva il corridoio che portava al suo ufficio queste due sensazioni si alternarono senza tregua e sulla soglia della porta non sapeva più cosa desiderasse veramente.

“Chiamate con urgenza il soldato Lassalle e André… voglio dire il soldato Grandier” comandò, poi si morse la lingua perché con quell’ordine si era fatto sfuggire il trasporto verso l’amico.

 

L’oste piazzò violentemente il bicchiere sul bancone e la birra colò lungo il vetro. Quel rumore, seppur ovattato nel chiasso più totale, le fece sentire il dovere di recuperare il controllo. Si passò una mano sugli occhi, scese sul viso, poi ebbe l’impressione di non farcela e tornò ad accasciarsi con il capo sulle braccia conserte. Vide che il bicchiere veniva sollevato e li sentì parlare senza comprendere cosa si dicessero, se anche lei facesse parte di quel segreto.

“Portami un bicchiere!” chiese all’oste allungando, minacciosa, il dito.

“Ehi… Oscar... Non stai bene. Non è il caso di bere ancora”.

Al momento non le vennero in mente le parole giuste, ma, dopo una pausa per realizzare quel che le era stato detto, sentì la propria voce commentare in tutta tranquillità: “Stronzo…”. Né André, né Alain risposero e si sentì autorizzata a continuare. “Non so perché cavolo mi trovo qui con voi… Certo che vi sto ben rovinando la serata… Stasera André non si sente libero di sbronzarsi com’è il suo solito, ma io non gli ho mica chiesto nulla… può fare quello che accidenti gli pare, lo so che con voi non si trattiene in queste serate…”.

Il loro silenzio fermò le parole che combaciavano poco coi pensieri: era tutta rabbia che avrebbe cacciato via a calci, ma che stava usando verso l’ultima persona che se lo meritava. La persona che avrebbe voluto la stringesse. A volte per una strana magia la tenerezza si tramuta in rabbia. Si raddrizzò sullo sgabello e, quando riaprì gli occhi, la luce soffusa le sembrò accecante, come in una fornace.

Alain in silenzio col manico del bicchiere stretto nella mano. Gli altri soldati non avevano sentito nulla, troppo impegnati a fare stupidi giochi coi bicchieri da vino e a ridere per il troppo alcol nelle vene. André: uno sguardo incredulo e senza speranza, eppure non si era scomposto.

“Scusate” disse alzandosi. Si posò maldestra il mantello sulle spalle e con passo malfermo si allontanò verso l’uscita. Continuò a camminare meccanicamente, guardandosi le punte dei piedi per mettere insieme i passi, con le dita che sfioravano i muri freddi e umidi. Le immagini che filtravano dagli occhi erano tremanti e l’alcol non aveva cancellato i motivi per cui era stato ingerito. Rabbia, immagini rosse, risentimento. E la paura. La paura di tante cose insieme.

Sentiva i passi discreti alle sue spalle e non si voltava. Si fermò quando inciampò; all’inizio le sembrò che fosse un sacco d’immondizia poi si allontanò spaventata. Ad un lamento si accorse che era una persona. Corse via e si appoggiò con la guancia contro il muro, perché il freddo la svegliasse. Sapeva che le stava accanto.

“Cosa credi di fare così? Pensi che resuscitino i morti se ti riduci uno schifo?”.

“E tu cosa credi fare ogni sera? Allora?” e vedendo che non le rispondeva gli gridò contro più forte “Allora?! Eh!”.

“Stiamo parlando di due cosa diverse. Sei convinta che se hai commesso uno sbaglio - e di sbagli non ne hai fatti, perché non ne hai fatti - qualcosa cambi se ti punisci da sola?”. André era là, in piedi di fronte a lei.

“Lascia perdere… lascia perdere… io non riesco neanche più a pensare…” gli rispose allontanandosi, tentando di reggersi senza appoggiarsi al muro. “Ti accompagno a casa ” le disse avvicinandosi.

Le venne da ridere per le idee che le passarono per la testa. Forse una forma di gelosia. “Sì, mi riaccompagni… così poi torni qui ad assaporare la notte” disse con la voce contenuta ma fuori controllo. Il fatto che lui non le rispondesse, che non reagisse, la infastidiva.

“Ho detto solo che ti riaccompagno Oscar, non ho detto null’altro”.

“Se non volessi? Questo non lo hai considerato?”.

“Certo… l’ho considerato. Ti ho detto questo solo perché vedo che non stai bene, che stai reagendo male”.

“È che ho lo stomaco debole! Sto reagendo male!” sottolineò indispettita. “Io devo capire… devo capire perché tutti pretendono qualcosa dalla notte… Tutti cercano nella notte: la felicità che non possono avere la cercano al buio. Chiedono ed esigono denaro, stordimento, orgasmi e sangue… perché cercano questo? Perché cercano anche il sangue e le urla perché?”.

