Rumore d'ali
(De insania)
Parte VII
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E così ho ricominciato ad entrare e ad uscire dagli abiti come un fantasma, mentre il sole sale e scende lungo un cielo di cartone. Com’è stato fino al giorno prima che tu arrivassi.
L’altra
notte sono riuscita a sognare.
Ho
sognato di correre nella notte su un cavallo bianco che quasi non toccava terra.
Poi è stato come alzarsi in volo sul baluginio dei lampioni di Parigi e su
boscaglie buie. Ho attraversato come un vento leggero i rami dalle foglie
bagnate d’umido, che strisciavano sul mio viso, sotto la luce di una luna di
formaggio. E poi ho planato verso il basso fendendo il buio teso fra i tronchi
degli alberi ed ho visto, disegnato da una luce fosforescente, il tuo profilo
dalla bocca imbronciata.
“Io
sono la tua ombra”. Sì. Bell’ombra bugiarda!
“Bla bla bla… hum… hum… poffarbacco!” mugugna azzerato nel suo letto d’ospedale Victor, mentre dovrebbe leggere in silenzio un articolo e lascia penzolare il braccio con la penna verso il pavimento.
Io continuo a dargli le spalle ed a guardare fuori, come se riuscissi davvero a vedere ancora quello che sta fuori dalla mia testa.
L’ho presa e l’ho bruciata. Ed ho sperato che le faville che volavano verso l’alto mi alleggerissero di non so cosa. Ma lo straccio nero è rimasto tetro nel camino e l’ho sollevato verso l’alto infilzato dall’attizzatoio, come se fosse un pezzo d’inferno. Se ci fossi stato tu, mi avresti detto che una cosa del genere non brucia, ho pensato, mentre lo brandivo davanti alla finestra spalancata per far uscire il fumo che non passa più attraverso la canna del camino otturato della camera da letto. Ho visto che dalla finestra di fronte la Du Barry, con le tette scoppianti dalla scollatura e sudata come sempre, mi guardava sospettosa col secchio dell’acqua sporca in bilico sulla ringhiera del balcone. Con lo spiedo in mano le ho sbattuto in faccia gli scuri della finestra.
“Hm…” riflette Victor ciucciandosi la parte superiore della penna con gli occhi fissi sui fogli. Ha imbrattato d’inchiostro le lenzuola, ma non mi va di farglielo notare.
A volte credo di averti solo sognato. A volte credo che tu non sia mai esistito. È preferibile questo al pensare che mi hai lasciata senza dire una sola parola.
Ve ne siete andati tutti senza dirmi un accidente. Come se fossi l’ultima ruota del carro o non meritassi il vostro rispetto. Mi chiamavate “comandante” non per scherzo, ma per scherno allora. Ecco l’ho capito.
Da
Alain non c’è nessuno. Lui e Diane sono partiti all’improvviso per fra
visita a dei parenti, almeno questo hanno detto i vicini.
Bernard
è fuori città e tornerà fra un po’ di tempo, nulla di preciso. Me lo ha
detto in modo molto vago Rosalie, che era preoccupata per me perché mi vedeva
strana e non ne capiva il motivo fino a ieri.
Victor abbandona un attimo i fogli e parla con un infermiere che gli adagia sulle ginocchia un vassoio con una ciotola di brodaglia che dovrebbe essere il pranzo. Nei viali del giardino cammina, appoggiato a una stampella, un uomo senza una gamba.
Ieri Rosalie mi ha trascinata a tutti i costi al cinema. Era un evento il fatto che proiettassero. I cinema sono ormai chiusi: la gente non ha il pane e non paga per vedere uomini e donne di celluloide. Rosalie conosce il proprietario che, per un giorno, ha deciso di proiettare gratis un film di qualche anno fa, per distrarre la gente delle brutture.
Prima dei titoli di coda mi sono alzata di scatto, lasciando stridere la sedia sul pavimento con quel rumore acuto che sembra uno spillo che s’infila sotto la nuca. Un coro di “aahh!” di uomini e donne con le teste bucate dagli spilli si è mischiato alla solenne musica di chiusura ed ho lasciato svolazzare alle mie spalle la tenda dell’uscita.
Francamente
me ne infischio le ha detto alla fine, ed è andato via lasciandola sulla porta,
con la musica che incalzava. Nella sala qualcuno esclamava “Rossella muori,
stronza! Così impari!”. Mi ha dato fastidio, perché è stato come se lo
dicessero a me.
