Rumore d'ali

(De insania)

Parte IV

 

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Dal garage in cui André parcheggiava la MG si scendeva lungo una scarpata piena di macerie e fango: era un percorso nascosto che attraversava una zona interna all’isolato, vuota, completamente rasa al suolo dai bombardamenti del ’41, l’anno in cui le alacce della Luftwaffe serpeggiarono con le loro ombre sui tetti di Parigi.

Appoggiato alla parete di fronte all’entrata del garage, c’era un mobile a ripiani che occludeva l’accesso ad un corridoio stretto e basso, in fondo al quale una porta si apriva su quell’inferno in miniatura: pezzi di cemento, travi marce, brandelli di stoffa, fogli svolazzanti, una scarpa…

Un buco nel cuore della città, una ferita che non si era mai rimarginata, stretta fra i palazzi con le stanze disabitate e squartate in due, come quelle delle case delle bambole, completamente vuote.

Non c’erano gli occhi di nessuna finestra a fissare quella desolazione, fortunatamente per noi, che vi passavamo attraverso inciampando, con passo furtivo, il più veloce possibile, ma tentando di non fare rumore.

“Coraggio, siamo quasi arrivati”.

“È là in fondo?”

“Sì, riprendi fiato… è in quella porta”.

Oltre il cumulo di macerie, dove ricominciavano le case, individuai una porticina di metallo nel grigio del muro, ripresi fiato e controllai gli orli inzaccherati dei pantaloni, che mi bagnavano le caviglie.

“O stai più attenta o metti una gonna. E la prossima volta portati un paio di scarpe di ricambio, se ce le hai…”

“O le pulisco prima di andare via”.

“Brava, qualcuno si potrebbe insospettire, vedendoci uscire da un garage completamente inzaccherati di terra”.

Dalla porticina si accedeva a due stanze che trasudavano muffa, le scale che portavano sopra erano ostruite dalle macerie. C’erano una sola sedia ed un tavolo. Nella stanza più interna, completamente spoglia, un macchinario non del tutto montato con viti, bulloni e chiavi inglesi intorno.

Sui mattoni del pavimento, scoloriti e scheggiati, impronte di fango rinsecchito, che dovevano essere state lasciate lì dagli altri due.

“Vedo che è a buon punto” commentai, passando la mano sul metallo freddo, leggermente arrugginito.

“C’è ancora da fare… dobbiamo sbrigarci” mi rispose André inginocchiandosi per avvitare i bulloni.

“Posso pensarci anch’io… Come devo fare?”

Mi guardò e mi fece subito un cenno d’assenso con il capo, si aspettava che avrei deciso così.

“Ci penseremo insieme. Il materiale allora te lo darà Alain, io ti aspetterò fuori in macchina e poi verremo qua”.

“Va bene. Domani mattina. Dopo la consegna dell'articolo”.

“Hm… Com’è venuto poi? Così male?”

“Non provare a scherzarci su… è semplicemente… amorfo!”

“Come il destinatario, no?!” e lasciò cadere una chiave inglese per pulirsi le mani con uno strofinaccio.

Divertita feci cenno di sì con il capo e posai gli occhi sulla landa desolata oltre la porta, pensando agli altri due.

“Ma loro da dove arrivano qua? Non è prudente fare lo stesso percorso che facciamo noi”.

“Infatti! Passano da un tombino in un vicolo e sbucano fra le macerie, non molto lontano da questa porta. Come vedi, almeno in teoria non è un posto facile da raggiungere” mi spiegò mentre di spalle sentivo che si faceva più vicino.

“André speriamo che non ci crolli tutto in testa” aggiunsi osservando le crepe sul soffitto.

“Spero proprio di no… proveremo a ridurre questa probabilità: è l’unica cosa che possiamo fare” lo sentii sussurrare alle mie spalle, mentre oltre la porta il mio sguardo indugiava sulle macerie desolanti su cui iniziava a piovigginare. Chissà quali storie avrebbero potuto raccontare se avessero potuto parlare…

“Potrebbe almeno evitare di piovere in un posto del genere” dissi in un soffio e le lacrime mi salirono agli occhi rimanendo intrappolate nelle ciglia.

Lui mi sentì. Posò la mano sul mio capo e disse con la sua voce sempre calma “Ma almeno così in primavera sboccerà qualche fiore”.

 

Nel garage il mobile fu riappoggiato a muro, sbarrando l’accesso al nostro segreto.

