Storia di nebbia e d'occhi chiusi

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C’è un raggio di sole. Si insinua fra la tende e lancia una leggera striscia di luce sulle lenzuola. Lambisce una mano chiara, dalle dita rilassate e dalle vene azzurrine.

Il raggio di sole si sposterà, lento, ma più veloce di quanto lui non creda. Lo sa. Toccherà le dita. Pregherà intensamente che le dita si distendano, o si contraggano. Che si muovano. Che apra gli occhi.

Ancora l’aria sa di buio. Non sente più il sonno e i nervi sono rigidi. Il viso è immobile nella penombra, ma lui lo conosce a memoria, tanto da temere, a volte, di averlo dimenticato. In tutta quest’ombra, attraversata dal respiro stanco dei servi, lui si rende conto pienamente di cose che già sa. Le conosce così bene e così naturalmente da aver creduto di ignorarle. “Però non si può” pensa fissando il volto pallido nella penombra e ride di sé col capo chino e le lacrime aggrappate alle ciglia.

“Ecco cos’ era… Ecco cos’era…” si canzona. “Aprirai gli occhi… vero?” le chiede mentre tutto rimane immobile.

 

È solo come ricomporre una storia che già si conosce. Non ci vuole molto. È incredibile aver tentato di volerla diversa, adducendo scuse e propositi. Ma, in realtà, tentato quanto?

“Mi dispiace aver dubitato” gli suggerisce la coscienza e forse il dito che allunga timidamente vorrebbe accarezzare la mano sperduta sulle lenzuola. Ma torna tremante nel pugno.

“Evidentemente sono un angioletto…” si canzona da solo pensando ai dubbi della sera precedente…

 

Жuc0Жuc0Ж

 

A diciannove anni non ho concluso nulla.

Il cavallo dondola su queste strade sconnesse. Le strade ci portano alle più calde taverne di Parigi. Il sole cade giù e lì le notti si infiammano. Lo so da me e me lo assicura anche Luc che mi precede sul suo ronzino. “Vedrai… vedrai…” mi dice sornione con quel viso allagato dalle lentiggini ed io annuisco. Un po’ mi sento stupido… un po’ tanto. Ma è così che si vive.

Alla mia età molti ragazzi hanno già figli. Non che io ci abbia mai pensato… non so… ma è strano che sappia solo teoricamente come si fanno.

Alla mia età molti ragazzi mantengono famiglie. Io lavoro, ma non ho una famiglia normale. Anzi: io una famiglia non ce l’ho. Ho mia nonna. Conosco un sacco di gente...  colleghi... e faccio facilmente amicizia con le persone che incontro. Prendo quello che di buono hanno le persone. In effetti non è sempre amicizia. Non dico mai niente di me però. Cosa dovrei dire?

Ho Oscar, ma lei non è mia sorella anche se, un po’, è come se lo fosse. Lei pretenderebbe di essere un fratello se me lo sentisse dire… vabbè… lasciamo stare…

È un po’ che le sono spuntate anche le tette, anche se non promettono tanto. Il problema è che ci penso che ho accanto una donna, dal che ho dedotto che è il caso che mi cerchi una ragazza e mi distragga un po’.

Luc dice che Chez Jacques detto “Le Cochon” – ma questo soprannome è meglio che Jaques non lo sappia mai! – ci si diverte. Scorrono birra, liquori, vino. Si canta. Si sta fra maschi e si parla da maschi e questo ti aiuta a capire cosa vuoi essere nella vita. Ci sono tanti modi di essere, è vero: ogni persona è una finestra aperta su qualcosa. Io il mondo vero non credo di averlo visto. Il mondo vero è la strada fuori dai muri delle case. Il mondo vero non sta nei salotti che frequento per fare da palo ad Oscar che li sopporta anche meno di me.

Luc m’ha detto che dal Cochon ci sono delle ragazze molto belle. Ha detto che ha imparato delle cose che non immaginava. Io continuo a non immaginarle… Ha detto che vuole diventare bravo come Simon, uno dei nostri giardinieri che, dice Luc perché sostiene di aver sentito, fa gridare le donne. Io sono arrossito come uno scemo. Più o meno ho capito, ma devo chiarirmi le idee.

Oscar stasera era molto stanca. Non le andava di parlare e nemmeno di suonare un po’ il piano. Era chiaro che non era aria. Una di quelle serate noiose. È così da troppi giorni. Forse rimarrà così per sempre. Sembra presa dalle mille preoccupazioni di quel lavoro. A volte penso che stia arrivando il momento in cui le nostre strade di divideranno e mi fa rabbia perché non mi sembra giusto.

L’aria che respiriamo sa di fumo, d’arrosto e vino… sa anche, per la verità, di piscio ma, visti i propositi per la serata, accantono tutto quello che è poco piacevole. Mentre le folate incalzano Luc si volta e mi fa l’occhiolino. Secondo me è un po’ scemo. Ho capito cosa vuol dire e non c’è bisogno che lo ripeta sempre.

Me ne sono scappato quando si è sprofondata in poltrona con un libro in mano. Sempre davanti al fuoco. Si è stiracchiata come fa sempre, automaticamente, e quella camicetta bianca le si è appiccicata addosso. Stasera m’ha fatto un effetto strano: mi è sembrato che nel tendersi sulla carne mostrasse più del solito, forse per la luce di quel cavolo di fuoco. Ho pensato un po’ se andarmene o no. Poi quando mi sono reso conto che i miei occhi non vedevano più quel che avevo di fronte, ma immaginavano come sarebbe stato infilare le mani sotto quella camicetta, la sensazione di carne morbida e calda nel palmo della mano, le ho voltato le spalle e le ho detto che uscivo con Luc. Ha detto “Va bene” con gli occhi incollati alle pagine, la qual cosa mi fa sperare che non abbia intuito nulla di quello che succedeva nei miei pantaloni.