Ma
con tutti i dannati film che hanno proiettato dai fratelli Lumière fino al
corrente marzo 1944, proprio questo dovevi farmi vedere Rosalie?!
Ho camminato pestando i mattoni dei marciapiedi fino a casa, con lei che non la smetteva di chiedermi scusa perché aveva capito. Ha tenuto il ritmo del mio passo allungando i suoi e non l’ho lasciata chiedere.
“Allora…” fece Victor, passandosi la mano sulla fronte.
“Allora?”
“Ecco… se vuoi pubblicarlo, pubblicalo. È un buon promemoria degli eventi culturali di questo mese…”
“Lo pubblico giusto per fare qualcosa. Per non rubare uno stipendio che non mi è nemmeno pagato. Alla gente non importa degli eventi culturali”.
Victor se ne stava zitto, confuso dai miei sillogismi, aspettandosi che ricominciassi ad affondargli il coltello nella piaga con le mie solite discussioni.
“Va bene… ti saluto. Ora me ne vado” conclusi.
“Non hai nient’altro da dire?”
“Sì” aggiunsi, abbandonando la maniglia della porta, e riavvicinandomi al letto. “Voglio informarti che ormai so tutto” gli dissi a bassa voce, con aria che non poteva essere equivocata.
Sbarrò gli occhi e mi puntò l’indice ingessato contro.
“E come lo sai?” chiese allarmato.
“Ho frugato”.
“Io ti denuncio!”
“Sì… e cosa racconti? Che quella roba è cresciuta nel tuo scaffale come l’erba nei campi?”
Abbassò il dito ed abbandonò la testa sul cuscino con gli occhi chiusi.
“Senti… ma ci sei riuscito?” domandai, approfittando della sua rilassatezza.
“Solo con alcuni… alcuni certificati erano venuti male… altri non ho fatto in tempo a consegnarli, perché sono finito qui… ed è tardi ora…” spiegò senza voce, muovendo le labbra e basta.
Chinai il capo, in piedi con le mani in tasca.
“Chi è stato a ridurti così? Devi dimmelo. Non lasciare che venga insabbiato tutto!”
“Non lo so” mi rispose, girandosi dall’altra parte e trascinandosi dietro le coperte.
“Mi credi stupida?”
Nessuna risposta. Incalzai: “È il caso che tu la smetta con questi stupidi dispetti”.
“Non è un dispetto questo… quello che ti ho fatto da Arval era un dispetto!”
“E perché?”
“Per colpa dell’ulcera che mi hanno fatto venire le discussioni con te!”
“Hai dei motivi ben più validi per farti venire l’ulcera… caro mio! E poi credevo sapessi bene come la pensavo… e che ti avrei aiutato se lo avessi saputo. Mi sembrava chiaro che potessi fidarti di me… ma no… hai voluto fare da solo”.
Temporeggiai un po’ prima di chiedergli: “Ora dov’è quel libro? Vorrei vederlo”.
“Non c’è l’ho più. Era un regalo”.
“Per la tua donna? Dov’è ora?”
“Non voglio parlarne” mi rispose, sempre rimanendo di schiena.
“Va bene, tanto devo andarmene! Riguardati” precisai, aprendo la porta. “Comunque, a dispetto di tutto quello che credevo, tu potresti essere uno dei trentasei giusti… te lo devo” aggiunsi, sotterrando l’ascia di guerra.
“Hm… narra una leggenda del Talmud che, in qualsiasi momento della storia, ci sono sempre Trentasei giusti al mondo. Sono nati giusti, non possono ammettere l'ingiustizia. E' per amor loro che Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi sono e meno che meno lo sanno loro stessi. Ma sanno riconoscere le sofferenze degli altri e se le prendono sulle spalle. Ecco… mi sembra proprio che ti sbagli… è andato tutto male… non posso essere un giusto. E forse trentasei sono troppo pochi…”
Feci un passo fuori dalla stanza con la maniglia stretta in mano.
“Chi era il tipo che era con te da Arval? Aveva un viso conosciuto” chiese all’improvviso, ruotandosi leggermente sul fianco.
“Non voglio parlarne” dissi chiudendomi la porta alle spalle nel corridoio.
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Dall’ultima sera a casa tua mi scopro più volte a desiderare di cambiare i guai generati dal tempo portando indietro le lancette di un orologio. Peccato che girino sempre in senso antiorario in un vuoto che non si colma.
Non
ti ho lasciato parlare. No. Non è stato il tempo. Ed avevo bisogno delle parole
che avevo paura di sentirti dire. Ma tu non lo hai nemmeno sospettato, quando
hai deciso di scendere queste scale per sparire.
