Rumore d'ali
(De insania)
Parte III
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Correre via! Di corsa!
Di corsa per i viali spogli, per le salite e le discese, a piedi o col filobus, sul lastricato sconnesso o sulla ghiaia sfatta, con la neve, col sole, con la pioggia ed il vento.
Correre, appena correre è possibile!
Digiuna, mai sazia, affamata, convincendomi che era sempre e solo fame nera, di quelle che ti prendono quando non c’è più tanto cibo, ignorando un’altra fame più forte.
Correre! Correre in via Auguste Rodin 57.
“André!”
“Ciao!”
Sola dentro camera mia la sera mi addormentavo sfinita dai pensieri. Ai pensieri angoscianti sul peso della storia che mi sentivo premere sulle spalle se ne intrecciavano di nuovi, dopo tanto tempo.
“Perché non lo ha più fatto?” mi chiedevo.
Perché
non ha più avuto voglia di prendermi il viso fra le mani e posare le sue labbra
sulle mie?
Mi
spaventerei… è vero… è vero… e non tornerei più…
L’ultimo
pensiero prima del sonno: Avresti voglia di baciarmi veramente André?
Cadeva sempre l’ultima guardia quando il sonno incalzava, ma la mattina dopo la muraglia era risorta: “Io vado da lui solo perché avere qualcosa da fare mi fa sentire viva”.
Veloce, giù per le scale!
Io con il candeliere degli amanti fra le mani e la polvere dorata sulle dita.
“Ma ti piace?” mi chiese.
Mi voltai facendo strisciare nell’aria la fiamma.
“Sì, è bellissimo, ma si sta rovinando… Guarda” feci mostrandogli le dita.
“Conosco chi lo potrebbe restaurare” disse e mi prese una mano esponendola alla luce della candela.
“Guarda come luccica!” mi disse sorridendo e sorrisi anch’io.
Piano. Su per le scale.
Nei miei occhi niente gradini, solo il ritaglio di una scena: il contorno delle labbra che sorridono, le ciocche scure lungo il collo, la camicia leggera che si apre sul petto e sul disegno della clavicola nell’ombra…
…
perché, André, è insostenibile come, a volte lungo queste scale fatte al
contrario, sia lancinante il vuoto di te.
Tic……….… tac………….. tic………… tac………….
“Complimenti per il ritmo!”
Tac…
“Che vuoi?”
“Quando lo finirai quell’articolo di questo passo? Che dirà Greta Garbo?” sentenziò Alain facendo cenno con il capo verso l’ufficio di Victor.
Bloccai le mani sulla macchina da scrivere ed alzai lo sguardo su di lui che si riannodava il fazzoletto rosso intorno al collo. Mi poggiai comodamente alla spalliera della sedia.
“Non sto scrivendo quello”.
“Immaginavo…”
Si avvicinò alla finestra in silenzio e aggiunse: “Lui è tutto felice…”
Quelle parole mi strizzarono il cuore come una spugna.
“Ma chi?” chiesi.
“Victor”.
“Ah…” esclamai in un sospiro che raffreddò il mio entusiasmo, ma mi face sentire al sicuro.
“Perché? Chi credevi?”
“Nessuno… ti ho solo chiesto di specificare il soggetto”.
“Hm…” e si poggiò con la schiena al vetro.
Gli lanciai un’occhiataccia.
“Sta’ buona, sei tu l’esperta di grammatica, io devo solo destreggiarmi fra corsivi ed elzeviri”.
“Cos’ha Girodel?” tagliai corto.
“È tutto felice”.
“Buon per lui, ha conquistato altre sventole?”
“Che ne so…” mi rispose perdendosi con lo sguardo nello stormire dei rami fuori dalla finestra.
“Ci sono state delle insurrezioni ieri. Degli operai”.
Posai di nuovo le dita sulla macchina da scrivere nell’atmosfera grigia della stanza.
Tac…………….. tic………….. tac…………
Nella stanza di fianco si sentiva Bernard che alzava la voce.
“Altro sangue” aggiunse.
Tic…….….
tac…..…... tic…...…. tac…………
“Hm…” feci io sentendomi esausta per quelle notizie.