 

C’è un gran casino qui: mai sentiti tanti suoni scoordinati tutti insieme. Rumore di bicchieri usati tipo barile, prescindendo dal fatto che il vetro è fragile e può disintegrarsi; voci almeno due ottave sopra il normale perché forse credono che il suono per viaggiare da una bocca a un orecchio debba fare un’immane fatica nel fendere una coltre di fumo e profumi di simil vino e quant’altro; sgabelli che strisciano per terra con quel rumore che si infila alla base della colona vertebrale e rimane annidato lì finché la sensazione di schifo non va via; colpi sulle panche; rumori umani indefinibili… Un tizio si contorce e suona un violino scordato: o è ciucco o la musica pervade ogni suo singolo ossicino. Luc mi fa il solito occhiolino posando il capo sulla spalla di una ragazza che con infinita leggiadria estrae residui di cibo dalla dentatura e ride. Stringo il manico di un boccale di birra iperannacquata e gli faccio un cenno: tiro le labbra verso destra in un mezzo sorriso che non dura più di un secondo. Sono assordato e non riesco a seguire nessun discorso. Luc mi indica una che mi fissa. Luc è scemo. La tipa mi sorride e le sue labbra si spalancano su una dentatura bianconera che mi ricorda i tasti del piano di Oscar. Un altro sorso e la birra schifosa mi sciacqua lo stomaco. Luc si protende per raccontarmi non so cosa, ma capisco una parola ogni tanto di quel che mi urla e vedo la sua distesa di lentiggini sul naso che si muove nel parlare e saliva che vola.

Comincio a codificare un concetto: l’essere vissuto al caldo mi ha tolto ogni possibilità di capire e apprezzare quello che gli altri chiamano divertimento. Sotto il nostro tetto solo misura e contegno. Dev’essere questo. Ma il concetto da sofista si disgrega non appena il mio vicino si piega di lato e lascia andare un tuono tremendo. Allora mi alzo, non c’è niente da fare, e col bicchiere in mano mi guardo intorno per cercare, un’uscita, un pertugio, che mi riconduca all’aria pura della notte. Luc mi trattiene per un braccio e mi chino ad ascoltare cosa dice. Questa volta sento: “Vedi di far ballare il pisello”. Metafora ardita. Mi allontano, mi guardo di sfuggita alle spalle e vedo che lui e la ragazza si baciano.

 

In giardino le stelle sono lucenti. Le orecchie mi fischiano, dopo essere passato dal chiasso alla quiete. Luce e rumore si agitano ancora oltre la porta aperta sul retro dell’osteria. Mi ipnotizzano e spero mi distraggano dai due pesi che mi porto addosso: il boccale quasi colmo che mi traballa in una mano e una ragazza che si è appiccicata all’altro braccio. Non è male, ma ha la fronte troppo alta e il collo troppo sottile… e i denti troppo sporgenti. E poi è vestita in un modo che non saprei dire. Saprei dire solo che il corpetto lascia sbuffare fuori tutto quello che c’è sotto. Mi getta le braccia al collo e inclina il capo indietro. “Allora. Che facciamo?” chiede come se stesse chiedendo una cosa qualsiasi.

Non so che dire. Si sente solo il baccanale all’interno dell’osteria. Mi rendo conto che mi si aggrappa e mi preme il seno sul petto. Rimango intontito perché tutto questo non mi dà nulla. Non mi dice più di tanto neanche quel seno in vista. Forse il corpo percepisce qualcosa, ma è la testa che non c’è più. Mentre lei attende una risposta non la vedo. I miei occhi vedono cose che non esistono, o che esistono in altri mondi. In mondi non reali.

Vedo ancora quella scena e la sento. Quell’immagine che mi ha convinto a uscire di casa. Lei che si lascia infilare la mano sotto la camicetta bianca. Qualcosa di caldo, di morbido e poi duro nel mio palmo. Ma che vuoi ora Oscar? Perché sei qui ora? vorrei chiederle. Il tuo Catone improvvisamente non è più interessante del tuo amico?

Se questa fosse la realtà, m’avrebbe già trafitto, con scatto felino e agile mossa, più e più volte nei principali punti vitali. Ma non è la realtà e mi guarda negli occhi e la mia mano se la preme contro con le sue. Le guardo le labbra umide mentre inclina all’indietro il capo e nella mia mente c’è il vuoto. Non passa un pensiero, non passa una parola ch’io possa afferrare al volo e dirle. Sto zitto e la guardo. E così vorrei che capisse che voglio chiederle perché mi fa una cosa del genere. Perché anche se non mi segue, m’accompagna anche quando sono solo. Le guardo gli occhi socchiusi, dalle ciglia lunghe e mi sento sciogliere.

Torno alla realtà di botto. Ho qualcosa di viscido e rivoltante nelle bocca che mi perseguita impedendomi di respirare. Vorrei urlare per il fastidio. Il bicchiere tonfa sull’erba e mi bagno le scarpe e le calze di quella birra annacquata. Sento salirmi in gola una bolla: è un conato di vomito. È la ragazza maledizione!

“Che fai!” le chiedo staccandola, quasi senza voce.

“Come che fai? Brutto coglione! Ce l’avevi duro e t’ho baciato”.

La guardo esterrefatto tenendole le mani sulle spalle, ma vista la mia reazione non credo ci sia bisogno di tenerla a distanza. Io credevo che un bacio fosse una cosa bella. Ora penso che sarebbe meglio che le persone avessero la bocca asciutta!

“Sei un verginello” fa la ragazza cambiando tono e io non rispondo. L’ho capito da un pezzo che qui sono fuori posto. E che, nonostante tutto, non voglio essere un verginello.

“Ehi… non è mica un problema… Posso aiutarti a non esserlo più: è il mio lavoro” dice di fronte al mio silenzio. Ma a me non importa quello che dice, sto tentando di rimettere insieme i cocci e di capire dove, pochi secondi fa, stesse correndo la mia fantasia.

“A volte, se va particolarmente bene, non mi faccio pagare nemmeno” aggiunge la ragazza, ma io abbasso lo sguardo: ho le calze fradice di birra e il bicchiere è rotolato giù dove la terra è più battuta. Vorrei un sorso e vorrei che Oscar non tornasse più qui stasera. Perché lei è là, a casa, davanti al fuoco a leggere il suo tomo. Quando le faranno male gli occhi e non ne potrà più lo getterà sul divano e sparirà per andarsi a coricare. E continuerà a dirmi le solite cose che ci diciamo ogni giorno. A chiedermi i soliti consigli che faticherà a seguire. A mandarmi avanti per spillare informazioni al prossimo perché ho un modo di fare rassicurante e la gente di me si fida.