Il
cielo sta per ridiventare buio e spero che mi non mi regali neanche un po’ di
pace. Confido in un sonno leggero quanto basta per stare male nel sognarti.
Ora
mi disarmo in attesa di giorni peggiori.
Mi stavo appisolando sulla poltrona. Violino ed archetto per terra. Il collo molle sullo schienale ed il braccio abbandonato nel vuoto.
Ancora un volo notturno.
Nel
buio una luce oleosa ti colora l’avambraccio e la mano affonda fra i tuoi
capelli neri. La testa china.
È
la mia crudeltà che ti angoscia anche lontano da qui?
O
sono parole che non si sono fatte suono che ti pesano nella bocca?
No.
Quelle stanno spezzando il fiato a me.
Rividi nitidamente un istante di quella sera che mi era passato di mente. Ero seduta sulla poltrona rivolgendo le spalle a lui ed a Gilbert. Ero stanca e tremavo. Non sapevo se essere felice o no. Volevo dimenticare e dormire, con il collo molle sullo schienale e con il braccio abbandonato nel vuoto. Come in quel momento.
La mano di André che stringeva all’improvviso la mia ed io che tentavo di ingoiare ricordi.
Le dita di quella mano nella mia non tracciavano segni a caso, perché raccontavano quello che dalla sua voce non ho avevo voluto ascoltare. Disegnavano piano prima una lettera e poi un’altra, poi un'altra ancora, senza pietà: ti amo.
La tua testardaggine riesce a parlare anche da muta.
Mi svegliai di soprassalto e mi guardai il palmo della mano. Ebbi l’impressione che un marchio a fuoco svanisse lentamente sul colore della pelle. Ed erano le stesse due parole che io non ti avevo detto e che mi spezzavano il fiato.
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“Oscar, vi farà bene non rimanere chiusa in casa. Vedrete… non è un divertimento, ma parlare con altre persone vi terrà su di morale”.
“Rosalie… io non credo di essere brava quanto te. Non conosco le parole giuste per parlare alla gente. Non so rincuorare né dare coraggio, perché oramai io stessa non ne ho più” dissi, meravigliandomi del linguaggio macchinoso che a volte usavo con lei.
“Ma non dovete far nulla di particolare: potete anche solo parlare del tempo e fare un sorriso. Daremo loro quello di cui hanno bisogno e qualche chiacchiera. A volte sono persone molto sole. Non chiedono molto”.
Rosalie, quando non c’era Bernard, faceva veramente il giro delle case dei poveri e dava una mano come poteva, pur non avendo lei stessa molto. Era una battaglia di tipo diverso per cui era necessario un cuore più docile del mio ed un aspetto più accondiscendente.
Eravamo in una grande casa borghese oramai in rovina, con le ragnatele che, rattrappite e stanche, pendevano dal tetto nell’odore di polvere stantia.
“Per favore Oscar, potete consegnare voi questo fagotto? Io vi raggiungerò subito” mi chiese lei, indicandomi una porta a due ante, chiusa. “Io devo andare di sopra a medicare il proprietario: è molto anziano ed ha le piaghe del decubito… o volete venire di sopra con me…”
“No, va bene” feci prendendo il fagotto di cotone. “Chi c’è qui?”chiesi indicando la porta che mi aveva mostrato.
“Sono le due sorelle del proprietario. Non spaventatevi, la gente dice che sono pazze… sono solo un po’ strane, sono anche simpatiche sapete?” rispose lei salendo su per le scale.
Bella premessa. È per questo che te la svigni?
Bussai
due volte ed udii una voce femminile che gorgheggiava il “Flauto magico” di
Mozart.
“Suvvia
entrate! Non siate ritrosa!” aggiunse un’altra voce di donna.
Troppe stranezze. Andava già male per i miei gusti, ma spinsi la porta e entrai.
“Permesso?”
“Orsù… avvicinatevi madamigella, ve ne prego! Non immaginate da quanto tempo io vi attenda. Oggi sentivo che sareste venuta a trovarmi e non sono riuscita a desinare per la contentezza!” disse tendendomi le braccia una donna dai lunghi capelli grigi seduta su una sedia dorata.
Rimasi interdetta un attimo nell’accorgermi del contrasto fra i capelli da vecchia e gli occhi cerulei e luminosi. Doveva avere pressappoco la mia età. Imbarazzata e senza sapere perché, mi afflosciai in un inchino (non saprei dire altrimenti, perché sono convita che non mi fosse venuto particolarmente bene) e attesi, con il fagotto in mano, che mi parlasse di nuovo. Dall’altra parte della stanza, in piedi vicino alla finestra, fra due le grandi tende rosse e lise, c’era una donna bionda, che mi guardava torva.