Ci ripulimmo le scarpe, spazzammo anche il pavimento, per evitare che rimanessero le tracce del  fango che era sotto le nostre suole e per cancellare le scie disegnate nella polvere dagli spostamenti del mobile.

La resistenza attiva implicava quella ragnatela di dettagli cui ci aggrappavamo, ed anche un granello di polvere fuori posto, seppur muto ed incolore, poteva tradire: dovevamo preoccuparci di far tacere le cose.

E lo so che non mi crederà nessuno se dico che in quei giorni camminavo a cuor leggero.

 

 

 

Credo ancora che Victor fosse convinto che quelli che vedeva quel giorno fossero i segni dell’apocalisse: gli consegnai il tanto sospirato articolo e, cosa incredibile, indossavo una gonna… lunga e fuori moda, ma pur sempre una gonna.

Avevo visto la sorpresa mascherare il buonumore che stranamente elargiva in quei giorni e che era ormai diventato proverbiale. Capii che, nonostante le carte che aveva giocato, non avrebbe mai pensato di riuscire a farmi cedere: non si sbagliava poi tanto, forse un po’ mi conosceva. Io non avevo ceduto: stavo bluffando.

Scorrevano così i miei pensieri mentre, chiusa nel mio ufficio, disponevo bulloni e viti di una vecchia macchina tipografica nella mia borsa: erano giorni che la stavamo smontando nel magazzino collegato alla tipografia, di cui aveva le chiavi solo Alain; e mi chiedevo anche se, per caso, il libro che il vanesio, come lo aveva chiamato André, mi aveva biecamente sottratto a suon di monete giacesse nello scaffale tanto rimpianto dal nostro Bernard.

A trafugare buona parte dei pezzi ci avevano già pensato lui e Alain nei giorni precedenti, ma una gonnella in questi frangenti fa sempre comodo, mi dicevo, intanto che sistemavo un paio di pezzi più voluminosi nelle tasche interne dell’indumento antidiluviano e mi coprivo con un lungo cappotto.

Quando, percorso l’atrio, mi trovai sulla soglia del portone, prima di uscire sussurrai tra me e me:

“Caro Victor, da oggi in poi Oscar con una mano dà e con l’altra toglie” e mi avviai verso la MG.

 

Io attraversavo la strada e André, seduto nell’auto, osservava interessato degli uomini in divisa.

Nel breve tragitto alzai gli occhi al cielo.

 

Grazie ai cieli bianchi del nord, che quando serve ti disegnano addosso impassibilità e ti danno l’illusione che, se qualcuno ti sorprende, verranno giù le nuvole a nasconderti.

 

L’atmosfera era sufficientemente ombrosa da nascondere l’atteggiamento colpevole di chi trafuga qualcosa e non è abituato a farlo: un raggio di sole in più e mi sarei sentita smascherata.

André scese dall’auto con la massima disinvoltura e mi lasciò entrare dalla sua parte, perché non potevo esibire il solito salto con cui scavalcavo la portiera bloccata, per atterrare sul sedile di fianco al suo.

Nell’attesa si era divertito a fare le caricature di alcuni di quei tipi in uniforme che si pavoneggiavano al lato della strada.

“Vuoi usare queste?” gli domandai tentando di non ridere.

“E perché no?” mi rispose in tutta rilassatezza ed accese il motore.“Porto il tuo viso dall’espressione colpevole lontano da qui”.

“Tu come fai ad essere così disinvolto invece?”

“Questione d’allenamento” mi rispose mentre passavamo vicino agli sgherri.

“André!”

 

 

 

“Abbiamo quasi finito. Ehi voi… datevi da fare! Per me si può iniziare a stampare qualcosa anche da domani” disse Alain stringendo gli ultimi bulloni.

“Non siamo certo a corto di materiale” commentai io, controllando una delle pistole portate fin là da Bernard.

Ero sempre stata stupita dall’attrazione che provavo verso quegli oggetti mortali, ma in fondo me la sono sempre spiegata col fatto che sono gli uomini, non le pistole, a versare sangue e ad uccidere.  La svuotai dei proiettili che caddero con un tintinnio sul tavolo, ed osservai i riflessi che lasciava sul metallo la luce di un lume ad olio che stava diventando troppo tenue nell’ombra della sera.

André girò la chiavetta per aumentare la fiamma, mentre, seduto di fronte a me, puliva un altro di quegli oggetti.

“Ma vi dovete spicciare, perché fra poco ci sarà il coprifuoco e saranno cavoli vostri se dovete tornare a casa”.

“E tu non torni a casa?”

