Rumore d'ali
(De insania)
Parte VIII
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Una voce sottile, attraversata da mille sibili, sospesa nell’aria della strada, dietro le persiane serrate: “Qui Londra. I francesi parlano ai francesi… ecco alcuni messaggi privati: dalla civetta al merlo bianco, degli amici questa sera vi diranno che il caricatore ha solo venti proiettili…”
Le avevo sentite mille volte quelle frasi. Cosa c’era di diverso, da giorni, nel suono di quelle parole?
Dal bracciolo della poltrona scivolava fino a terra la benda bianca, sporca di sangue, che André aveva voluto togliersi dalla mano a tutti i costi, nonostante io lo pregassi di non sporcare la ferita.
Ripensai al segno rosso del proiettile che aveva segnato di striscio il dorso della mano, mentre mi aggrappavo alla sua schiena sudata e sentivo il suo respiro sul viso.
Risuonò nella mia mente l’eco di quel messaggio alla radio, perché dai maquisard del merlo bianco si era allontanato per ritornare da me ed al merlo bianco nei boschi ci saremmo uniti, ora che sentivamo scorrere la voglia di lotta come un fiume sotterraneo.
Scacciai quell’idea ed un gemito di piacere coprì il ricordo di quella voce, mentre lui continuava a muoversi lentamente e a fissarmi con le guance arrossate e le labbra umide. Pensai a seguire con la mente la scia calda che lasciavano sulla mia pelle le carezze della mano ferita. Mi faceva piangere quella mano. Era un regalo per me quella striscia di sangue. Era il segno di quella sua testardaggine che mi faceva vivere nella paura che si lasciasse ammazzare, pur di venirmi incontro.
Continuavo a guardarlo fra le ciglia che si socchiudevano nel piacere, mentre io volevo tenerle aperte. I miei occhi erano affamanti dei tratti del suo viso, di ogni contrazione dei lineamenti, e di quella sfumatura calda che affiorava dal fondo degli occhi.
“Se te ne vai… stavolta…ti ammazzo…” riuscii a dirgli con le parole smozzicate dal fiato che mi mancava e lo strinsi più forte con le gambe e le braccia, affondandogli le unghie nella pelle, per fargli capire che non stavo affatto scherzando.
“Uhm…” fu la poco convincente risposta che uscì dalla sua bocca prima di confondersi con la mia. Chiusi gli occhi. Ed il sangue diventava sempre più rovente nelle vene.
“Oscar…” gli sentii dire con la voce rotta.
Sentivo solo le nostre voci e brividi che bruciavano il corpo e la mente.
La sensazione improvvisa e violenta di poter aprire gli occhi e raccontare la nostra storia dimenticando chi in quell’intreccio di corpi fosse l’uomo e chi la donna.
Però lui si allontanò di nuovo con un grido soffocato che mi risuonò dentro, mentre improvvisamente mi sentivo vuota, e si appoggiò col capo fra i miei seni. E così aspettammo che il letto tornasse freddo per stringerci ancora.
“Mi ammazzerai?” mi chiese posando la sua fronte sulla mia e fissandomi.
“La prossima volta” gli dissi accennando un sorriso e poco convinta.
“Scusami… non sai quanto lo voglio… ma saremmo due incoscienti… così…”
“Sì, lo so. Lo so… Era solo che ti volevo” gli dissi scostandogli la ciocca scura che gli aveva coperto un occhio. “Non ci fare caso”.
“Anch’io… e se fai così rischio di non trattenermi…” e mi morse dolcemente il labbro inferiore.
Liste di luce si posavano attraverso le fessure delle persiane sul bianco delle lenzuola disfatte. Ci consumavamo le labbra le une contro le altre, senza respirare.
Poi si era disteso al mio fianco e aveva chiuso gli occhi, con quella ciocca che gli scivolava sul viso e che mi dava una strana angoscia. Avevo chiuso gli occhi anch’io e gli avevo posato il mento sulla fronte, accarezzandogli la pelle, così calda che mi sembrava avesse la febbre.
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Erano trascorsi tre giorni da quella sera.