“Cosa mi avete recato madamigella?”
“Ecco madame” dissi, porgendole il fagotto che mi aveva consegnato Rosalie.
Lei lo prese fra le mani entusiasta e, posatolo sulle ginocchia, cominciò a disfarlo. La donna bionda emise un altro gorgheggio ed io d’istinto mi spostai da sotto il lampadario.
“Oh madamigella, quale regalo più gradito! Rosalie è riuscita a ritrovarli presso quell’Arval… Accorrete ve ne prego Contessa di Polignac! I ventagli!” esclamò con un’espressione da bambina, portandosi le mani al viso.
La donna bionda si avvicinò con aria di sufficienza, sollevò uno dei ventagli ed iniziò, davanti al viso dell’altra, ad aprirlo lentamente, stecchetta per stecchetta. Ogni volta che si apriva una stecchetta le due trattenevano un risolino ed io mi convincevo sempre di più che fossero toccate. Iniziai a sperare che non fossero pericolose.
Quando il ventaglio fu completamente aperto gli scrosci di risate furono incontenibili.
“Maestà, ma quello è il Conte di Fersen! E quella siete forse voi!? Come siete in forma! Sono terribilmente somiglianti! Non trovate?” chiocciò la bionda gettando indietro la testa e scoprendo la gola pallida, mentre l’altra ora taceva, fissando il ventaglio che teneva stretto in mano.
“Chiedo scusa” dissi afferrando l’altro ventaglio che le giaceva in grembo. Lo aprii per capire di cosa avessero riso, e cosa avesse rannuvolato lo sguardo celeste della donna che si faceva chiamare maestà. Mi accorsi allora che, aprendo stecca per stecca l’antico ventaglio, si svelavano delle scene di sesso, sempre più spinte.
Ventaglio aperto ed occhi spalancati di fronte ad un campionario che neanche immaginavo. Mi trattenni dal girare il ventaglio per comprendere meglio le immagini.
Rosalie!
Ma dove sei finita? Ché mi viene il sospetto che di sopra ci sia Bernard pronto
a calarsi le braghe!
La donna dai capelli grigi fissava in silenzio il ventaglio stretto nella sua mano ed iniziò a piangere in silenzio con il capo chino, lasciando rotolare le lacrime fino all’ampia scollatura. La bionda si arrotolò un ricciolo sfuggente dietro l’orecchio e si diresse leggera come una piuma, con la gonna frusciante, presso un tavolino pieno di argenteria e boccettine di vetro sfaccettato. Richiusi il ventaglio mi chinai verso la donna che piangeva.
“Sentite madame… anzi maestà… c’è qualcosa che non va? Posso esservi d’aiuto?”
Quella
mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e scosse la testa, senza accennare ad
asciugarle.
“L’amore è una brutta bestia!” esclamò con la sua voce zuccherina la bionda, armeggiando con delle boccettine. “Cannella, chiodi di garofano… Oh, che splendida essenza maestà!” disse avvicinandosi ed annusando la boccettina che aveva in mano.
“No Yolande, non ora…” rispose la donna in lacrime afferrando però l’oggetto. “Dopo”. Poi si rivolse a me e soggiunse: “L’amore fa tanto male… e quando è lontano e non riesci a riaverlo ti spezza in due… lo sapete vero? In questo tempo indecente in cui gli aristocratici si imbastardiscono con i plebei… lui dov’è? Dove posso trovarlo? Non potete aiutarmi perché non potete trovarlo … si è perduto nel tempo”.
Era un discorso senza senso e disperato. Serviva a farmi capire una volta in più che non potevo uscire salva dai miei errori. Lo avrei ricordato guardando ogni viso che incontravo per strada. Tutto mi sarebbe parso una muta accusa. Anche il viso di quella donna dai capelli grigi che ora ingoiava vorace il laudano (1) per stordire i ricordi d’amore, mentre nella stanza si spandevano l’odore dell’oppio, dell’alcool, della cannella, dei chiodi di garofano, e sulle labbra le rimaneva il giallino dello zafferano. Ora mi guardava a bocca aperta. Mi sentivo il viso contratto: tenevo le redini di tutti i muscoli per non lasciar sfuggire una sola lacrima.