“Che ti piacciono i maschetti?” fa la ragazza all’improvviso.

“No!” le rispondo, piccato. Sotto questo cielo stellato, vedo il mio orgoglio maschile penzolare da una forca, io che ero uscito di casa per diventare uomo. Ma come si diventa uomini? Con una lingua viscida in bocca? Infilandosi in una sconosciuta?

Mi fissa dritto negli occhi. Ha un’aria tremendamente inquisitoria questa ragazza, me ne rendo conto ora. Ha due occhi neri enormi che fanno sparire tutte le disarmonie del viso.

“Che cazzo hai da guardarmi!” mi gira nella testa. Ma la mia educazione me lo impedisce. Anche se l’istinto mi suggerisce che posso, dal momento che mi ha omaggiato dell’epiteto “brutto coglione”.

All’improvviso si copre con lo scialle che ha sui fianchi, incrocia le braccia e ridacchia senza togliermi lo sguardo di dosso. “Che cazzo hai da ridere?” e questa volta sto per dirlo davvero. Non lo dico perché lei mi batte sul tempo.

“Tu sei un innamorato cronico” sentenzia. Una specie di fulmine a ciel sereno. Ho capito ma non voglio capire. Non voglio che qualcuno, che non sono io, stasera abbia ragione.

“Cosa vuoi dire?” azzardo.

“Sei uno di quelli che hanno il cuore collegato alle mutande”.

‘Sta tipa si esprime come una scaricatrice di porto, anche quando vuole essere delicata. È già tanto che non tiri giù dal calendario l’empireo dei santi a farci compagnia in questo giardino. E pensare che a volte ho creduto che Oscar fosse esplicita quasi come un maschio nel parlare…

“Voglio dire…” si corregge, “Chissà a chi stai pensando… e proseguire nella cosa ti farebbe credere di averla tradita”.

“E chi te lo dice?”.

“Intuito femminile” fa lei che tanto femminile, nonostante l’abito, non mi sembra.

“Vedi Vincent…”.

“Ti ho detto che mi chiamo Vincent?” chiedo, perché so che non le ho detto il mio nome. Tanto meno mi sarebbe venuto in mente Vincent… non conosco nessuno che si chiami così.

“Fa nulla… Tu per me hai la faccia da Vincent” fa lei sedendosi su un muricciolo con aria dottorale. Allorché penso che questa è proprio bacata, ma che forse, nella sua bacataggine, l’intuito femminile la sostiene. Ed è questo che mi sfinisce.

“Ascolta Vincent…” continua imperterrita. “Come stanno le cose? Lei non ti si fila? Perché sei qui ed invece vorresti essere a mille miglia?” chiede. “O qualche miglio più in là” insiste nell’attesa della risposta.

“Non c’è nessuna” dico con aria convinta e sospettando di mentire. “Sono di cattivo umore stasera” e mi appoggio al muricciolo. Guardo la luna che, veloce, sta scomparendo, gialla come una fetta di formaggio, dietro i tetti.

Mi guardo le punte dei piedi. Non c’è nessuna. Io questi pensieri li faccio perché sono solo ed invece vorrei essere amato. Cosa si deve fare per essere amati?

“Secondo me, Vincent…” continua imperterrita la ragazza, senza prendere in considerazione quello che le ho risposto. “Secondo me Vincent dovresti cambiare tattica…”.

Io non ho tattiche, ma comincio a temere che la ragazza legga nel pensiero. Forse è più semplice: conosce una serie di situazioni standard e snocciola il consiglio che le sembra appropriato.

“Sai cos’è? Tu sei del tipo ‘angioletto’…”.

“Dici?” chiedo, rassegnato a sentirla lumeggiare sulle categorie maschili. Ma se non l’ascolto penso ad altro.

“Anche se non dovresti avere problemi, perché sei carino, non avrai mai successo perché alle donne piace il tipo ‘figlio di puttana’… quello che ti fa stare sveglia per la disperazione così ti senti viva.

La guardo e penso “Se questa ha ragione sono fottuto”.

“Ad esempio…Ti faccio vedere un po’” continua saltando giù dal muretto e trascinandomi per una manica in modo da vedere quel che succede nell’osteria. “Guarda lui” mi fa e mi indica un ragazzo seduto a un tavolo proprio di fronte alla porta. “Lui a me piace un casino perché è figlio di puttana”.

Il ragazzo secondo me prima ci stava guardando, ora distoglie lo sguardo e giocherella col fazzoletto rosso che ha al collo. Si dà un tono da uomo con due basette ancora mezze vuote. Avrà la mia età. È uno di quei tipi che tutti rispettano istintivamente: alto, spalle e mascella larghe, uniforme blu.

“Vedi… lui sa sempre cosa fare… quando farsi avanti per gettare l’esca ed all’occorrenza tirarsi indietro in modo che noi ci sentiamo perdute. Ognuno ha la sua parte nel gioco”.

Non le capisco queste teorie. Ma capisco cosa voglia dirmi. Ed ho anche il sospetto che volesse arrivare a questo discorso per sfogarsi sui sentimenti che prova per quel tipo. In realtà mi fa tenerezza e i consigli da donna navigata passano in secondo piano.

Il ragazzo ed altri due si alzano e vengono in giardino, ci oltrepassano e vanno sul fondo verso gli alberi dove c’è il pisciatoio dell’osteria. Il ragazzo ci getta uno sguardo e sparisce nel buio. Lei sorride civetta.

“Tutto chiaro verginello?” fa lei all’improvviso e si dirige verso la porta. “Vedi di darci un taglio però. Sarebbe un’indecenza per uomo rimanere nelle tue condizioni!”.

Questa non gliela faccio passare!

“Senti un po’…” faccio con cattiveria sottile e con le mani in tasca. “Secondo me fai tutte queste storie perché ti brucia che lui non ti consideri!”.

Scuote la testa, come per dire “Che vuoi farci?” e sparisce nella luce e nel chiasso.