Quella sera in cui il diluvio batteva forte sui tetti, come se disperatamente tentasse di purificare la città, lui si era spinto nella mia carne. Per raggiungere il posto che era sempre stato suo: lui è sempre stato dentro di me. Dentro e fuori dal letto. Quando piango e quando rido. Quando il giorno arriva e quando la notte lo spazza via. Che il cielo sia azzurro o di piombo. Che sia guerra o pace.
Ogni gesto mi era sembrato familiare. Ogni carezza. Ogni parola. Gli occhi commossi di fronte alla nudità, l’attesa del mitico dolore e la sua tenera incertezza nel muoversi fra i miei fianchi. Il timore e l’urgenza soffocanti, come se qualcosa dietro l’angolo avesse dovuto piombare di lì a poco a strapparci il cuore.
Intossicati ed in caduta libera, tentavamo di vendicarci del tempo che scorreva fuori dalla serratura, ma non nelle nostre mani, perché si fermava fra le nostre dita intrecciate.
Ogni sguardo in più fra noi era una vendetta.
Vendicarsi del tempo. Me lo aveva sussurrato in un orecchio André ed avevo sentito che era vero, anche se non capivo esattamente che cosa significasse. Ma era così e prima di lasciare Parigi dovevamo farlo finché non saremmo caduti svenuti e con le anime corrose da quell’intossicazione.
Vendicarsi del tempo. Come se il tempo crudele ci avesse fatto un torto.
“Ma il tempo non è crudele e non fa torti” mi aveva detto André, mentre le sue labbra mi percorrevano leggere il viso, risalendo verso gli zigomi, alla luce di una candela oramai troppo corta. “Il tempo non ha pietà, mia Oscar”.
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Per me non è mai stato facile parlare. Sognavo di dirgli “ti amo” con la sua naturalezza, ma temevo di non riuscirvi. Una naturalezza che mi sorprendeva e mi allagava il cuore di pace tutte le volte. E tutte le volte rimanevo senza parole, sperando che mi leggesse nello sguardo stupito quel che non dicevo per paura che non mi credesse.
Temevo che i miei occhi preoccupati e qualche lacrima di troppo avrebbero svilito quella frase.
È vero: è una frase che si può gemere nell’amore, ma così è troppo facile perché non ha lo stesso significato, rischia di rimanere un complesso di suoni leggeri. La mia mente era inchiodata a quelle parole e sapevo che quei suoni leggeri avevano invece il peso di mille sguardi e mille discorsi.
Ma
quella frase, che, ammessa in una lettera, ha reso il dolore dolce come
zucchero, mi deve liberare…
Stavo ascoltando il suo respiro leggero nel sonno e quando un movimento impercettibile del viso mi fece intuire che stava sognando, pregai che dietro le palpebre fossi io il suo unico pensiero. Io e nient’altro. Mentre dormiva, iniziai a prendermi il tempo necessario per realizzare il mio “delitto perfetto”: a definire come parlargli di un amore che mi toglieva le parole… e all’improvviso mi trovai un sorriso compiaciuto sulle labbra ed una gran necessità di impedire che si trasformasse in una risata. Fissai la sua bocca ed iniziai a meditare l’assalto con un’aria divertita che non riuscivo a scrollarmi di dosso… Ma no… il delitto prevedeva una strategia ben diversa, ben più raffinata, che avrebbe stupito il mio amato “Signor SoTuttoIo”…
“Ma dormo in un modo veramente tanto buffo?” mi chiese d’un tratto schiudendo un occhio.
Persa nelle mie congetture, non mi ero accorta che si era svegliato e finsi innocenza di fronte alla domanda improvvisa: “Cosa?” chiesi con la faccia più seria che potevo.
“Ridevi…” mi chiese, con un'occhiatina beffarda, stringendo con una mano l’ottone della spalliera mentre si stiracchiava.
“Hai visto male…” feci posandogli il capo sul petto per nascondermi.
“E secondo me stai continuando a ridere!” insinuò con voce sonnolenta, accarezzandomi il capo.
Allora, con il viso serissimo, feci in modo di guardarlo negli occhi.
“Che cosa nascondi?” mi fece, posandomi un bacio sulla fronte.