“Ma anche tu cerchi qualcosa Oscar. Perché la cerchi? Cerchi solo di notte e il giorno te ne dimentichi? Non credo…”.

“Io cerco quel bastardo! Non avrò pace fino a quel giorno! Io ho visto quella ragazza… e quest’altra ancora André…”.

“Lo sapevamo già che l’uomo che abbiamo portato via con noi non era colpevole. Ne siamo stati certi dopo quello che è successo nella cella. Ma quella sera potevamo solo evitare che venisse ucciso qualcun altro senza motivo… non credi? Non dipende da te se si è fatto vivo di nuovo Oscar”.

Le parlò di questo sentendo la tenerezza crescere nel vederla così, ma avrebbe voluto avvicinarsi e chiederle se si dava la colpa di non aver cercato, in quella famosa notte, solo un assassino. Forse quella notte quello che pretendeva la donna aveva soffocato quello che voleva il militare. Lei, smarrita, si tirava indietro i capelli che, spettinati, le piovevano sul viso. All’improvviso una pioggerella leggera iniziò a picchettare sui tetti e quelle gocce sul viso gli diedero un po’ di forza per farle coraggio.

“Vieni qua” le disse, prendendola delicatamente per un gomito e conducendola sotto una grondaia. “Aspettiamo che finisca questa stupida pioggia e poi ce ne torniamo a casa”. Le passò un braccio attorno alla spalla e sentì che gli appoggiava il viso contro il petto. Rimasero in silenzio, mentre le gocce cadevano più fitte ma pigre. Gli sembrò, col suo respiro contro il cuore, che la pioggia cadesse più lenta, tranquilla come non era mai stata.

Lei, in silenzio, smise di pensare a tutto quel sangue. Avrebbe tanto voluto sollevare il viso verso il suo per chiedergli sulle labbra “Ti va di farlo di nuovo?” ma non parlò. Guardò la pioggia ed ebbe la sensazione di vedere una scena di tanto tempo fa: le tende della sua camera che, bagnate dalla pioggia, si agitavano nel vento. “Il primo temporale di primavera” sussurrò soprappensiero.

“Purtroppo siamo in inverno Oscar” le rispose lui, con lo stesso tono di voce.

 

Ecco cos’era ancora successo.

Aveva continuato ad osservare la fiala che gli aveva consegnato André. Era piccola. All’interno c’erano ancora alcune gocce dall’odore forte. “Guarda qua” le aveva detto quando Lassalle era uscito e, assieme alla fiala, le aveva consegnato i brandelli di carta di uno scritto, sporchi di polvere e di impronte di scarpe. Era quello che aveva trovato nella cella quando era accorso ad aiutare il prigioniero.

Avevano posato quei brandelli vergati da fili sottili di inchiostro sul tavolo ed avevano tentato di ricomporli. Era un bigliettino, ma mancavano molti dei pezzi che lo componevano. Almeno così gli era sembrato, dal momento che i pezzi erano pochi. Quanto a quel che c’era scritto, si era voltata attonita verso André ed aveva mormorato “Non si capisce nulla… nemmeno una parola. Non è neanche un’altra lingua: è scritto in codice”. Si era seduta delusa sulla sua poltrona mentre André annuiva.

“Non è certo facile decifrarlo” le aveva detto con voce ferma “ma quei pezzi di carta significano comunque qualcosa. Non credi?”.

“Lui lo conosce! André, il prigioniero lo conosce!” gli aveva risposto stringendo il pugno come se gli potesse stringere la gola.

“Peccato che non può dirci nulla nelle condizioni in cui è. Il veleno ha fatto il suo lavoro prima che tentasse di vomitarlo. Ma è un piccolo passo avanti” le aveva detto lui, riportandola alla realtà. “Dovremmo chiederci com’è arrivato lì Oscar?”.

“Umff…” aveva sospirato lei esausta, dopo aver visto un piccolo spiraglio di luce. “Quell’idiota di un guardiano ha fatto avvicinare a quella cella un sacco di idioti nobili curiosi”.

Anche sul viso di André si era disegnata un’espressione di sconforto. “Lo so. Ero lì, avevo raggiunto Lassalle prima poco che succedesse quel disastro. Quindi potrebbe anche non conoscerlo…” disse rimanendo in piedi di fronte alla scrivania. “E’ possibile che sia uno di quelli, no?”.

“Che guaio. Se ci fossi stato tu dall’inizio te li ricorderesti dal primo all’ultimo” aveva osservato meccanicamente.

“Questo è certo” aveva commentato lui con una punta di orgoglio, ma solo nelle voce.

Con il capo abbandonato sullo schienale le era sfuggito un timido sorriso mentre lui si allontanava.

“So per certo che De Germaine non ci è andato” le aveva detto, chiudendo la porta.