Mi sento svuotato, qui, sotto le stelle. Paradossalmente meno confuso di quel che credessi. Senza sapere che fare. Andrò al bancone e chiederò del liquore. Lo chiederò alla figlia di Jaques Cochon che è una ragazza qualsiasi. È carina e quasi non parla con gli avventori. Potrei guardarla e farle capire che se riuscissi ad amarla sarebbe la mia salvezza e forse renderei felice anche lei. Mi salverei dalla matassa in cui giorno per giorno, da non so quale giorno, mi sto aggrovigliando. Mi ci aggroviglio ancora, perché altro non voglio. Perché nell’immaginazione la mia mano è ancora lì e le sue mani anche. Più premo, più impazzisco, più sento il battito del suo cuore e spero di poterlo intrappolare nella mia mano. E non mi chiedo più cosa devo fare per essere amato, ma cosa devo fare perché mi ami tu, Oscar?

“Ehi amico…”.

È destino che le mie fantasticherie vengano troncate. Il ragazzo del tipo “figlio di puttana” mi fissa con uno stecchino in bocca.

“Eh…”  gli faccio, caduto dalle nuvole.

“C’è qualche problema? Quella rompiscatole di Henriette ti ha fatto girare le palle? Non lo fa apposta, in fondo è anche simpatica”.

“No… no per niente…”. Ho indovinato: non è un amore ricambiato. “Mi parlava delle categorie di uomini” riassumo, omettendo.

“Ancora questa storia… ahh!” sospira il ragazzo. “Tu dove sei finito?”.

“Fra gli angioletti” confesso senza entusiasmo. Il ragazzo si gratta una delle basette, troppo rade per essere credibili. “Pare che i più richiesti siano i figli di puttana” continuo, perché ho l’impressione di aver trovato una persona normale con cui parlare in questo posto.

“Davvero? T’ha detto così?” fa il ragazzo stupito.

“Sì… Perché?”.

“A me ha sempre detto che le donne preferiscono gli angioletti…”.

Ci guardiamo perplessi. All’interno dell’osteria fra applausi e urla, Hanriette sfinisce a forza di balli e piroette il suonatore di violino tarantolato. Spero che non gli venga un colpo a fine serata.

Il ragazzo mi poggia una mano sulla spalla. “Lascia perdere…” mi dice e mi porge il bicchiere vuoto. “Beviamoci su ché è sempre la cosa migliore!”.

Ci facciamo una risata e ci avviamo verso la porta.

 

Luc ha di meglio da fare che tornarsene a casa. Farà ballare il pisello… mi concedo di pensare, nelle ultime ore di scurrilità permesse prima del ritorno a casa. Faccio un pezzo di strada col ragazzo che ho incontrato all’osteria.

La serata è bella, tiepida e il vento ribelle che si convoglia nelle stradine ci incolla addossa gli abiti.

“Porta via tutti i miei pensieri!” grido aprendo le braccia al vento. Tanto ho bevuto… Il mio compagno si limita commentare: “Certo che sei un tipo strano. Sei un nobile?”.

“No. Per niente” rispondo e mi viene da ridere. “Non lo sono nemmeno un po’.”

“Qui le nostre strade si dividono” mi dice il ragazzo, una volta arrivati a un crocicchio. “Bene amico, allora arrivederci. Non si sa mai…” mi fa porgendomi la mano. Gliela stringo e gliene sono grato. “Ti chiami?”.

“Vincent” rispondo.

“Uhm… guarda che strano… mi chiamo Vincent anch’io!” mi dice e ci mettiamo a ridere come due scemi nella notte.

Io prenderò la strada che porta fuori città. Quella che passa per le campagne per portare ai nidi dorati degli aristocratici. Quella strada su cui la nebbia si addensa così tanto che devi cantare per ricordarti che sei vivo e che non ti devi addormentare. E cosa canterò? Vorrei conoscere una canzone che in ogni parola, in ogni sillaba, parlasse solo di te. Te e basta.

Sento una mancanza enorme. Un buco al centro del petto. Un vuoto senza fine, come una caduta in un tunnel che non ti lascia mai arrivare alla fine. E cado in eterno perché le mie fantasie nel silenzio, attraverso la nebbia e nel buio non le interromperà più nessuno. Cado finché non mi addormento, sfinito d’amore e di vino sul primo giaciglio morbido che trovo.

 

Un rumore. Una porta si spalanca e la luce mi investe e mi brucia gli occhi sotto le palpebre. Un incendio che mi strappa al sonno pesante. Le immagini del sogno orribile che sto facendo vengono ingoiate dalla luce. Tu, che mi picchi e mi gridi contro, svanisci.

“André! Hai dormito nelle stalle? Dovresti vergognarti!”

E queste sono le tue vere parole. Mi prendi in giro e te ne vai. Sparisce anche la immagine in uniforme bianca. Non protesto e rimango sulla paglia, fermo sui gomiti ad aspettare che il mondo attorno a me riprenda senso. Dopo ieri la tua indifferenza mi fa male.

Il sogno era il dazio da pagare per aver fantasticato troppo. Per aver immaginato senza nessun freno di metterti le mani addosso. Ma io vorrei solo che mi abbracciassi. Tu invece giri la spalle e te ne vai. Ed io rimango a bocca aperta. Poi penso che è tutta una scemenza ‘sta storia: non devo pensare troppo a te, perché se ti penso così tanto mi convinco di amarti. E il tuo attendente non deve amarti. Non si dovrebbe nemmeno concedere di essere dispiaciuto che la nostra amicizia si stia raffreddando.

 

Жuc0Жuc0Ж

 

Per un attimo mi sembra di non capire più nulla di fronte ai tuoi occhi aperti su di me. E’ peggio che trovarsi disarmato davanti alla punta del tuo fioretto.

Oscar affonda la lama e non lo sa: “André… ho sognato di me e te quando giocavamo da bambini”.

È tranquilla come se dicesse una cosa normale. È sveglia ed è salva. È così bella, anche se è pallida e ha le occhiaie. “Ho sentito che mi chiamavi da lontano… la voce era così triste… e mi sono svegliata”.

Non ci sono parole con cui risponderti: ho solo due lacrime a portata di mano.