“Hai visto André?” mi chiese Alain all’improvviso.
Accidenti a lui, lo sapevo che era la domanda che moriva dalla voglia di farmi e per cui era entrato nella stanza.
“È importante?”
“No… ma, se ti rifiuti di rispondere, per te è MOLTO importante!” e se ne uscì tutto soddisfatto.
Tic
tac tic tac tic tac………
“Dannazione!”
Bernard sulla soglia del mio ufficio.
“Dannazione dannazione dannazione!”
“Ho capito! Dannazione! Che c’è?”
“C’è che s’è fregato il mio scaffale, ed a me serve quello che c’è dentro per lavorare!”
“Ma il materiale che era dentro… era… come dire… serviva per scrivere?” azzardai, temendo che Bernard ci avesse nascosto tutt’altro, magari una tanica di benzina, rischiando di fargli sapere che sapevo delle sue attività parallele.
“Certo! E per cosa allora?” rispose sdegnato.
“No niente… così per chiedere… ma ora come fai?”
“Il bastardo ha annunciato che quando può mi lascia tutto sulla scrivania, ma lo scaffale e le chiavi se li tiene!”
“Eh Bernard… io te l’ho detto com’è…”
“No cavolo… e no cavolo!” e sparì nel corridoio invocando cavoli alla rinfusa.
Basta! Non ne potevo più, non li sopportavo più, meglio cambiare aria. Mi ricordai che mi sarei dovuto procurare del cibo e mi rassegnai alla fila da fare al gelo con la carta del pane e della carne in mano. Nell’uscire incrociai lo sguardo di Victor, seduto alla scrivania nel suo studio, con la solita luce ad incendiargli le chiome. Sguardo necessariamente ostile, visto le cose atroci che ci eravamo dette a proposito dell’articolo sull’ultimo taglio di capelli di Greta Garbo.
Sì sì, via da lì di corsa e giù per le scale.
Sottoporsi alla penitenza di una lunga attesa, in fila per uno, occupando il tempo innervosendosi e battendo per terra i piedi che gelavano, anche se c’era il sole che almeno illuminava il cielo: questo per mangiare. Ma mangiare cosa poi? Avevo sempre la sensazione che il pane fosse fatto impastando segatura e colla.
In piedi. Silenzio. Una mano in tasca per controllare che la carta fosse ancora lì. E soprattutto non pensare a niente…
“Ehi!” mi sussurrò una voce familiare e una mano mi si posò sul braccio. Sobbalzai.
“Ciao… ti stai addormentando?” mi fece André sorridendo.
“No… no… cerco di sopravvivere alla fila” gli risposi indicando il serpentone che si torceva per diversi metri.
“Non la fare e vieni con me”.
“Non mi è rimasto nulla in casa…”
“Ti do metà di quello che ho preso io” e mi mostrò dei pacchi che aveva sotto braccio.
“Ma non…”
“Dai vieni, quando avrai la possibilità di goderti in pieno inverno un’altra giornata di sole?”
“André non è il caso…”
“Se non è il caso oggi quando lo sarà? Vieni con me…” e riuscì a trascinarmi con lui.
“Sei stanca di stare in piedi?”
“Un po’.”
“Ci andiamo a sedere? Magari al parco, ti va?”
“Va bene” risposi rassegnata. “Sarei venuta da te domani”.
Mi guardò senza dire nulla ed imboccammo una traversa alla nostra sinistra.
“Sì ma…” mi rispose dopo qualche passo “il ritratto è a buon punto ed ora, dato che siamo di strada, voglio farti vedere un posto”.
“Che posto?”
“Entriamo qui”.
Eravamo fermi davanti ad un vecchio negozio d’antiquariato con una porta verde ad arco e l’insegna sulla quale la scritta Arval era quasi cancellata.
“Ma qui fino a poco tempo fa non c’era un’osteria?”
“No Oscar, forse ti stai confondendo, sono anni che c’è questo negozio”.
Rimasi un po’ stupita, ero sicurissima che lì una volta ci fosse un’osteria e lui mi aveva risposto con un tono che aveva il sapore di una bugia. Ricordavo vagamente di averla frequentata, ma dovevo essermi ubriacata, perché non riuscivo a ricordare bene quando fosse successo e cosa fosse successo.