“Ho detto a Diane che sarei rimasto qui, se non avessi finito di montare tutta la macchina”.

“Non fare lo sbruffone Soisson, ci serve un tipografo vivo, non uno ibernato!” chiosò André, posando la pistola sul tavolo.

“Dici?” rispose l’altro.

“Fa troppo freddo per fare l’eroe stasera”.

“Hm… forse è vero” fece l’altro grattandosi la nuca ed osservando la nuvoletta che gli usciva dalla bocca.

“Sei l’unico che ha qualcuno che lo aspetti a casa. Però, se credi che sia necessario che qualcuno rimanga qui a finire, posso rimanere io, prendo qualche coperta e…”

“Anche se ora ce ne andiamo domani avrai di che stampare Alain, e il montaggio lo puoi finire domattina tanto ti manca poco, a terra ci sono un paio di viti o sbaglio? Ti stai facendo prendere da una fretta inutile!” fu la mia risposta, mentre fingevo di mirare ad una delle macerie che fuori dalla finestra erano progressivamente ingoiate dal buio.

In fondo al cielo c’era solo uno spicchio di sole e le nostre ombre si allungavano sui vecchi mattoni mangiati dal tempo facendoci sembrare un convegno di stregoni deformi. O di quegli alchimisti pazzi, che entrano in azione quando il cielo getta le sue tenebre sulla terra.

Pazzi lo eravamo veramente o forse troppo sani rispetto a tanti altri.

André aveva lo sguardo assente, pensava ad altro, forse al tono di sconforto con cui aveva parlato prima.

Mi sentivo indifesa davanti alla mia incapacità di seguire il filo dei suoi pensieri, quando guardava

altrove, lontano da me.

Ma si trattava solo di aspettare un altro po’ di tempo ed imparare. O forse solo di aspettare un altro po’ di tempo per ricordare…

“Ehi figlio di un falegname… ma ‘ste travi che hai montato, reggeranno il soffitto?”

“Credo di sì, ma non credo che sia così malconcio da cadere” poi scambiò un’occhiata con me ed aggiunse “Spero…”

Bernard posò sul tavolo con un tonfo un sacco che sembrava molto pesante.

“E là dentro cos’altro c’è?”

“Guarda un po’!” fece Bernard, estraendo una spada. “Bella vero?”

“Ma dobbiamo fare l’assalto all’arma bianca contro le mitragliatrici? Siamo diventati cultori del masochismo?” fu l’acuta osservazione di Alain.

“Possono sempre servire. In fondo fino a qualche anno fa si usavano” fu la giustificazione di Bernard, che fece scintillare nella fonte di luce il suo “acquisto”.

Scambiai un sorriso con André che sbirciando nel sacco mi disse “E ne ha fregata anche più di una!”

“Ehi, André…” si pavoneggiò Bernard, sollevando la spada, “Zacchete!” scandì, fendendo l’aria nella direzione di André.

A quel gesto mi salì il sangue agli occhi; con la pistola scarica mirai nella direzione di Bernard, lasciai il cane, “Ehi, Bernard!” gli feci e premetti il grilletto che cliccò a vuoto, facendolo trasalire.

“Sei matta! Pensavo volessi sparami!” disse con il viso sbiancato e la mano libera sul cuore.

La cosa mi divertì molto e soffiai sulla canna della pistola per completare la scenetta “Io non ti trovo spiritoso!”

E quello distolse risentito lo sguardo, senza trovare l’appoggio che cercava in quello di André che, impassibile col capo chino, fingeva di occuparsi d’altro.

“Non devi rompere gli zebedei!” tradusse Alain togliendogli la spada di mano. “Se mi procuri un po’ di cibo decente, questa la do a Diane e ci facciamo fare uno spiedino gigante… È tanto che non si fa bisboccia davanti a un bell’arrosto”.

“Dammela! È un pezzo di magnifica fattura questo! Al massimo me la appendo al muro in camera mia” fece lui riprendendosela.

André si strinse nelle spalle guardando nella mia direzione, mentre raccoglieva i proiettili dal tavolo.

“Ah… nella garçonnière! Magnifica fattura? Mi sembri Girodel” rincarò Alain.

Era vero. Di magnifica fattura era un’espressione tipica di Victor. Un’espressione che aveva usato anche quando in quel negozio, per umiliarmi col peso del suo denaro, mi aveva sottratto quel libro che mi ero intestardita a volere. La ferita bruciava ancora un po’: in parte per l’orgoglio ed in parte per il libro. Questo però non lo svelavo mai ad André, quando capitava di parlarne, perché aveva il sapore del capriccio di una damina incipriata ed era una cosa che infastidiva anche me.