Non posso dirti di fronte a tutti ch,e dall’istante in cui sei svenuta di fronte al Re, per tutta la notte ho recitato una personale litania: “Apri gli occhi! Apri gli occhi Oscar!”.

Non posso dirti che ho pensato che non mi volessi nemmeno più come attendente; che la nostra amicizia si fosse logorata negli anni e si stesse spegnendo nelle tue occupazioni.

“Cos’hai?” mi fa.

Ti sembro strano se non parlo Oscar? Sei abituata a sentirmi fare commenti, ma questa volta ti chiederei solo perdono e tu non ne capiresti il perché. Continueresti, come hai fatto ieri, a dirmi che sono strano.

“Sei stato molto in pensiero per me?”.

Perché me lo chiedi? Io lo do per scontato che sarei morto anch’io se non avessi riaperto gli occhi. Continuo a tacere ad occhi bassi.

“André puoi dirti fortunato. Sei l’unico che può vantarsi di essere sfuggito alla condanna a morte del Re di Francia!” dici sorridente per sdrammatizzare e tutti ridono. Si può sdrammatizzare una condanna a morte? Si può sdrammatizzare il tuo gesto: tu che ti offri di morire al posto mio?

Ridi di me e dovrei riderne anch’io, ma ti vorrei chiedere di non prendermi in giro, piccolina. Perché ti amo e un po’ mi ferisce: la speranza che mi ha dato quel gesto mi ha reso completamente ingordo e ora da te vorrei tutto. Angioletto o figlio di puttana: quello che in me c’è di buono o cattivo sei sempre tu.

“Ridi… ridi…” rispondo finalmente. In questo istante so che non posso scollarmi dalla spalle l’abito da stupido. E neanche lo voglio se uno dei tuoi sorrisi può essere per me soltanto. Hai il tuo modo contorto di voler bene e forse neanche te ne accorgi, ma mi stringi impercettibilmente le dita.

Mi tratti come uno zimbello, ma per uno zimbello non si rischia la vita.

Se potrò lo farò anch’io, lo giuro solennemente sulle tue dita che stringono debolmente le mie.

Me la stringeresti ancora la mano se una vocina ti spifferasse nell’orecchio che l’altra sera fantasticavo su come ti si sarebbero induriti i capezzoli prima nelle mie mani e poi nella mia bocca? Mi tireresti un pugno… ecco cosa faresti… E se ti spifferasse le fasi successive, quelle in cui le mia mani le vuoi dappertutto? Mi squarteresti… ecco cosa faresti!

Per magia o istinto di sopravvivenza mi si seccano le lacrime e un sorriso non so da dove lo pesco, ma me lo stampo in faccia perché nessuno mi legga negli occhi. E perché nessuno si azzardi a dirmi se sono angioletto o figlio di puttana e quale sarà il mio destino in forza di qualunque etichetta.

“Ti andrebbe se ti portassi una tazza di cioccolato?” ti chiedo. Ti chiede l’amico attendente.

Tu annuisci, contenta. Sei prevedibile. La nonna consulta con lo sguardo il medico che accondiscende. C’è anche Fersen a pavoneggiarsi.

Cioccolato sia! E mi allontano con un inchino ai signori. Sbrigativo… ma pur sempre un inchino è!

“André… sbrigati!” mi avverti, mentre quasi sono oltre la porta. Mi volto un istante. “Ho fame…” ti giustifichi, ma i tuoi occhi sono troppo preoccupati di doversi giustificare. Mi fa illudere che ti mancherei.

Il fatto che non mi ami come vorrei, non significa che non mi ami affatto. Forse neanche lo sai. Su questo sono io quello che dei due ha aperto gli occhi. Quello che credeva di stare bene e invece stava male.

 

“Non preoccuparti” dico fermandomi un istante. “Vedrai che tornerò subito” ti rassicuro.

E spero che capirai quello che intendo.

 

Ψuc0Ψuc0Ψuc0Ψuc0Ψuc0Ψ

 

No. Non credo che sopravvivrò a guardare scene del genere.

Certo che sopravvivrò. È logico. Ma sto morendo un po’ dentro.

Le strade, ora che si avvicina il crepuscolo, si svuotano, ma tutti sono egualmente in agguato. È tutto più pericoloso: perché cade la sera, perché la città è assediata, perché c’è un caldo umido che dà alla testa e perché… perché può essere solo così ormai. Ma non è questo. Chi fa il soldato è abituato alle tensione e alle sparatorie. Anche se tremi come un giunco sai mantenerti spavaldo. Mi ricordo di quello che mi diceva tanti anni fa una ragazza: figlio di puttana, angioletto… parlava in questi termini. Siamo tutti angioletti mascherati da figli di puttana. Ma poco male. Serve.

Ma tutte le volte che oggi sono entrato nella chiesa mi si è spaccata la maschera e quando ne sono uscito non mi importava più di tanto che mi si fosse ricomposta sul viso. Se c’era, era piena di crepe.

Siamo entrati in gruppo nella chiesa per farci forza. Ma ci siamo avvicinati a stento.

Non ce la faccio più a vedere che se ne sta lì e lo stringe. Lo stringe nonostante tutto. Se ne sta seduta per terra con la schiena al muro. Se l’è adagiato sul petto e gli posa il viso sulla testa come se cullasse un bambino. Invece è un morto.

Tempo fa anch’io sono stato come lei. Ma io conosco le mie debolezze, le sue le immaginavo soltanto.

Non lasciava mai intravedere fino a che punto lo amasse.

Vedo la mano che accarezza il viso nell’ombra e scosta i capelli sul collo bianco come farebbe una bambina che culla una bambola e mi fa quasi paura.

Lui ha avuto il tempo di capire fino a che punto?

Ha detto che vuole impazzire e se continua così succederà.

“Che c’è?” mi ha chiesto, quando mi sono avvicinato. La luce colorata di una vetrata proietta immagini sul viso, sugli occhi gonfi e venati di rosa di lei, sulla pelle cerea di André.

“Comandante… Oscar…”. Voglio starle un po’ vicino, anche se so che non cambia nulla. Ma André me lo chiederebbe.