“Oh… lo vedo… lo vedo… non lo sapete nascondere, come sto morendo io rischiate di morire anche voi, perché lui è andato via… e si muore molto piano… ci si mimetizza con le poltrone e con le coperte del letto… senza desiderare nient’altro di diverso” mi disse con le palpebre che si chiudevano sulle pupille dilatate.
“Tenete” fece Yolande, infilandomi in mano la boccettina di laudano con quel suo fare da angelo immorale. “Fa dimenticare. Ogni vostro tormento, ogni vostro dolore, anche quello che vi cinge inesorabile ed infame non vi sembrerà che filo di garza o tela di ragno. Il dolore abdicherà, frantumandosi, al desiderio. È solo la chiave per aprire il vostro giardino segreto. In fondo non vi rivelerà che quel che siete, quel che volete: lui con voi in tutte le posizioni del ventaglio”.
Arringa ipnotica con caduta di stile nel finale, che mi riscosse e mi diede la forza di andare via.
Mi allontanai lasciandole nella penombra. Una morbida e distante come una bambola di stoffa sulla poltrona, e l’altra in piedi alle sue spalle, come una medusa dal cui capo al posto delle serpi scivolavano giù sottili riccioletti biondi.
Corsi di sopra, senza guardare. Trovai Rosalie che pettinava i capelli di uomo molto anziano.
“Rosalie!”
Lei alzò gli occhi con la spazzola in mano.
“Ma dove diavolo mi hai portato?!”
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La porta del negozio di antiquariato di Arval era aperta… Era un ascensore per il passato?
Mi voltai e mi diressi verso casa.
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Erano passate quasi due settimane.
Nel cassetto della scrivania una mattina trovai il foglio su cui, la sera del ritrovamento del cadavere di Jeanne, ero stata tentata di scrivere di quello che mi sentivo crescere dentro incontrollabile. Me l’ero proibito subito e sul bianco accecante del foglio era rimasto solo un puntino d’inchiostro nero. Come un’oasi nel deserto.
Ora avrei scritto. Ora che lui era andato via senza lasciare neanche due righe.
Perché scrivere mi avrebbe aiutata a lottare contro qualcosa di ignoto. Perché era impossibile che lui avesse fatto una cosa del genere, se la sua sofferenza era quella che avevo sentito stracciarsi nella voce, mentre gridava dietro la porta.
Una lettera che non sarebbe mai stata imbucata, perché aveva per destinazione solo un cuore. E perché avevo paura di non vederlo mai più.
Il nero del pennino coprì il bianco. E la cenere asciugò l’inchiostro. Quando la soffiai via sul deserto bianco erano fiorite le mie parole.
“Ad
André.
Le
cose che sono successe in questi mesi le ho chiamate con tanti nomi.
Le
ho chiamate coraggio, amicizia e calore. Le ho chiamate desiderio, rabbia e
fame.
Le
ho chiamate gioia e disperazione.
Ora
che te ne sei andato ed ogni rintocco d’orologio è un passo in più in una
discesa all’inferno, mi accorgo che ognuno degli strati che mi proteggeva il
cuore è già caduto e fa troppo male.
Le
cose che sono successe in questi mesi le ho chiamate con tanti nomi. Troppi
nomi. Ma forse non è vero, perché mi accorgo che le ho chiamate soprattutto
con il tuo nome.
Consegno
quel che sento a questa scia di parole che si distacca da me, come uno stormo di
uccelli in volo per i paesi caldi, con una sensazione di dolore così forte, per
raggiungerti, prima o poi, ovunque tu sia e perché è per sempre.
Ti
amo.
Oscar”
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La
Senna sembra una placca di metallo stretta fra due argini. Scorrendo o
fingendosi immobile ha trascinato con sé milioni di storie, sudicie o
splendenti, e tutti gli echi di Parigi. Forse è la sola che mi può capire, da
che te ne sei andato, perché anche lei, come te, ne sono certa, conosce la mia
storia.
Un vento lieve increspò la superficie dell’acqua, spazzando via per un attimo l’olezzo immobile nell’aria. Topi di fogna, nello sgattaiolare, lasciavano stormire le foglie degli arbusti aggrappati agli argini.
Questo
dolore spero che sia uguale al tuo. Ed ho il terrore che non immagini quanto sia
uguale al tuo. Mi chiedo come faccio ancora a respirare ed a compiere la lunga
sequenza di azioni che implica la quotidianità, quella contabilità asfissiante
di gesti e parole che gli altri si aspettano, se tu scendendo dalle scale mi hai
strappato senza nessuna pietà il cuore dal petto su cui hai pianto.