“Niente…” sussurrai accarezzandogli il petto, sperando che così non continuasse l’indagine. Infatti, richiuse gli occhi e gli sfuggì un sospiro, mentre la mia bocca percorreva sempre più insistente la sua pelle. Sentii la sua mano intrecciarsi fra i miei capelli annodati. Pensai a quanto lo amavo ma non glielo dissi, mi feci solo più spudorata. A suo tempo il delitto…
Il fonografo da casa della Du Barry macinava stanco “La Traviata”, che ci giungeva sommessa e filtrata dalle persiane chiuse. Delle piccole strisce di luce si posavano sulla pelle ed illuminarono la cicatrice bianca che aveva al centro del petto. La coprii con le dita e, dopo giorni che non avevo osato, sollevai il capo e gli chiesi sottovoce, come se vedessi la ferita viva: “André… quando te la sei fatta questa brutta cicatrice? È stata una scheggia quando sei caduto con l’aereo nel ’41?”.
“Quella?” fece posando sopra la mia mano la sua. “No. Quella no. Non mi ricordo veramente… forse è sempre stata là… o è di quando ero molto piccolo… è sempre stata là…”
“Tu non mi dici la verità…” risposi sconfortata.
“Ma perché?”
“Perché sembra una pallottola e da piccolo non puoi esserti preso una pallottola in petto!”
“Che ne sai… forse con i miei amichetti giocavamo a tiro al bersaglio… AHIA!” Si era guadagnato un pizzicotto sul braccio.
“Mi prendi anche in giro…” mormorai facendo l’offesa. “Perché non vuoi dirmelo?”
“Non è che non voglio dirtelo… Non mi ricordo davvero, Oscar... davvero… So solo che è sempre stata là, come ora tu sei qui”.
Rinunciai ad insistere. Gli posai di nuovo il capo sul petto, lui mi circondò con le braccia e rimanemmo in silenzio fra le lamelle di luce e strappi di musica lirica.
Dietro
le persiane la puntina del fonografo ritornò nella sua carreggiata ed una voce
di donna infranse l’aria con un malinconico “Amami Alfredo…”
Nell’aria solo la musica.
André all’improvviso si spostò e mi trovai stesa sul letto con il suo peso addosso. Mi guardava negli occhi in una modo che non mi sembrava vero. Guardava dentro, al di là. Più mi guardava così, più trovavo impossibile contenere la felicità.
“Che c’è?” gli chiesi.
“Amami Oscar!” mi disse e mi baciò con passione.
Glielo avrei detto… sì glielo avrei detto e lo avremmo fatto di nuovo, perché sentivo che moriva dalla voglia, e lo strinsi forte mentre il bacio diventava sempre più profondo e sensuale.
Il piano per il “delitto” saltava, ma l’importante era dirglielo…
TOC TOC!
“Cos’è?”.
“Bussano…”
TOC TOC TOC!!
“No… non aprire! Lascia bussare… io ho un altro programma… solo per due!” disse con le labbra incollate alle mie.
TOC TOC TOC TOC!!!
“OSCAR APRITE! SONO IO!”
Era Rosalie.
“Non aprire…” disse ridendo André, che tentava di persuadermi al suo programma.
“OSCAR! NON DOVETE CHIUDERVI IN CASA VI FA MALE! VI DEPRIMERETE!”
Così scappava da ridere anche a me. Con Rosalie che petulava dietro la porta. André si accasciò sul cuscino e, sconfortato, commentò: “Puoi anche aprire… tanto ora mi sono deconcentrato…”
Mi allacciai di malavoglia la vestaglia e, prima di dirigermi verso la porta, scossi la testa nel guardare André supino con il braccio piegato e l’avambraccio che gli copriva gli occhi.
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“Ciao Rosalie. Che succede?”.
“Oscar… va tutto bene?”
“Certo”.
“Stavate dormendo a quest’ora?”
“Hm sì… Ho dovuto scrivere tre articoli stanotte… erano urgenti…”
Sì…Articoli…
“Non vi vedo da tre giorni… non dovreste rintanarvi in casa, vi fa male sapete?! Non vi riprenderete mai… Guardate che brutta cera avete! E come al solito non avrete mangiato nulla e questa casa sarà un disastro… Coraggio, vi aiuto io a riordinare!” fece spingendo la porta.