“Oscar… sono passate delle ore”. Non puoi continuare a tenerlo! Vorrei dirle chiaro. “Abbiamo una bara…”.

“No… non voglio ora… voglio che stia con me ancora un po’…”.

Non so che dire. Devo dirle cosa succederà se continua a tenerlo? Ha l’uniforme sbottonata e la camicia bianca è chiazzata da piccole macchioline rosse. Sotto la camicia si legge benissimo che non è un uomo. Ma se mi sento morire un po’ non è per questo, non è perché si vede meglio di altre volte che è una donna. È perché lei è così per lui anche ora che non serve.

Là vicino ci sono ancora delle lenzuola inzuppate di sangue. Il rosso è così cupo che sembra nero. Quest’angolo è fuori dalla grazia di Dio.

“Oscar cosa credi di fare?” mi forzo a dire.

“È André!” mi grida.

“Non è più André! Quello è un morto!” grido a mia volta e sento la disapprovazione dei compagni e la mia. Lo so che non è vero, ma non so che dire e che fare.

Mi fulmina con gli occhi. Mi inginocchio davanti a loro, non appena ho capito di aver sbagliato. Impazzirò anch’io.

“Oscar…” dico piano. Poso una mano sul braccio di André. In fondo neanche io mi rendo conto di quello che è successo. In fondo anch’io continuo a pensare che è uno sbaglio, che ci sta fregando tutti e che si sveglierà. Ma la mano è gelata e rigida. Il viso non ho la forza di guardarlo.

“Hai capito cosa intendo… vero?” le dico piano. Spero che non mi costringa a dire di più.

“Lo so…”. È ancora lei. “Ma io l’ho avuto sempre con me… eppure non l’ho avuto mai… sbagliavo… l’altra notte…” la voce si spezza e sbarra gli occhi sul viso completamente bagnato. “L’altra notte…” tenta di dire ancora.

“Non dire più niente” le chiedo. Lo faccio per lei.

“No!” insite. “Tutta la nostra vita poteva essere come l’altra notte! Tutta!”.

Devo tacere.

“È peggio del tradimento! Peggio del tradimento! Averlo ignorato!”. Le labbra pallide premute sulla guancia cerea di André in un bacio infantile.

Rimango lì davanti. A lei non importa che io sia lì o altrove.

 

Жuc0Жuc0Ж

 

In fondo sono ancora io. L'ho capito dopo un po' di volte che ombre lunghe e blu mi si sono avvicinate sotto il rosso sangue e i verdi violenti delle vetrate. Alain e gli altri li ho riconosciuti nel momento in cui anche l'illusione è scivolata via definitivamente. E non li ho più scambiati per i mostri che avevo creduto; quelli che parlavano, ma senza suono.

Il freddo continua a scavare dentro. Per tutto il tempo.

Non sarò ascoltata: né pazza né morta. Ci metterò troppo a morire: sei mesi sono un tempo infinito. Ormai. Stanotte erano troppo poco.

Stanotte, mentre la forma del mio corpo si imprimeva sulla terra, guardavo le stelle. Mi è stato chiaro, attimo dopo attimo che riprendevo coscienza, che brillava il risultato di un'esplosione, sparpagliata sulla nostra testa. Le stelle pulsavano ancora e, quando ho capito cos'era successo, ho stretto le braccia alle tue spalle e le gambe ai tuoi fianchi: come un gancio, con le dita che scivolavano sul sudore. Sarebbe potuto succedere mille volte negli anni passati, ma non era quella la cosa più importante. La cosa più importante era la cosa meno stupefacente: essere tornati uguali a ieri. Dopo anni riuscire a dirci le cose più semplici. Ti ho detto che mi piaceva sentirti sussurrare nel mio orecchio. Non lo facevi da tanto. Anche se non mi avevi mai detto quelle cose. E mi hai stretto la mano. Avevi quel sorriso che non vedevo da tanto. La tua mano era leggermente più scura della mia, nella mia. Un intreccio in cui alle mie dita si alternavano le tue. Un po' come i tasti del mio piano.

La guardo ora la tua mano nella mia e vado in pezzi, come le stelle. Ma non c'è nessuno splendore: solo buio, umido e freddo. Tu non mi rispondi. E io non ci credo.

Se ne va un alito e rimane una forma che non posso fare a meno di amare: perché tu mi hai portata ovunque.

"Comandante...".

E' ancora Alain. So cosa vuole. E prima o poi farò come dice lui, anche se non vorrei. Ancora, in fondo, sono io.

"Comandante... io credo che sia ora. Dammi ascolto...".

Ancora non voglio: lo capisco quando me lo chiede per l'ennesima volta. Lo guardo senza rispondere.

 

Anche le cose più belle non sono facili. Ma forse è stato bello per questo e se n'è andata per sempre la nebbia di un'idea: l'idea che non si debba amare come ho amato io.

Mi hai lasciato aprire gli occhi un'altra volta, Oscar. Prima di chiuderli.

C'è stato un istante in cui ho pensato che quello che vivevo fosse causa della botta in testa. Non per ironia, non fraintendere, ma per incredulità. Mi hai chiesto come stesse la ferita, preoccupata per due gocce di sangue. Ma due gocce di sangue perse, anche dieci, cento e mille, sono zero in confronto al sangue che resta e che, bollente, impazzisce, felice di non sapere che direzione prendere. Non ho mai creduto che veramente ti saresti stesa per terra ancora aggrappata alla mia bocca, che mi avresti succhiato labbra e lingua in quel modo, con gli occhi socchiusi, poi chiusi. Mi sono detto "Anche se fosse un sogno fingi che sia vita e non deluderla" e ti ho preso il viso fra le mani, ho giocato coi tuoi capelli fino a non capire più dov'ero; non ho più distinto il contorno delle mie labbra dal tuo: "Vedi che siamo fatti per incastrarci e completarci?" ti avrei voluto dire, ma non respiravo. Non ho più capito nemmeno quale sospiro fosse mio e quale tuo: avevano un'identica sfumatura ho pensato, mentre un gemito - mio? tuo? - spezzava il rilassamento.  "Non è più un bacio normale" è stata l'unica idea che mi è balenata, mentre ormai lottavo con la tua lingua. "Sei brava. Spingi a fondo e poi torni in superficie ed io così non capisco più nulla" ho pensato affondandoti ancora dentro dopo che hai seguito il contorno delle mie labbra.