"La fate finita con questa storia delle spade?" chiesi cortesemente, giacché, visto il calare delle tenebre e lo stringere del tempo, si rendeva necessario parlare dell’argomento più serio.

“A proposito di garçonnière…” fece Bernard, come se nulla fosse, “Ho conosciuto Rosalie, quella tua vicina così carina”.

“A proposito di garçonnière… Rosalie non c’entra nulla!” precisai io “Non è il tipo da garçonnière!”

“No per carità! Lei no! Dicono che la sorella sia un po’…”

“Possiamo farla finita e parlare d’altro?” interruppe provvidenzialmente André, mettendo fine alla degenerazione.

 

Ora bisognava agire. Era arrivato il momento. Non si poteva più tornare indietro e non sarei tornata indietro per nessun motivo.

“Se domani stampiamo, e stamperemo, perché io so già cosa voglio scrivere, per domani stesso dobbiamo avere degli agganci e sapere dove e come dobbiamo diffondere i volantini”.

“Già fatto. Non preoccuparti per questo” mi rispose André.

“Domani all’ora di pranzo Radio Londra trasmetterà dei bollettini ed anche dei messaggi, sarà il caso di ascoltarli” fu il suggerimento di Alain.

L’angoscia e l’attesa di quegli anni insulsi erano tutte tese lì, a quel momento: il momento in cui avrei avuto chiaro il piano da seguire; il momento in cui avrei impugnato come dovevo l’arma che avevo scelto; il momento in cui il mio sguardo si sarebbe sovrapposto senza sbavature a quello fiero della donna del ritratto.

Pensavo questo mentre guardavo negli occhi di André, che ora era in piedi al mio fianco.

Solo così poteva essere.

 

Questa sono io. E ringrazio Dio.

 

 

 

Erano passate più di due settimane e la piccola Rosalie era inconsolabile: Jeanne non era più tornata, né avevamo avuto più sue notizie e lei si disperava.

André ed io avevamo provato a cercarla, ma avevamo solo una pallida idea degli ambienti che frequentava e non eravamo riusciti a sapere niente, ma solo a rimediare figuracce.

 

Un giorno sul far del crepuscolo, prima del coprifuoco, ci eravamo diretti verso uno dei locali in cui lavorava Jeanne, almeno così ci aveva indicato Rosalie.

C’era un’insegna luminosa, se luminosa si poteva definire, dato che solo poche luci lampeggiavano; dalla porta giungevano zaffate maleodoranti, frammiste a fumo e rumore di bicchieri.

Là vicino c’era una donna di una quarantina d’anni, vestita in modo sgargiante e scarmigliata, che fumava un sigaro.

“Buonasera. Potreste indicarci il proprietario di questo locale?”

“Bella sono io la proprietaria di questo locale, che c’è?” mi rispose con una voce bassa e rocca.

“Avremmo bisogno del vostro aiuto per una questione piuttosto urgente” le dissi ingenuamente.

Rimase soprappensiero a guardarci col sigaro di lato, stretto fra i denti, poi le si allargò sulla faccia un sorriso compiaciuto e commentò “Sì, sì, me lo immagino, sicuramente posso aiutarvi… altri due bei “triangolanti”… Bravi, bravi ragazzi!Bravi!”

Non stavo capendo nulla di quello che aveva iniziato a dire e stavo per esporle il problema “Ecco…”

“Oscar, mi sa che non ha capito tanto bene!” mi sussurrò nell’orecchio André alzando le sopracciglia.

“Un attimo però!” interruppe la tipa. “Chiariamo subito una cosetta! Non mi frega se pagate e quanto, ma io di lesbicate non ne faccio, sia ben inteso!” precisò con l’indice della mano teso verso l’alto.

Capii che aveva frainteso nel riconoscere una delle situazioni tipiche del suo mestiere e stupita buttai là un “Ma come!…”

“Ehi no carina… tu coi pantaloni, sei proprio tanto bellina, ma io non ci sto, preferisco lui…” chiarì la tipa mostrandomi le palme delle mani e facendo l’occhiolino ad André.

Adesso mi dava proprio sui nervi!

“Non avete capito un’acca madame! Non siamo qui per chiedervi le prestazioni a cui siete abituata, non siamo clienti. Si tratta di tutt’altro…” le risposi acida.