“No… no… Rosalie è davvero molto, molto in disordine… C’è un macello… non voglio che tu veda il macello che c’è, non è giusto che te ne occupi tu… farò da sola ed ho già mangiato davvero!” risposi nel panico, appoggiando tutto il mio peso sull’anta della porta.
“Non fate complimenti Oscar, non è il caso. A cosa servono le amiche, altrimenti?” rispose, piantando il piede in modo che non chiudessi la porta.
“Rosalie… non è il caso che ti preoccupi… davvero… sto bene…”
“Storie!” fece lei. Spalancò la porta e si fiondò in salotto con delle vettovaglie sotto il braccio. La seguii, al limite della disperazione, tentando di mantenere chiusa la vestaglia.
C’era la porta della camera da letto aperta ed era lungo il tragitto… Per fortuna non le venne in mente di buttare l’occhio là dentro, prima di iniziare a frugare e spostare le cose in salotto. Lo feci io, nel correrle appresso, giusto per cogliere l’immagine di André che si era seppellito sotto le coperte fino alla testa. Sperava di mimetizzarsi? A distanza di anni la risposta è sì. Ed è convinto che Rosalie allora non lo avesse visto per via quell’ardita trovata.
Accostai la porta, prima di sgattaiolarle dietro di corsa. Mi andava bene che rovistasse in salotto: l’importante era che non varcasse la porta della camera da letto!
Iniziò a spolverare e a riassettare dappertutto, raccontandomi le storie delle persone che andava ad aiutare. Mi disse che Sua Maestà aveva chiesto di me; che al cinema avrebbero proiettato un film di Chaplin che faceva il verso a Hitler; che c’erano stati dei disordini; degli uomini erano stati uccisi; avevano scovato una tipografia clandestina e l’avevano bruciata; era stato bruciato anche chi era rimasto dentro; le spuntò una lacrima pensando a Jeanne, quando mi raccontò che aveva portato i fiori al cimitero; continuò a piangere perché non era importato nulla a nessuno che sua sorella fosse morta così; disse che le mancava Bernard, che sarebbe stato via ancora per un po’ e che lei non poteva raggiungerlo. Lui le scriveva firmandosi con un nome falso, perché non intercettassero le sue missive. Voleva raggiungerlo, ma non poteva allontanarsi da Parigi. Ogni tanto la madre ed il padre di Bernard andavano a trovarla e le tenevano compagnia, anzi si sarebbe trasferita a casa loro per qualche tempo, perché lei si sentiva così triste che tutte le mattine vomitava l’anima, anche se la sera prima non aveva mangiato nulla.
Capii che era molto sola e mi fece una grande tenerezza. Avrei voluto abbracciarla, dirle che capivo quel che provava e che avrebbe sempre potuto contare su di me, ma non lo feci, perché ero a disagio, mezza nuda in salotto e con André nel letto della camera accanto.
Poi si asciugò, furtiva, con l’indice una lacrima e fece un sorriso, come per dimenticare le angosce di cui mi aveva raccontato.
Ritornò iperattiva, impugnando la scopa come uno scettro, e sentenziò che bisognava pulire nella camera da letto, perché la polvere che si accumula sotto il letto, le aveva detto il suo Bernard che leggeva le riviste scientifiche, fa tanti ragnetti che si chiamano acari e che fanno una cacchina che ci fa diventare tutti allergici e forse era per questo che lei tutte le volte che entrava in camera mia starnutiva…
“NO!… IN CAMERA DA LETTO NO, C’È TROPPO DISORDINE! SE VUOI PULISCI NELL’INGRESSO, OVUNQUE, MA IN CAMERA DA LETTO NO…”
Dopo averlo detto mi resi conto di aver alzato la voce e di aver anche sbarrato gli occhi. Cercai così di assumere un atteggiamento più tranquillo, ma non sapevo che dire vedendola armata e pronta allo sterminio della stirpe degli acari.
“Ma Oscar, siete sempre così ordinata… devo togliere solo un po’ di polvere, voi non la togliete mai, farò presto…”
“Rosalie…no, per favore… hai tanto da fare… pulisco io appena te ne vai…”
“Ma è un piacere!” fece lei, invasata dalla dea della pulizia, spalancando la porta della camera da letto e cogliendo sul fatto André che, a torso nudo, si chiudeva i pantaloni e beccato così non poté fare a meno di esclamare: “Miseria…!”