“Che peccato…” aveva sussurrato lei chiudendo gli occhi e reclinando il capo sulla spalla.

Poi la notte seguente l’avevano chiamata di nuovo ed aveva visto un’altra ragazza con le vesti e il viso sporchi di rosso. Ed anche il timido entusiasmo delle loro congetture era svanito.

Ora continuava a guardare la fialetta. “Chi sei?” si chiedeva. “Chi sei?!”.

 

“E poi… e poooi…” insinuò l’uomo lasciando tutti a bocca aperta, in attesa.

“E poi cosa hai fatto vecchio porco?” “Dai diccelo!” “Avanti!” chiesero gli altri compagni, battendo i pugni sulle spalliere e facendo scricchiolare i letti. André si voltò su un fianco, dalla parte del muro tentando di perdere i particolari della conversazione.

“Avete presente quando il topo entra nella tana? Non so se mi sono spiegato…” esclamò l’uomo coadiuvato da un gesto eloquente. Le voci esplosero nella camerata che all’improvviso sembrò un serraglio. “Sei sempre il solito vecchio maiale” “Vai! Bravo!” “Dai, i particolari. Non vorrai saltare questa parte, la regola è tutti i particolari” “Ehi, davanti o di dietro?”.

André si alzò dalla branda ed si diresse verso l’uscita. Mentre si allontanava attraversando il branco urlante incrociò per un attimo il suo sguardo con quello di Alain che, seduto con un gomito sulla  spalliera, reggeva con l’altra mano le carte.

“Apre le gambe che è una meraviglia…” sentì mentre varcava la soglia della porta; “Fa delle cosette veramente particolari. Riesce persino a farti…” sentì mentre imboccava il corridoio e poi nulla più mentre si allontanava.

Uscì fuori e l’aria fredda dell’inverno gli concesse di respirare e sperò che gli congelasse ogni pensiero. Rimase a guardare le sagome bianche dei palazzi. Il candore delle neve brillava in una notte priva del più misero spicchio di luna. Doveva essere da qualche parte, fra le stelle, ma non si mostrava ai suoi occhi. Dai comignoli si sollevavano spire sottili. Da due soli comignoli in un’intera distesa. “La gente non ha di che scaldarsi” si costrinse ad osservare, scacciando di prepotenza i pensieri cui aveva tentato di sfuggire lasciando il branco urlante nella camerata. La notte era così bella ed era probabile che in quella notte qualcuno morisse per il freddo, per lo splendore della neve. O per colpa di una lama affilata. Gli tornarono in mente le strade contorte e buie ed il rosso di una veste che scivolava sulla pietra ricoperta da uno lieve strato di ghiaccio. Appoggiò la fronte allo stipite gelato della finestra ed aspettò che gli passasse. Ma non passava, perché almeno nelle fantasie che lo sorprendevano quando era solo, nelle poche immagini di cui era riuscito ad appropriarsi, di fronte alla notte senza confine, non aveva nessuna voglia di lasciarla andare.

Rivide il pugnale nella propria mano. In quella locanda sudicia nel cuore marcio di Parigi, rosso di sangue e vino. In fondo, a suo modo, ognuno è l’assassino di qualcun altro. Il seno stretto nel corpetto, ormai in disordine, che lasciava intravedere quasi i capezzoli. “Fai così” gli aveva detto con la voce soffocata e la mano di lei, ancora fredda, aveva guidato la sua puntando la lama sui lacci serrati che si erano allentati. Aveva sentito sue le forme calde contro il petto e i capelli che gli sfioravano il viso. “Oscar” sussurrò, socchiudendo gli occhi. Sentì una forte sensazione di calore e la notte, le stelle, i comignoli, le strade, i pugnali, il fumo che saliva al cielo fu come se si sciogliessero. Tranne quella luna che non c’era.

 

Fece un paio di passi distratti sul terreno ghiacciato della piazza d’armi. I suoi uomini avevano appena rotto le righe e si allontanavano verso le camerate. Con la sola uniforme all’aperto le battevano i denti. Nel bicchiere caldo che aveva accettato solo per riscaldarsi oscillava ad ogni passo un liquido scuro fumante, mentre D’Augoût continuava a camminarle accanto con i suoi resoconti. Si distrasse un attimo e guardò verso il cielo bianco, privo d’emozione.

“Continuate colonnello” lo esortò, accortasi che in quell’attimo di distrazione si era fermato. Continuarono a camminare lungo il porticato. Si sentiva stanca e demotivata.

“Comandante… altro cioccolato, altro cioccolato comandante?” gli biascicò la voce del guardiano quando furono nei pressi del portone. Dal basso le porgeva la caraffa con sorriso artefatto.