“Ah no?!” fece la tipa sbigottita, guardando con rammarico nella direzione di André, che le rispose:

“Proprio no, madame”.

“Ah… e che cosa allora… sentiamo belli” disse lei assumendo un’espressione seria e mettendo le mani sui fianchi.

“Lei conosce una certa Jeanne Valois, coi capelli neri…”

“Ah la Jeanne!" esclamò ad alta voce “Brava ragazza la Jeanne…”

“Sa dove sia ora? Sono giorni che non torna a casa e sua sorella è molto preoccupata”.

“Non so che dirvi belli! La Jeanne la conosco, ma s’è n’è andata via di qui molto tempo fa… lei è una tipa di classe e può permettersi di mirare ai pesci grossi… non era fatta per la vita di noialtre. Dovreste cercarla in qualche locale alla moda… in qualche posto chic! Non so proprio cos’altro dirvi ragazzi miei” concluse gentilmente togliendosi il sigaro dalla bocca. “Speriamo che abbia avuto quello che desiderava”.

 

 

 

Una mattina ero a piedi sulla strada che portava da André. Avevo con me il violino, perché lui aveva preso l’abitudine di ascoltarmi suonare mentre dipingeva.

Non camminavo da molto e l’aria non era piacevole quella mattina.

Lo vidi da lontano corrermi incontro a perdifiato.

“André… guarda che dovevo venire io da te”.

“Sì, lo so ma…” disse appoggiandosi con una mano al muro per riprendere fiato “… ho preferito venirti incontro… forse… so qualcosa che riguarda Jeanne…”

“Davvero?”

“Può darsi”.

“Dobbiamo andare da Rosalie allora”.

“No aspetta, ascolta… non è una bella cosa…”

“Dimmi”.

“Stamattina presto hanno trovato due cadaveri di donne nella Senna… dicono che siano delle prostitute, so solo che ce n’è una bruna, vestita di nero… chi l’ha vista… l’ha vista Bernard… ha detto che potrebbe essere Jeanne… e ha detto che non è un bello spettacolo”.

“Accidenti…” sussurrai, riagguantando la custodia del violino che mi stava sfuggendo di mano.

No. Io, che fosse successo questo, non lo avrei mai voluto neanche immaginare.

“Tempo fa l’ho trovata pesta e ubriaca sulle scale. È successo più di una volta… Deve essere capitata nelle mani di qualche pazzo, il rischio era troppo vivendo così ”. Ripresi fiato “E Rosalie…?”

“Dobbiamo dirglielo… so già come reagirà, ma dobbiamo dirglielo…”

“È vero…” risposi sconsolata.

“Dobbiamo dirglielo Oscar, perché sarà meglio andare a controllare che sia veramente lei… e questo purtroppo può farlo solo Rosalie”.

Mi appoggiai con la schiena al muro freddo e ripresi fiato, anche se non avevo corso.

Di fronte a me la Senna scorreva come se nulla fosse successo.

Mi voltai ed incrociai lo sguardo di André.

“Andiamo?” mi disse.

“Va bene andiamo” volevo rispondergli, ma non ci riuscii e mi avviai verso il palazzo per salire su da Rosalie.

 

 

 

Il rumore dei nostri tacchi echeggiava lungo un corridoio lungo e vuoto. Il bianco delle pareti era interrotto ogni manciata di passi da porte che sembravano bocche spalancate.

Rosalie era aggrappata al mio braccio ed era così spaventata che non riuscivo quasi a reggerla ed andare avanti.

André, che aveva chiuso la porta alle nostre spalle, aveva tentato di aiutarmi a calmarla: “Ehi Rosalie… siamo qui perché c’è bisogno di un eventuale riconoscimento da parte di un familiare, non vuol dire che deve trattarsi per forza di Jeanne.  Magari questo è il modo per essere sicuri che a Jeanne non è successo nulla”.

L’avevamo vista mordersi il labbro, mentre lungo la guancia le correva un’altra lacrima, e mettere in fila qualche passo.

Davanti ad una delle porte c’erano dei militari ed un medico.

Appena li vide Rosalie si bloccò e mi guardò con gli occhi sbarrati.

Uno di quegli uomini si avvicinò e le chiese se era lei l’unica parente della donna di cui si era fatto il nome quella mattina.

Rosalie fece cenno con la testa.

L’uomo le chiese i documenti, ma Rosalie rimase ferma, perché ormai era troppo confusa; allora la scossi affettuosamente e cercai nella tasca del suo cappotto quello che l’uomo aveva chiesto e glielo porsi.