Le idee mi sono tornate di botto quando ti ho sentito dire "No! Aspetta...". Mi sono bloccato, l'aria è tornata nei mie polmoni. E' tornato il mondo che avevo cancellato. La tua mano preoccupata sulla mia mano, che sotto la camicetta si è avventurata a stringere un seno. "Aspetta..." mi fai allarmata. Io respiro un attimo, ma stringo ancora e lascio scivolare il pollice. Tu mi blocchi, coprendo la mia mano con la tua e al suono della tua voce parlo nel tuo orecchio: "Lasciamelo fare... almeno una volta... li hai sempre nascosti in quelle giacche da uomo, ma solo qui sono veramente al sicuro". Mi guardi disorientata. Interrogativa.

"Ehm... scusa..." capitolo. "Scusa... sto pensando con una parte del corpo che non è la testa" confesso, a capo chino, reo di essermi spinto oltre, ma senza lasciare quello che è mio. Lasci andare indietro la testa sull'erba e finalmente ridi. Una risata che è come il suono di ciondoli d'argento e cristalli nel vento e nel sole di Arras. Un'immagine d'infanzia che torna nitida e colorata alla superficie, si allarga e invade tutto.

"Sei uno scemo..." mi dici, tornando a fissarmi, ma capisco cosa intendi. "Continua" mi dici. Cerco di sollevare la camicetta, ma queste operazioni non sono facili come sembrerebbe: faccio troppo di fretta e rischio di strappartela... tanto per cambiare. "Aspetta... sbrigati..." mi rispondi tu, che non devi avere le idee più chiare delle mie, portandomi le mani sui laccetti che chiudono la camicia... e che al momento mi sembrano un'enorme e intricata matassa.

"Un attimo..." ti chiedo, mentre i laccetti mi sgusciano fra le dita e il nodo rimane intatto, nonostante i miseri tentativi di far leva con le unghie. "Ti aiuto..." mi soccorri, ma la situazione peggiora e il nodo rimane lì fermo e indomito.

"Accidenti...". Scuoti il capo e oscilla una ciocca. "Ho il vizio di fare i nodi troppo stretti" fai mentre non facciamo altro che intralciarci le dita intorno al nodo.

"Avresti potuto fare carriera in marina".

"Accidenti...".

"Non ti innervosire. Sta' ferma... ci provo io, se no è peggio. Porca la miseria! Ma che c'hai nelle dita? Sembra saldato...".

La situazione è abbastanza comica. Tu ridi. Rido anch'io. Una risata lunga e trascinante, ti piego la testa sul petto e mi abbracci. E mi accarezzi. E sono carezze stupende che non hanno nulla di sensuale. Sto per chiederti se lo vuoi.

"Facciamo l'amore" mi dici senza preamboli. La mia camicia scivola via. Io i nodi li ho sempre fatti fin troppo lenti. Come quelli attorno al cuore. Le mani sul petto, sulla schiena... Quella camicia non l'avrai addosso per molto. Te la sfilo dal capo, senza molta attenzione.

"Ahia André..." protesti, sepolta dal cotone.

"Scusa... ma come cavolo devo fare?".

"Finisco io... Sta’ fermo..." fai liberandoti dal tuo involucro bianco. Avrei decisamente voluto offrirti qualcosa di più romantico...

"Vieni qui" mi fai con voce incerta, allargando le braccia. Supina sull'erba. Nuda e candida fino alla vita.

Una vertigine... Non proprio... Non devo bruciare tutto. Ma ti bacio ovunque e tu non mi fermi. Le mani ovunque e tu non mi fermi. Ti guardo di sottecchi - per quello che posso - fermo, con un capezzolo fra le labbra. Mi fermo perché hai uno sguardo strano.

"Cos'hai...?".

Sospiri.

"Ti piace...?". Sono un ingenuo, nudo e crudo. Non penso prima di parlare. Sono insicuro, ma sono sicuro di volere solo te, che però non rispondi e continui a guardarmi col capo sollevato dall'erba. E' preoccupante... Devo aver fatto qualcosa di sbagliato. Accenno ad allontanarmi.

"No... no... Che fai?!" chiedi allarmata e sento la tua mano leggera sulla nuca, quasi senza forza. "E' bellissimo... Sei bellissimo... non sai quanto... non sai quanto... sembravi un bambino...".

Un poppante...?

"Non in quel senso..." ti correggi, perché leggi nei miei pensieri. "Sei dolce... lo sei sempre stato..." tenti di dire, ma ho capito. Ti faccio segno che ho capito. Ho capito che cosa vuoi dire e non c'è bisogno che continui, altrimenti sì che somiglierò a un poppante. Ma a un poppante che piange!

Ogni indumento finisce sull'erba. E' scritto. Si sta colmando il vuoto. Il cielo avaro è pieno di stelle. Lo so perché me lo hai detto tu.

"Ci sono delle lucette nell'erba?" ti ho chiesto. Non mi fido molto di quello che mi è rimasto da vedere.

"Lucette?" Non c'è il tuo tono canzonatorio dei bei tempi. "Sono delle lucciole André". Hai una voce stupenda. L'ho pensato mille volte. Dolceamara e vicina mio orecchio ha una vibrazione nuova.

"Lucciole..." ripeto come un ebete. Me ne rendo conto e tu sorridi. Ho le tue mani che indugiano attorno alla vita e ti sento tremare.

"Che devo fare?" mi chiedi.

Buio assoluto.

"Quello che senti...". E le tue mani risalgono imbarazzate lungo la mia schiena. Rimaniamo fermi con la pretesa di pensare. Di riflettere. Di soppesare. Ma cosa?

Scosti le gambe, non molto decisa. Io non penso più.

"Piano... fa' piano..." dici sottovoce. Sento le tue dita che mi stringono un bicipite. "Non sono... abituata...". E' un modo contorto per dirmi una cosa che so bene.

Che cosa si dice in questi momenti? Io non lo so...