“No. Pensate ai prigionieri. Pensate a fare il vostro lavoro” gli rispose gelida e passò dritta. Mentre D’Augoût continuava a parlare, si sorprese a pensare che fra le tante cose e persone che le facevano schifo c’era quell’uomo, dal giorno in cui il prigioniero era stato avvelenato. Era un cattivo periodo, pensò poi: tutto la rendeva intrattabile.

 

“Io me ne vado” disse avvicinandosi all’orecchio di Alain fra scoppi di urla e rumore di bicchieri.

“Di già non hai più sete? C’è qualcosa che non va?” gli chiese Alain, sollevando il capo dal boccale di birra. “Preferisco tornare a casa stasera. Tutto qua” rispose distogliendo lo sguardo da due puttane con le labbra vermiglie e nei finti che assecondando battute volgari si premevano sul decolleté il viso dei compagni sbronzi.

“Va bene amico...” rispose Alain raddrizzandosi sullo sgabello. “A domani” gli rispose in tutta fretta facendo già per allontanarsi. “Ehi aspetta!” disse Alain, bloccandolo per un braccio. “Quanti colpi hai per la pistola?”.

“Un paio. Perché?” rispose, stupito dalla domanda.

“Perché quando siamo arrivati qui o seguivano me o seguivano te”. André toccò la pistola nella fondina, benché credesse che Alain esagerasse. “Due sono pochi. Mai due amico” aggiunse Alain con l’aria di chi la sa lunga. Allungò il braccio e sfilò il pugnale al soldato suo vicino di tavolo. “Sta’ buono. Buono, ti offro da bere, io e te facciamo la stessa strada” lo rabbonì minaccioso mentre quello tentava di protestare. “Prendi questo. Sarà meglio” disse piazzando con un colpo il pugnale sul tavolo. André lo estrasse dal legno e gli fece un cenno di ringraziamento prima di andarsene.

 

Si diresse verso la stalla della locanda. Era sul retro e le fiaccole illuminavano una sera ancora non completamente buia: in fondo all’orizzonte ancora piccole tracce di un rosa smorto, che gli occhi di André non potevano cogliere. Le orecchie però seguivano uno scalpiccio che, al pensiero di quel che aveva detto Alain, faceva rabbrividire. Era quasi arrivato e si accingeva ad entrare nella stalla quando non lontano udì un colpo di pistola che sbadato colpì un secchio di latta e fece imbizzarrire i cavalli. Fu un attimo, un’altra esplosione e sentì qualcosa che gli sfiorava il viso mentre istintivamente lo sollevava. Vide solo una sagoma scura, ma non gliene importò. Riuscì a fuggire a perdifiato lungo i vicoli, con lo stesso scalpiccio alle spalle che si faceva sempre più affaticato, come di una belva non abituata a cacciare. In un vicolo, con la schiena al muro, stupendosi di essere vivo, scivolò ansimando a terra. Si allentò il colletto dell’uniforme. Sentiva all’improvviso un caldo soffocante e con le mani tremanti si asciugò il sudore che sentiva scorrere sul viso.

Nel pantano per terra l’acqua era ancora gelata. Sentiva il ghiaccio sbriciolarsi sotto i piedi. Si allontanò i capelli dal viso e, mentre il respiro ritornava regolare, ebbe l’impressione di non vedere più nulla. Estrasse la pistola dalla fondina e cercò nelle tasche il contenitore dei proiettili, ma di proiettile non ce n’era nemmeno uno. Era tempo che era troppo distratto, la sua mente si compiaceva da troppo in fantasie che lo allontanavano dalle più piccole sciocchezze pratiche. Prima, quando le cose le poteva solo immaginare, non era così. Era più vigile. Tentò di respirare più piano anche se si sentiva morire all’avvicinarsi dei passi, e pian piano tornò a scorgere i contorni delle immagini. L’immagine scura era di spalle nel mezzo di un crocicchio, senza sapere quale strada imboccare. Lì prima o poi l’avrebbe trovato. Strinse i denti e corse via a rompicollo giù per una discesa. Sentì l’immagine caracollare alle sue spalle e riprendere la corsa. Un altro sparo, ma se riusciva a correre significava che ancora non l’aveva colpito e strinse l’impugnatura del pugnale di cui si era ricordato solo allora. Svoltò oltre una curva a gomito alla piena luce di due fiaccole che illuminavano l’entrata di quella che forse era bettola. Si voltò istintivamente e vide comparire anche l’ombra. Non pensò nemmeno per un attimo. Vide la sua stessa mano che scagliava il pugnale. La lama del pugnale lasciò andare un piccolo bagliore sotto le fiaccole. E poi un’altra immagine: il pugnale inchiodato in una mano, su un portone ed un urlo disumano che percorreva la notte. Incredulo fuggì via. Si sentì bene all’idea di quel che aveva fatto. Nonostante sentisse tutto il dolore di quel grido si sentì bene e corse più forte, col vento gelato sul viso.

 

Continua...

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