Mentre l’uomo controllava i documenti, André le posò un braccio sulle spalle per rincuorarla.

Cominciavo ad essere preoccupata, era come in trance; si riscosse solo quando le fu detto:

“Mademoiselle, è qui. Dovete entrare qui” mentre le indicavano una porta.

Afferrò le mie mani con lei sue ossute e fredde e tentando di urlare con un filo di voce mi disse:

“No… no… no… ho paura! Vi prego… vi prego venite con me… da sola no!”

Allora dissi all’uomo che anch’io conoscevo la presunta vittima, e che sarebbe stato utile che entrassi là dentro; gli mostrai i miei documenti e inventai anche che ero una cugina di secondo grado da parte della madre, perché non sapevo se con quelle scuse mi avrebbero lasciata passare.

“Va bene. Entrate” disse l’uomo.

Sulla soglia rivolsi lo sguardo ad André che allibito tentò di fare un passo, ma venne bloccato da una guardia.

Mi venne in mente che era stato un pazzo a presentarsi lì con noi: se quei militari avessero scoperto chi era… il suo passato… e se gli fosse successa qualcosa,  non glielo avrei mai perdonato; e non mi sarei mai perdonata per aver trascurato un particolare del genere. Il vedere la guardia che lo tratteneva mi aveva dato un’angoscia peggiore di quella di dover vedere un cadavere annegato. Ma ormai la porta si era chiusa.

 

Per descrivere quel che vedemmo in quella stanza muta e asettica faccio fatica a trovare le parole.

Una massa bluastra gonfia. Il viso era sfregiato.

Rosalie vacillò.

“La riconoscete?” chiese l’uomo.

Se era Jeanne per me era impossibile riconoscerla. Rimasi zitta con la mano davanti al naso e volevo scappare via, per fuggire a quello spettacolo, per raggiungere André ed essere sicura che non gli fosse successo nulla.

Rosalie aveva un filo di voce e stava per cedere “Come faccio… come faccio a riconoscerla?” diceva guardando ora l’uomo che aveva parlato ora me.

Poi aprì la bocca e lanciò un urlo “NO! L’ANELLO DELLA MAMMA!”

La vidi rovesciarsi all’indietro senza sensi. Fortunatamente la sorresse uno di quegli uomini e la trascinò fuori da lì.

Mi feci forza ancora un po’ e guardai la mano della donna che giaceva sul tavolo, prima che la portassero via; vidi che aveva un anello d’oro al dito.

Mi trascinai vicino alla porta con lo stomaco contratto, mi appoggiai allo stipite per riprendere ossigeno e sorrisi ad André: era ancora lì, seduto su una panca, e mi sentii sollevata.

Vidi il medico che portava Rosalie in una delle stanze che si aprivano sul corridoio per rianimarla.

Lasciai lo stipite per andare verso di lui che si era alzato, ma le gambe, per quanto in quell’istante non volessi crederci, non me le sentivo più ed ebbi la sensazione di sprofondare.

Vidi solo André che mi correva incontro e poi fu tutto buio.

 

Quando mi svegliai la prima cosa che vidi fu il soffitto ammuffito.

“Come ti senti? Ti senti meglio?” Mi chiese la voce di André.

Mi accorsi che ero stesa sulla panca di legno con qualcosa di morbido sotto la testa. Mi girai nella direzione della voce e vidi che lui era inginocchiato affianco a me e mi stringeva una mano.

“Insomma…! Ma quanto è durato?”

“Poco, ma mi hai fatto prendere un accidente. Ho avuto paura di non poter più ascoltare un pezzo per violino di Mozart suonato come se fosse Beethoven” rispose scherzando e accarezzandomi dolcemente il dorso della mano. “Sarà meglio cercare il medico”.

“No lascia perdere, sto bene” e tentai di mettermi a sedere. “Il medico farà meglio a prendersi cura di Rosalie”.

“Allora?”

“Una cosa orribile… non ho mai visto nulla di simile” gli dissi passandomi una mano sul viso.

“Era lei?”

“Rosalie ha visto che aveva l’anello di loro madre… ma per me André…”

“Cosa?”

“Per me poteva esser chiunque. Aveva il viso distrutto…” aggiunsi deglutendo con una mano alla bocca, perché, se ci pensavo, mi veniva da vomitare. Poi presi il cappotto che mi aveva messo sotto il capo per cuscino, mi alzai e glielo porsi “Andiamo a cercarla, quando si sveglierà avrà bisogno di noi”.

“Tu sei sicura di stare bene?”