Mi cadde la faccia a terra. L’imbarazzo più atroce e bruciante della mia vita. Non so quanto sangue mi affiorò alle guance. Di sicuro diversi litri.
“Ehm… ehm… ecco… Scusa André!” balbettò lei.
Imbarazzata, mi guardava con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, senza sapere che dire, ferma sulla soglia con la scopa in mano. Mi passai una mano sugli occhi e sulle guance bollenti. André si era infilato alla meno peggio la camicia e, non granché a suo agio, mormorò: “Ehm figurati…”
“Uhm… ehm… ecco…” farfugliò lei, cercando un modo per finire la frase, “Tieni” mi fece nella confusione più totale, “Scopa tu” concluse, porgendomi l’oggetto.
Io arrossi ancora di più.
“CIOE’ NO!…Sì… Va beh… ho dimenticato il pranzo sul fuoco… devo andare!”
Lasciò cadere sonoramente la scopa sul pavimento e sparì, chiudendosi dietro la porta e chiosando il tutto con un flebile “Oh mamma che figura!”
Nascosi definitivamente il viso fra le mani.
André la prese con più filosofia; mi abbracciò e mi stampò un bacio divertito sulla guancia.
“Le stavamo facendo venire un infarto… Stiamo attenti, la ragazza è incinta…”
“Come?” sussultai io.
“Non lo sapevi?” fece lui interdetto.
“No… Bernard?!”
“Sì… E’ per questo che non ha voluto che venisse con noi e l’ha lasciata a Parigi con i suoi genitori. Credevo che te lo avesse detto…”
“No… non lo sapevo, ma avrei dovuto immaginarlo. Sei tu quello che sa sempre i fatti di tutti!” chiusi il discorso, sospirando in quell’abbraccio e pensando con dolcezza che per me Rosalie sarebbe sempre stata una bambina. E che Bernard era sempre un deficiente irresponsabile e che cavolo di senso aveva ingravidare una ragazza e darsi alla macchia? Quella storia non mi aveva mai convinta. Se la sarebbe vista con me al più presto.
Sollevai lo sguardo verso viso di André, senza un motivo preciso, pensando ai boschi verso cui avevamo deciso di fuggire con le armi in pugno. Pensai che Hitler avrebbe dormito tranquillo lo stesso. Pensai che noi non avremmo dormito tranquilli neanche una notte in più, se fossimo rimasti a Parigi. Che il sud era lontano e che ci aspettava, perché è un conto se a schiacciarti la testa sotto il tacco è uno straniero, un altro se è un francese. Vuol dire che la speranza non è che un simulacro vuoto. Ed a Vichy, nel sud, dove quel pazzo di André non era ricercato, i francesi schiacciavano altri francesi, in nome della Francia e per conto del nemico. Erano lì le foreste del merlo bianco. Ed il viaggio era lungo e in mezzo c’era anche una frontiera, che aveva cancellato quel che in passato era stato fatto perché i francesi fossero uguali. E noi non lo accettavamo. Forse saremo morti insieme lì o lungo il tragitto. Ma saremo morti fra qualche giorno. Rimanere a Parigi significava essere già morti da tempo.
“Ehi!” mi riscosse André e mi fermò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“A cosa pensi? Sei preoccupata?”
“No”. Poi con un sospiro aggiunsi “Un po’”.
“Quando mediti sei ancora più bella”.
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“Che ne dici? Va meglio così?” disse André, passandosi una mano sul viso e socchiudendo la porta della camera.
“Sì… sei molto più bello così…” gli risposi, tendendogli la mano da sotto le coperte, perché si avvicinasse.
Uno sguardo verde con sfumature di perplessità accolse quella mia affermazione; gli sfuggì un sorriso incredulo dalla piega delle labbra, che insinuavano in silenzio “Piccola, ma mi prendi in giro?” È incredibile quel tipo di imbarazzo in un adulto. È incredibile e magnifico, perché svela il potere di chi non si prende mai sul serio.