Infilai le mani ghiacciate nelle tasche cappotto, sommersa dai pensieri e dall’immobilità del fiume. Le dita sfiorarono un oggettino freddo, di vetro. Lo estrassi dalla tasca. Era la boccettina di droga che mi aveva messo in mano Yolande, prima che fuggissi via sconvolta dall’aria stagnante di quella camera. Me n’ero dimenticata ed era rimasta nella tasca del cappotto.
Il sole morente non attraversava quel vetro. Forse perché aveva solo il sapore dell’oblio e faceva schifo anche a lui. Lui che voleva spegnersi con dignità sulla città sempre più insofferente, sanguinaria ed ipocrita.
Svitai il tappo e dissanguai il vetro nella Senna. Goccia per goccia. Oppio, alcol, cannella, zafferano e chiodi di garofano, perché nulla doveva essere dimenticato.
“Ho pietà di te” dissi nello stillicidio, pensando a Sua Maestà dai capelli grigi e dagli occhi giovani, sentendo che ancora una volta qualcosa non era andato come doveva andare e che la crudeltà del gioco incalzava chi accennava a piegare la testa.
Ripresi il cammino sotto il cielo divorato da nubi gonfie.
Strinsi in mano un plico di carta. Avrei provato io a stampare, anche senza il signor Alain. Avrei azionato la macchina tipografica ed avrei continuato a stampare.
Ad ogni passo l’aria era più scura e corposa: sapeva già di pioggia.
Le strade di St. Antoine sono sempre state strane. In certi posti, come a St. Antoine, il tempo scorre semplicemente in modo diverso: in certi angoli si blocca ed in altri sguscia via e ti passa di fronte con il suo viso emaciato.
Allungavo il passo col capo chino sotto gli occhi neri delle finestre. Le imboccature dei vicoli mi mettevano paura; per alcuni tratti di strada provavo una sensazione di gelo lungo la schiena ed il cuore batteva inspiegabilmente più forte. Non c’era anima viva. Mosche, liquami e porte sprangate.
D’un tratto un rumore mi fece sollevare il viso: era la pioggia che, all’improvviso, con gocce pesanti, schiaffeggiava quegli edifici che sembravano pietre sepolcrali.
Iniziai a correre stringendo il plico al petto. Si sarebbe bagnato comunque. Mi resi conto solo allora di quanto fossi diventata sprovveduta: cosa avrei raccontato alle guardie naziste se mi avessero trovata con un blocco di fogli da stampare? Si sarebbero insospettite anche se avessi detto di essere una giornalista. Sarei finita nei guai per un gesto da nulla. Perché così succedeva sempre.
Iniziai a correre a testa bassa sul terreno scivoloso, nel rumore assordante dell’acqua che si abbatteva sulla pietra e che scorreva violenta nelle fogne.
E
pensare che una sola goccia è così silenziosa.
Inciampai. Mi ritrovai con le ginocchia e le mani nell’acqua, i fogli sparsi, che già sembravano sciogliersi e galleggiavano intorno.
Tentai di afferrarli, mentre il rumore delle gocce e lo scoraggiamento mi ronzavano nelle orecchie, ma non ci riuscivo, perché si disfacevano nell’acqua ghiacciata.
In ginocchio, completamente zuppa, mi appoggiai su una mano e raccolsi le forze per provare ad alzarmi.
Qualcosa di caldo e morbido mi avvolse il capo e le spalle. Sobbalzai e persi l’equilibrio, ma due braccia mi trattennero. Scostai la stoffa del cappotto che mi copriva dal viso, lo vidi ed iniziai a piangere, disprezzando il cielo che, con la sua acqua, continuava a confondere le mie lacrime di felicità.
André era davanti a me, sotto la pioggia, con la camicia incollata addosso ed i capelli sul viso. Gli gettai le braccia al collo e strofinai febbrile le labbra ed il viso contro le sue guance non rasate. Lui mi strinse da togliermi il respiro, a mi accompagnò in macchina.
Al coperto, nella MG, mi accorsi che il ginocchio sotto lo strappo del pantalone era tagliato e sanguinava. Lui mi tolse il cappotto umido dalla testa, mi tirò indietro i capelli bagnati e mi lasciò sulla guancia, vicino alle labbra, un bacio frettoloso, per poi controllare cosa mi fosse successo.
“Che hai combinato?” mi chiese osservando la macchia di sangue.
“E tu perché sei sparito senza dire nulla?” feci io fissandolo come una vipera.