“Sì, non preoccuparti. Non so che mi sia successo, ma sto bene”.

“Allora andiamo a cercarla” mi fece mentre si rivestiva.

Facemmo qualche passo, poi mi ricordai di quello che volevo dirgli e mi fermai sotto una finestra che incorniciava una porzione di cielo pallido.

“A proposito André…”

“Sì?”

“Sei stato un’incosciente a venire qua come se nulla fosse!” gli sibilai sottovoce “ E non replicare, perché, se ci sentono, siamo fregati!”

Allora fece una cosa che non mi aspettavo, visto il tono perentorio che avevo usato nel parlargli.

Mi passò un braccio intorno alla vita e mi attirò verso di sé; mi accarezzò i capelli e scostata una ciocca da vicino all’orecchio sussurrò: “Io non posso lasciarti andare da sola da nessuna parte… io sono la tua ombra, non posso lasciare che ti succeda qualcosa di male. Che sarebbe successo oggi se non fossi venuto con te?”

Rimasi ferma ad ascoltare rabbrividendo quelle parole dette piano e sentii il tocco delle sue dita che mi scivolavano lungo il collo; ma ad un tratto lo guardai negli occhi, eravamo vicinissimi, e dalle mie labbra uscì una frase che era come un colpo di frusta risentito e disperato: “Sì, ma non devi farti ammazzare questa volta André!”

La voce si era piegata su se stessa alla fine della frase.

Rimase stupito da quello che gli avevo appena risposto e rimasi stupita anch’io.

 

Questa volta…

 

Restavamo fermi e lui continuava a guardarmi senza parlare, come se avesse capito e riflettesse su quello che gli avevo detto; io invece speravo di trovare nel suo sguardo la spiegazione per quelle parole e per la strana sensazione di essermi tolta una spina dall’anima.

Distolsi gli occhi dai suoi e appoggiai la testa sul suo petto. E lo strinsi fortissimo, così forte che credo avrei potuto fargli male. Mi strinse forte anche lui e sentii le sue mani nei capelli e lungo la schiena.

Rimanemmo immobili così, senza più dire una parola, perché il respiro si era fatto affannoso e serrava la gola; con il viso contro il battito del suo cuore, guardavo la nostra unica ombra che si rifletteva a terra nel riquadro luminoso della finestra e la sua mano che scivolava lungo la mia schiena, e sentii che mi voleva… che mi voleva… e voleva… e pensai di non poter più respirare per una specie di dolore che mi bloccava in ventre, le gambe e le parole.

Mi dovevo allontanare, ora avevo paura. Paura di dare un nome a quello che avevo provato. E paura perché era quello che sentiva anche lui.

Mi allontanai a fatica, ma decisa, e lui non me lo impedì; in quel momento passavano dei militari e abbassai lo sguardo per non capire se ci avevano visti o no.

“Andiamo a cercare Rosalie” dissi senza guardarlo e mi avviai per il corridoio con lui alle spalle.

“Va bene” mi rispose ed ebbi la certezza che non si riferisse a quel che gli avevo detto ora, ma a quello che gli avevo sussurrato poco prima, mentre mi abbracciava nella luce bianca del primo pomeriggio.

 

 

 

Mi svegliai stesa sul letto, con la testa dalla parte dei piedi ed il viso appoggiato su un libro.

La fiamma crepitava nel camino e nella stanza, con la porta chiusa per lasciare fuori il mondo, ora faceva molto caldo.

Mi sollevai sulle braccia e misi a fuoco le pagine del libro: il Catone che avevo scelto dalla mia libreria, per costringermi a non pensare a nulla di quello che era successo durante la giornata, aveva avuto un effetto soporifero.

Era molto tardi: l’orologio segnava le tre di notte. Fuori si sentiva il rumore leggero della pioggia che ticchettava sulle persiane.

Avevo letto molto, tanto da non poter più andare avanti: mi bruciavano gli occhi, esausti per lo scorrere sulle pagine dai caratteri minuscoli.

Stavo sudando per il caldo ed iniziai a spogliarmi per indossare il pigiama.

Mentre mi toglievo la giacca e sbottonavo la camicetta tentai di riflettere sulle parole del libro, ma era inutile perché non ricordavo nulla.

Mi affiorava alla mente l’immagine del corpo gonfio e sporco di sangue su quel tavolo, in quella stanza vuota e gelata con quegli uomini che si somigliavano tutti. Mi fermai in mezzo alla stanza con le mani sugli occhi e tentai di fare il vuoto nella mente.