Forse c’erano uomini con lineamenti più perfetti, più appariscenti e delicati come statue di marmo… come quelle statue che rimangono fredde sullo sfondo dei bassorilievi; ma in loro mancava qualcosa… in loro mancava proprio tutto. Mancava quella scintilla fuggevole che attraversa lo sguardo di André per spegnersi in un sorriso o nel chinarsi lento delle palpebre che è come una carezza a distanza. Quella scintilla che mi tiene incollata ai suoi occhi con la smania di ripescarla ancora, mentre corre via per riapparire all’improvviso. Dal primo istante lo avevo trovato irrimediabilmente bello; di una bellezza che non rimane statica a lasciarsi contemplare nel taglio dell’occhio o nell’ondulatura del capello, ma che ti disorienta con le parole che modulate da quella voce sembra ti svelino il loro significato, con il saettare di uno sguardo, con un gesto che ti aspetteresti, ma che nella sua semplicità ti stupisce.
Mi strinse la mano sedendosi sul letto. Mentre sentivo flettersi lentamente il materasso sotto il suo peso, tesi le braccia perché mi stringesse.
Lasciai scivolare le dita sulla stoffa della camicia tesa sulle spalle e il contatto della sua guancia sbarbata sul mio viso mi fece rabbrividire e cogliere la scintilla nei suoi occhi. Lasciai il mio viso premere sul suo, un po’ come fanno i mici per farti capire che tu sei loro.
“Che c’è?” mi fece, intuendo che elucubravo qualcosa.
“Uhm… nulla! Dove hai trovato il rasoio?”
“Me lo ha prestato un tal Luigi, … il tipo che abita nell’appartamento di fronte al bagno. Ho iniziato a chiacchierarci mentre facevamo la fila”.
Corrugai un attimo la fronte, mentre la mia mano scivolava sulle guance rasate di fresco.
“Hai capito chi intendo? Un tipo robusto, gentile…”
“Ah sì… te l’ha prestato il fabbro… Luigi dell’interno 16, quello che abita al terzo piano?”
“Sì… anche il sapone e il dopobarba”.
“Eh… sei riuscito a sapere tutti i fatti suoi scommetto…” sottolineai, prendendolo affettuosamente in giro.
André scoppiò a ridere e nascose il viso lungo la curva del mio collo.
“Se vuoi sapere qualcosa in particolare, sono pronto ad entrare in azione!” mormorò con le labbra vicine al mio orecchio.
Oltre le persiane splendeva il sole. Nel cielo un rumore d’aerei che toglieva il fiato e cancellava i pensieri con la solita domanda: “Chissà dove vanno?”.
Era sempre troppo lontano. Era sempre troppo vicino.
“Ti piaceva volare André?”.
“No… lo facevo perché dovevo. Volare per un militare non significava più andare per il cielo”.
Sempre
troppo vicino. E troppo lontano.
Tante
cose sono vicine e lontane allo stesso tempo, in modo diverso…
“Domani… prima di partire… prima di andarcene da qui… vorrei passare da casa tua…” Lui sollevò il viso per guardarmi negli occhi. “Voglio chiederti una cosa…” aggiunsi.
“Che cosa?” tentando di allentare il lenzuolo che tenevo fermo sul petto. Gli bloccai la mano.
“Lo so che non dovremmo portarci dietro nulla di inutile… ma vorrei il tuo candeliere… quello che non abbiamo mai restaurato… quello con l’uomo e la donna di spalle…”.
Rimase sorpreso dalla richiesta. Non aveva una motivazione logica. Non poteva essere spiegata. Ed io mi ero intrappolata in una cosa che non riuscivo a spiegare. Come sempre da qualche tempo. Lui però non mi chiese nulla.
“Va bene… Va bene… se ti piace tanto te lo regalo… In fondo è anche un oggetto contundente, può farci comodo!”
“Tu scherzi sempre!”, gli dissi fingendomi spazientita e spostandomi in modo che lui si ritrovasse supino di fianco a me.
“Che forza!” commentò, rotolando divertito dall’altra parte. “Acc… ma che c’è qua?!” fece sfilandosi una busta da sotto il capo. “Stai diventando disordinata… ha ragione Rosalie! Pezzi di carta nel letto…” Continuò a fare lo spiritoso. Io lo guardavo seria, stesa su un fianco mi reggevo il capo con una mano e con l’altra fingevo di fermare il lenzuolo sul petto, mentre in realtà quella mano era là per far sì che il cuore impazzito non scappasse via.