“Sono venuto da te una mattina e non mi hai voluto aprire, se mi avessi aperto o se la sera prima non te ne fossi scappata a casa, sapresti di cosa si trattava…”
“Sei uno scemo! Io ti ho aperto… e te ne eri andato…” gli dissi stizzita, con la voce spezzata.
“Dopo solo mezz’ora che ti chiamavo! C’erano di sotto Alain e Bernard che avevano una fretta assurda e non sapevo che accidenti fare! Dovevo buttare giù la porta di casa? Avevo già gridato troppo, c’erano tutti quelli del tuo pianerottolo a guardarmi. Sarebbero venuti a prendermi con l’ambulanza e la camicia di forza…”
“Tu eri con quei due deficienti?! Ve ne siete andati tutti e tre in giro?”
“Già…”
Stavo per ribattere, ma vidi qualcosa che non mi piacque.
“E tu che hai combinato?” chiesi afferrandogli la mano destra fasciata da una benda sporca di sangue.
Nell’istante di silenzio che seguì si sentiva l’acqua infuriare sul mantice della MG. Fuori non si vedeva nulla.
“Cosa ti è successo?” ripetei, abbassando la voce, perché quello che sentivo per lui non fosse soffocato dai miei soliti cinque minuti di orgoglio.
“Un incidente di percorso…” mi rispose in modo quasi meccanico, con le gocce di pioggia che ancora gli scivolavano sul viso.
Era andato via per più di due settimane, lasciandomi sola, per mettersi nei pasticci con quei due deficienti, per tornarsene con la mano insanguinata, la barba di tre giorni, inzaccherato come se avesse vissuto nelle caverne: che voglia di mollargli un gran ceffone!
Questo deve essere stato quello André mi lesse negli occhi, quando vide la mia mano alzarsi. E fu l’unica volta che sbagliò in pieno nel leggere nei miei pensieri, perché scansò, con un gesto da bambino abituato alle mestolate, quella che era una carezza. E riaprì gli occhi increduli su di me che con la mano poggiata sul suo viso non riuscivo più a trattenere le risate per quel movimento da lepre.
“Mi hai illuso!” protestò, scherzando. “Ed io che credevo di essermi guadagnato uno scapaccione…” fece, afferrandomi la mano.
“Lo vedi che sei scemo!” dissi io per tutta risposta, per dimenticare quanto mi facesse tremare quel gesto.
“E tu perché non aprivi? Eri in casa… Cos’è successo?”
Abbassai gli occhi.
Ci abbracciammo, impacciati dalla zavorra dei vestiti bagnati ed appiccicatici, dallo spazio ristretto dell’abitacolo e dalle gomitate contro spigoli vari. Lo strinsi forte premendo la mia guancia contro la sua, con buona pace della barba incolta e abrasiva. Avvicinai la bocca al suo orecchio e dissi: “Tu non mi credi se ti dico che tutto questo tempo sono stata malissimo…”
“Mi dispiace. Scusami. Non avrei mai voluto…” lo sentii rispondere con voce bassa e sorda.
“Ero passato a prenderti. Credevo saresti venuta con noi… volevi fare di più…me lo avevi chiesto tu e Bernard conosce chi ha deciso di mettersi faccia a faccia con i nazisti… nella macchia. Avevamo deciso di raggiungerli, io non ci sarei mai andato senza di te, ma ho pensato che non volessi più vedermi per quello che ti avevo fatto la sera prima…”
“Ma che dici…” gli dissi, infilandogli le mani fra i capelli. “Basta… non parlarne più” lo supplicai. “Sei tornato indietro e per poco non ti facevi prendere da quelli… è così vero? Sei un pazzo… e se ti ammazzavano?”
“Sono tornato per te. Non mi potevano ammazzare”.
Non gli risposi. Rimanemmo così per un po’. Dalle giunture colava acqua. Cominciava a fare freddo con gli abiti bagnati. Ed io, così vicina a lui, sentivo un’urgenza bruciante al ricordo del suo corpo in quella sera.
Mi sciolse dall’abbraccio. L’unica cosa bella era poter rivedere il suo viso.
“Andiamo… sarà meglio, altrimenti ci ammaleremo” disse cercando le chiavi.
Ed
ora che farai ti allontanerai da me ogni volta che ti sentirai in colpa per
quella sera? E non ricordi più che alla fine ti baciavo anch’io?
Eravamo ancora vicini. Gli accarezzai piano la gamba, distogliendo lo sguardo dal suo e sentendo il sangue che mi saliva alle tempie. “Va bene, portami a casa” dissi sentendo appena la mia voce.