“Oh… non è possibile! Non è un incubo allora…”

Ora parlavo anche da sola.

“E adesso… adesso?”

Mi tornarono alla mente le parole che la padrona del locale aveva detto nel salutarci “Speriamo che abbia avuto quello che desiderava”.

Mi tornarono alla mente gli strepiti di Rosalie, che ora dormiva con gli occhi gonfi nella camera di fianco, sul divano nel salone, perché da sola non voleva stare. Perché avevamo avuto paura che, lasciandola sola nello stato in cui era, potesse fare qualcosa di irreparabile.

Ed André… che l’aveva trascinata di peso via da lì, perché non voleva allontanarsi da sua sorella diceva.

Sedetti sulla sponda del letto e sentii il rumore del materasso e delle reti che affondavano sotto il peso del mio corpo. Mi concentrai sul rumore della pioggia per non pensare a nulla, per riuscire a cancellare ogni ricordo, perché ogni ricordo ora portava per forza ad André.

Quel giorno, fra quelle pareti che sapevano di morte, avrebbe voluto esplodere la vita.

Avevo sempre creduto che il cuore fosse uno strumento che si copre di ruggine se non è usato; e credevo che il mio cuore in quegli anni si fosse coperto di uno strato di ruggine sufficientemente spesso da non farlo pulsare che per pompare sangue nelle vene.

La verità in fondo, mi dicevo, era che non sapevo usarlo che per quello scopo, il mio cuore.

Solo per Hans avevo tentato di farlo palpitare più veloce: aveva martellato a vuoto ed aveva distrutto la donna che avevo sempre tentato di nascondere sotto un completo da uomo.

Ed ora era sicuramente troppo tardi e troppo pericoloso per distoglierlo dall’unica occupazione che gli era rimasta: tenermi in vita.

 

Non è una cosa che si può imparare dopo così tanti anni.

 

Mi versai dell’acqua nel bicchiere e con l’attizzatoio rivoltai un pezzo di legna nel camino. Pensai che avrei gradito un po’ di musica, ma che vista l’ora non era il caso.

Era una cosa che non avrebbe osato nemmeno la maniaca della mia vicina. Mi concentrai sul fatto che fosse una vera rompiscatole e che il giorno prima aveva riempito la strada di cocci acuminati, lanciando uno specchio giù dal balcone.

“Deve essere un tantino isterica… crede di essere la regina del quartiere”.

Sì, pensai a questo, mi concentrai su questo, perché dopotutto anche i rapporti con il vicinato sono piaghe della società degni di menzione… non bisogna negarsi questo, bisogna essere realisti, pensavo mentre finivo di svestirmi.

Prima di infilarmi il pigiama mi vidi di sfuggita nuda nello specchio; distolsi lo sguardo, ma poi non potei fare a meno di guardarmi.

Mi guardai il seno, il ventre… vi lasciai scorrere sopra la mano e pensai ad André.

Mi infilai in fretta il pigiama e pensavo ancora a lui, ogni cosa mi faceva pensare a lui.

Esasperata mi sedetti alla scrivania e presi un foglio. Presi la penna e ve la poggiai sopra.

Volevo scrivere qualcosa, perché per un istante, senza illudermi del contrario, fui consapevole che il cuore batteva da solo.

Ebbi paura delle parole che volevo scrivere, come avevo avuto paura quella mattina fra le sue braccia, così mi alzai di lì e sul foglio rimase solo un puntino.

 

Questa… sono io.

 

Mi misi sotto le coperte sperando di cadere in un sonno profondo e denso, senza immagini.

 

Ma non accadde.

Perché quella notte fra i miei occhi ed il sonno cadde la tua ombra André.

Nel sogno piangevo per la musica cattiva ed il vino troppo forte e, quando la rissa taceva e le luci svanivano, nascondendo i miei lividi in un vicolo buio, c’era chi sapeva bene come curare quei lividi.

Non quelli sul volto o sulle braccia, non quelli…

Erano lividi quelli, che non cambiavano mai colore e davano un dolore sordo e continuo da dentro…  e c’era chi sapeva come curare quei lividi, perché li nascondeva anche lui sotto la stoffa della giacca marrone con un sorriso o annegandoli in silenzio; e le sue labbra erano morbide sulle mie.

Ed io al risveglio ero amareggiata e persa in un’antica passione… non ricordavo il viso e sperai di esserti a mio modo stata fedele, perché quei frammenti di memoria erano già andati via col vento dell’alba.

 

Continua...

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