André mi fissava con la lettera stretta fra pollice e indice, con aria sospettosa, come se avesse paura che quella lettera non dicesse niente di buono. Erano le parole che avevo scritto quel giorno, nell’ammettere il mio amore e nel ringraziare il cielo che, pur avendolo perso, la trama inconsistente della mia vita avesse acquisito un senso. Anche se aveva il sapore di una ferita aperta. Come tutte le cose che non possono finire, perché qualcuno ha tentato di ignorare che siano iniziate.
“Leggila… è una cosa che volevo dirti mentre eri via”.
Si mise a sedere sul letto, volgendomi la schiena, in modo che i raggi, filtrando dalle persiane, illuminassero il foglio.
Mi sembrò che ci mettesse troppo a leggere quelle poche righe. Io stavo morendo di paura. Gli posai una mano sulla schiena. Con la bocca iniziai a tormentarmi l’unghia dell’indice. Nel cielo non c’era più nessun rumore. Avrei pregato perché la Du Barry spezzasse quel silenzio con un colpo di fonografo o con una vibrazione di onde radio ad alto volume. Ma solo silenzio.
Mi sembrò che lui chinasse il capo e di scatto saltai su, in ginocchio, e lo strinsi forte da dietro, come avrei voluto fare il primo giorno che venne a casa mia, mentre osservando il quadro del salotto mi dava le spalle.
“André…”
Appoggiai la mia guancia contro la sua. Rimanemmo così per un po’, poi sentii che si voltava cingendomi la vita col braccio e i suoi occhi furono di fronte ai miei.
“È vero… ti amo… non riuscivo... avevo paura di ammetterlo…”
“Ma io lo sapevo…” e sentii le sue labbra sulle mie. “Lo sapevo… da tanto… non immagini da quanto…” Forse avrebbe voluto parlarmi ancora, ma non ce la faceva e quello che voleva dirmi diventò un sospiro e una lacrima che intrappolata fra le ciglia non si decideva a morire.
“Mi pensavi così?” riuscì a dire, accennando col capo al foglio di carta che teneva stretto in pugno.
Riuscii solo a stringerlo di più.
ЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖ
Ecco…
di nuovo. Hai bruciato il caffè. Adesso sa di pietra focaia e scivola nero giù
per il tubo del lavandino. Distratta e incantata da quali pensieri di grazia?
Mi
appoggio allo stipite della porta con le mani in tasca e medito se dipingermi
sul viso l’espressione più adatta a comunicarti in silenzio “Caffè
carbonizzato”, ma non lo faccio, perché sei là con il violino sotto il
mento, l’archetto a mezz’aria e mi sfidi a capire. Allora non dico nulla,
non m’importa molto del caffè, mi sveglierà il corso dei tuoi pensieri che
si accavallano inquieti.
L’archetto
sfiora le corde e l’aria si piega sotto le note. Adesso so a cosa stai
pensando, perché non lo posso dimenticare e l’ho rivisto nella mente tante
volte come un film.
Mentre
il roseto ti ascolta immobile nel sole del mattino, abbassi lo sguardo e le dita
si muovono agili lungo le corde. Il tuo ritratto è in fondo alla parete, e sei
così, come ti hanno sempre vista i miei occhi.
So
a cosa stai pensando. Lo so dalla musica che suoni. E lo so perché non si può
dimenticare, e la mia memoria si rifiuta di omettere il minimo particolare.
C’era
all’improvviso quella musica, la solita Lili Marlene sommessa e triste, ma noi
non eravamo tristi. Avrei voluto dirti tante cose, ma non dissi molto. Aspettavo
che finisse la musica e mi mancava il respiro con te mezza nuda fra le braccia,
che mi dicevi che mi amavi e mi sembrava un miracolo sentirlo dalla tua voce,
invece di dovertelo leggere dentro, fra l’abbozzo di un sorriso ed uno sguardo
non distolto in tempo.
E
rivedo, come se fosse ora, il tuo viso fra le mie mani ed il bianco della tua
pelle che nella penombra mi brucia gli occhi.