Lui trasalì sotto la mia mano. Stava per dirmi qualcosa, ma non disse nulla. La afferrò ed allora temei che mi rifiutasse. Serrai le palpebre ed il cuore mancò un colpo. Ma posò sul palmo le labbra, a lungo.
Accese il motore. E la MG si mosse separando in due ali luccicanti l’acqua di St. Antoine.
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Mi
aggiro come un automa per camera mia. Un asciugamano… un asciugamano! Dove li
ho messi gli stramaledetti asciugamani? Ti ho detto di lasciare asciugare la
camicia davanti al camino del salotto, ma di là ci sono solo due tralci di vite
tarlati, non so neanche come farai ad accenderli… ed io sono di qua, col
sangue che mi vortica nella testa, che ti cerco l’accidente di asciugamano
senza trovarlo e mi sembra di camminare col corpo di un'altra persona ed è come
se mi vedessi dal di fuori in camicia e mutande, che mia aggiro epilettica fra i
mobili, la giacca ed i pantaloni zuppi di pioggia per terra, il ginocchio che mi
pizzica e non ho il disinfettante, perché in tempo di guerra si muore di
infezioni… e tu sei di là… ed io sono di qua che apro cassetti, ma quanti
accidenti di cassetti ci sono in questo buco di stanza? E rivolto le robe… e
mi gira la testa… perché ho paura e mi tremano le gambe per quello che ti ho
fatto intendere con la mia mano che è scivolata là vicino… e perché ho
capito che hai capito quello che volevo dire anche se non ho parlato…e perché
era quello che sentivo di farti capire in quel momento, perché un solo altro
istante in più non era giusto che passasse… e l’asciugamano non lo troverò
mai… e non tornerò mai di là, perché ho paura di quello che voglio e di non
piacerti… è che ho il fiato corto, e mi porto la mano fra le gambe, mi fa
male, ma continuo a cercare, ad aprire cassetti e salta fuori di tutto, anche
l’abito della prima comunione, ma non riesco a trovare quello che cerco…
apro con forza un altro cassetto e mi sfugge di mano… per poco non mi cade
sulle dita dei piedi e non so che fare e mi siedo sul letto e mi guardo il
ginocchio e ti vedo senza la camicia sulla soglia della porta… continuo a
guardarti, anche se sono arrossita e sembro una ciliegia e mi vieni incontro e
non mi chiedi se per caso in questa stanza è passato un tornado, ma te lo leggo
negli occhi… mi guardi le gambe nude che ciondolano sul lato del letto e mi
chiedi se ho disinfettato quel ginocchio ferito… ti rispondo che mi sono
spariti tutti gli asciugamani e che il ginocchio non me lo sono disinfettato
perché in guerra non si disinfettano le ginocchia perché non c’è
disinfettante e si tagliano solo gambe come in “Via col Vento” e come in
“Via col Vento” non c’è l’anestetico e ti tagliano sveglia e quella
stronza di infermiera che somiglia a Rossella ‘O Hara si schifa e se ne scappa
via… e ti metti e ridere e sollevi un asciugamano da terra e lo lasci ricadere
ed io voglia di sigillarmi in uno dei pochi cassetti rimasti chiusi e ti
inginocchi davanti a me e mi stringi con la mano la caviglia ed io non capisco
che vuoi fare, vedo che ti avvicini e capisco sempre meno e sento la tua bocca
calda su quel taglio e mi dico che sei matto e che non credo risponderò di me
stessa se continui a guardarmi con quegli occhi… e mi posi il capo sulle gambe
e le stringi contro la tua pelle nuda e mentre rimani così ti passo la mano fra
i capelli ancora umidi, lungo le tempie, sulle labbra e sento ancora la tua
bocca che mi intrappola un dito ed i tuoi occhi che mi guardano di nuovo e non
riesco più a respirare, perché le tue mani stanno risalendo lungo la pelle
delle mie gambe e mi dici che mi ami ed ora la tua lingua è nella mia bocca e
mi accarezza con dolcezza ed il sapore della tua saliva è più eccitante
dell’alcol, più pericoloso del laudano, e sento, mentre il mio desiderio
bagna le tue dita, che tu stanotte vuoi morire… e morire ancora… e che lo
voglio anch’io, perché vogliamo vivere, e sul limitare di questo marzo ogni
tuo sospiro mi dice è finita la nostra primavera silenziosa.
(1) Il laudano è un intruglio antispastico, usato soprattutto per i dolori gastrici, ma siccome calmava veramente molto veniva spesso usato come droga.
Continua...
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