Enriette, la ragazza dell'osteria, quella che tanti anni fa mi diede dell'"angioletto" riderebbe, perché da allora non è cambiato quasi nulla. La tristezza e la frustrazione mi hanno solo un po' sporcato le ali. Ti accarezzo il ventre. La carezza scivola più in basso. Non mi fermi, ma ti contrai.

"Non tremare... guidami tu allora" ti chiedo.

"Va bene... sì...". Hai un'espressione bellissima. Poi però ti blocchi. "Lo devo prendere in mano?" mi chiedi all'improvviso ed io rimango allibito. L'imbarazzo mi cade in testa come un’incudine dal cielo.

"Mica morde...".

"No André... non è per quello... ti sei offeso? Ehi... André...".

Ma sono discorsi, questi, da fare in un momento del genere? Senza sangue nel cervello, senza fiato, nudi, sudati e avvinghiati?

"No... no... se vuoi fare l'amore prima o poi devi averci a che fare...".

"Non essere sciocco... è che è un po' cambiato...".

"Ma da quando scusa?!" Ora sì che cado dalle nuvole e non c'è ala che tenga il volo, angioletto o non angioletto!

"Da prima..."

"Tu che ne sai scusa????".

"Da prima... quando eravamo bambini a volte andavi col coso di fuori...".

"Ma che dici? Ma che ti inventi?...".

"A volte ti ho visto... non ti scandalizzare proprio ora".

No, non è il caso... anch'io ho sempre saputo bene, quanto sei diversa da me. E poi quando sento le tue dita, smetto di pensare. Finalmente smetto di pensare. Ti ringrazio di avermi fatto smettere di pensare.

"Chiudiamo questo discorso poco romantico..." mi sussurri stringendomi.

"Sì..." sospiro, poi ti sento rigida contro il mio corpo, con le braccia che si aggrappano salde alle mie spalle. Non ti ho detto parole romantiche, forse... ma non ho  potuto non dire nel tuo orecchio queste parole, mentre mi stringevi: "Ascolta... ascolta... ti amo. Ricordalo. Ricordalo sempre". Ho visto i tuoi lineamenti tesi e ho pensato a quanto sono forti e sicure le tue mani sulla mia schiena. "Sempre... voglio venirti dentro fino alla fine... la fine... darti piacere, guardarti e sapere che sono stato io... voglio il piacere dal tuo corpo... perché è tuo... ti voglio morire dentro... lo voglio da tanto... da tanto...".

Le avrebbe mai dette queste parole uno come me, secondo la vecchia Enriette?

Ti ho guardata. Eri fra le mie braccia, con me dentro, e con gli occhi chiusi pronunciavi il mio nome e mi imploravi di non fermarmi mai più.

Sono stato al sicuro anch'io finalmente: nel tuo sesso e fra le tue parole. Anche le più semplici, le più quotidiane, quelle che parlavano del nostro tempo insieme e anche quelle che parlavano del nostro tempo sprecato.

Anche se ora non sai che ti guardo e non ci credi.

Anche se credi di aver perso tutto e ignori la forza che ti scorre dentro.

Anche se faticherai a ritrovarmi, ma mi ritroverai.

 

"Comandante".

Lui insiste. Io non ho nulla da dire. Nulla da dare. Ho perso tutto. Perché ho smesso di credere sia nella morte che nella pazzia. Perché voglio rimanere qui ferma in eterno. Perché prima o poi l'incubo o la realtà, o quel che è, finiranno, finirò io, finirà questo. Penso. Non dico e guardo il tuo viso. E' diverso e  uguale e mi dico che ora potrei diventare pazza. Ma nessuno mi darà questa gioia, perché sono nata gridando  per avere solo il contrario di quello che desideravo e per non capire cosa desideravo.

"Lo dobbiamo portare via" dice un uomo che non conosco.

"Non ve lo chiederanno più il permesso, comandante" precisa Alain col viso che sembra un cencio. Non ce la faccio più a guardare i volti altrui. I lineamenti che amo sono svaniti per sempre. Che scopo ha guardare altri volti? Volti che non sorridano come te? Forse sto impazzendo finalmente... Ma ti guardo ancora una volta e mi si spacca il cuore: sono savia ma compromessa per sempre. Desidero quello che è folle desiderare, ma senza essere folle: ancora un volta un essere indefinito. E' questa la mia condanna? Non risponderà nessuno.

Fisso il sole sotto l'arco della porta della chiesa. E' basso. Il sole sta morendo e io non so che fare. Per la prima volta in vita mia il sole muore e io lo vorrei salvare.

Ti stringo un po' di più ed ho freddo. Il sole tramonta e ti amo. Una chiazza bianca sfarfalla di fronte al sole ma ti amo. A quest'ora gli uccelli vanno a dormire e ti amo.

Una colomba bianca è ferma su un cornicione. Il sole le muore dietro mentre si pulisce le ali. Mi guarda. Spiega le ali. Sono bianche e forti, anche se muore il sole. Le richiude e aspetta, anche se muore il sole non ha fretta di andare via.

Mi alzo in piedi. Me lo hanno tolto. Non ho potuto protestare perché non ho più parole da dire e perché le mie mani non hanno più la forza di stringere.

Le ali della colomba sono di nuovo tese. Sono pronte. Mi sembrano infinite come il bianco.

Ma ora so che fare. Esco dall'antro e so che tutti mi guardano, ma so dove andare.

La colomba è ancora una macchia bianca mentre l'ombra avanza, perché io sappia dove andare. Perché io sappia cosa fare. Vira nel cielo e la seguo con lo sguardo.

 

È un pensiero in un lampo.

“Non preoccuparti” dico e mi fermo un istante. “Vedrai che tornerò... subito” ti rassicuro.

E spero che capirai quello che intendo.

 

In un altro tempo ci salverà l’insania.

 

 

Postfazione

Per questo racconto germinato fra i miei pensieri in una notte di insonne calura invernale ci è voluto un anno, fra alti e bassi, taglia e cuci e voglia di tornare sui passi.

Che sia spezzato o compatto non importa; è mosaico che si è compiuto con l’ultima tessera: la parola insania.

L’ho sentito in corsa che era il prologo di De Insania.

 

Pubblicazione del sito Little Corner del febbraio 2005

Fine

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