Taccio
il pensiero folle che mi sia stata concessa una seconda possibilità di
proteggerti senza fallire, mentre là fuori la tempesta strappa le anime agli
uomini e il marrone della terra si confonde con il rosso del sangue. Ed ho paura
che sia tutto uguale a come era allora… e che forse qui mancano solo le
lucciole e tu non lo immagini. Taccio, perché per noi è impossibile stare al
mondo senza giocarci la vita, e perché siamo tornati più incoscienti di
prima… però ora non importa… non importa… perché mi stringi fra le
gambe, ti inarchi contro il mio corpo e mi chiedi di sbrigarmi ed io ho un
bisogno disperato di nascondere il mio terrore dentro di te… anche se ti
chiedo ancora… ancora di gridare il mio nome in quel modo! Mi dimentico del
tempo spietato nel sentire la tua voce straziata dal piacere; ma, quando ti
ascolterò suonare con le dita bianche e dolci il violino, il tempo scorrerà più
docile fra le note, e mi renderò conto che esiste ancora e non fa sempre male.
Gridalo…così…
come hai fatto la prima volta su questo letto con gli occhi accesi e le guance
arrossate…dopo che mi hai sussurrato che avevi paura gridavi il mio nome…
così come lo hai gridato la prima volta alla luce fioca delle lucciole, fra gli
alberi, sotto il cielo stellato, mentre guidavi la mia mano e mi veniva da
piangere, perché, anche senza quasi più vedere nulla, sentivo che quel corpo,
oramai troppo magro che mi reclamava, nascondeva i segni di una malattia lenta e
inesorabile.
Ma
non serve che tu lo sappia, perché fa solo male aprire la finestra sul passato.
A volte il ricordo è più atroce del vissuto, quando splende alla luce dei
rimpianti, nell’eco dei rimorsi. Per questo è necessario che mi nasconda
dentro di te finché ne ho la forza, per scacciare questo dolore che mi porto
dietro da quando nel rogo dell’aereo abbattuto e nel letto di ferito ho capito
tutto. Ed è stata chiara anche quella cicatrice che mi porto sul petto da
sempre e che tu baci per farla sparire. Per mandare via il dolore e mandare via
la paura di sbagliare ancora. Perché ogni movimento dei tuoi fianchi, perché
ogni movimento languido della tua lingua nella mia bocca, sulle mie labbra,
sulla mia pelle, il capezzolo duro nella mia mano, il sudore che imperla la tua
pelle e i tuoi capelli nel ritmo che ci costringiamo a seguire, ognuna delle carezze
delle tue dita che diventano sempre più audaci spinte dalla mia mano, ogni
suono che esce dalle labbra su cui disperatamente premo le mie scaccia via il
peso di quello che mi rifiuto di svelarti.
Posso
condividere con te la paura del futuro incerto che ci prepariamo ad affrontare,
ma non gli incubi del passato. So che da quando ci siamo ritrovati ti
ghermiscono all’improvviso di notte o si insinuano fra le immagini del giorno,
me ne sono accorto da quel giorno nella bottega di Arval. Sia o no di Cagliostro,
tu pretenderai quel libro. Ovunque esso sia. E, anche se una parte di me sarebbe
felice di condividere con te quello che è stato un tempo, non voglio che tu
ricordi completamente, perché così il tuo tormento non avrebbe fine. E ti
chiedo di non insistere, almeno non ora. Non ancora.
Ed
in cambio puoi anche smettere di gridare il mio nome, se come adesso ti ostini a
chiamarmi Amore.
Adesso
le tue dita riaccordano il violino ed hai tutta l’aria di volerti lanciare con
il tuo solito Mozart suonato alla Beethoven… ed io quelle dita le vorrei su di
me… ma suonano al citofono ed è Rosalie, ne sono convinto… citofonata in
codice: corto corto lungo… Senti… sorbiscitela tu… io sono un po’
sconvolto, chissà che m’è preso… avevo in mente di fare altro… è un
teorema: Rosalie suona sempre in certi momenti… vado a prepararmi il caffè
Oscar, perché quello che hai fatto tu sembrava
vulcanizzato.
Continua...
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