“Può darsi che ci fosse, ma molto tempo fa” aggiunse intuendo che mi stavo sentendo presa in giro.
“Dai entriamo… questa è la persona che può restaurare il portacandele che ti piace, l’ho comprato qui, e ci sono un sacco di altre cose che potrebbero piacerti”.
Entrammo nel negozio impregnato dell’odore di veleno per i tarli e naftalina. La luce brulicante di polvere illuminava il bruno e l’oro dei mobili, filtrando dagli scuri spalancati. Lo spazio per muoversi era poco, e con tutta quella confusione gli occhi non sapevano dove posarsi.
André salutò il proprietario ed iniziarono a parlare, mentre io tentavo di orientarmi in quel groviglio di legno.
Mi allontanai da loro, seguendo il corridoio disegnato dai mobili; alcuni erano stati restaurati da poco, erano lucidi e freschi di cera, ma la maggior parte era segnata dal tempo, era evidente che gli affari non andavano granché bene. In fondo alla stanza c’erano delle vetrinette con pochi oggetti d’argento anneriti, alcuni non proprio in buone condizioni: doveva essere passato un po’ di tempo da quando André era stato in quel luogo l’ultima volta, perché di cose belle ne erano rimaste veramente poche.
Lo sentii ridere e commentare qualcosa divertito con il proprietario, e lo vidi appoggiarsi con i gomiti al bancone, riflesso in uno specchio dalla cornice dorata, forse settecentesco. Rimasi per un po’ ferma a guardarlo lì nello specchio: non mi importava capire di cosa stessero parlando, se del tempo, della guerra, del vecchio portacandele o altro… lo guardavo di profilo mentre sorrideva.
Che
stupida. Oscar chi vuoi che sia? Uno che hai incontrato per strada. Uno che non
c’entra nulla con la tua vita. Perché affannarsi per comprendere qualcosa?
Non sai neanche cosa senti il bisogno di comprendere. Non lo sai perché non
c’è veramente nulla da comprendere. Ecco, ti sta succedendo di nuovo… tocca
la piaga che ti è rimasta dentro dall’ultima volta che ti sei persa in un
sorriso!
Mi allontanai da lì. Mi diressi verso uno scaffale pieno di vecchi libri ed iniziai a sfogliarne qualcuno. Le pagine di molti di essi erano quasi del tutto staccate, li rimisi a posto e iniziai a scorrere i vari titoli; mi erano quasi tutti noti. Alzai lo sguardo verso l’alto e la mia attenzione fu attratta dal bordo di un libro che sporgeva da sopra lo scaffale: era sepolto sotto una pila di vecchi fogli ingialliti, aveva una copertina di pelle marrone. Ne scorgevo solo l’angolo inferiore della quarta, da cui pendeva il nastrino azzurro che faceva da segnalibro. Qualcuno entrò nel negozio e la corrente provocata dalla porta che si apriva fece vibrare il nastrino nell’aria. Non riuscivo a leggerne il titolo ed una strana e prepotente curiosità mi spinse a tendere la mano e ad allungarmi sulle punte dei piedi per prenderlo. Lo scaffale era veramente molto alto e le mie dita sfioravano appena il bordo del libro.
André che si era avvicinato in silenzio tese il braccio e me lo porse gentilmente. Lo presi e cominciai a rigirarmelo fra le mani per capire che libro fosse, ma non aveva titolo ed era chiuso da un lucchetto di metallo arrugginito. Doveva essere molto vecchio, ma non era tanto rovinato.
“Cos’è?” chiesi porgendo il libro ad André che lo scrutò nella luce che filtrava dalla finestra.
“Oh diamine… lo avete trovato…” commentò l’antiquario Arval che si era avvicinato a noi.
“Non riesco a leggere il titolo”.
“Mademoiselle… è perché non ha titolo quel libro…”
“Un libro senza titolo? Ma quale argomento tratta?”
“E chi lo sa mademoiselle! Non lo ha mai aperto nessuno… e nessuno abbastanza saggio lo aprirebbe!”
Mi scambiai un’occhiata con André che controllava il vecchio lucchetto.
“Perché?”
“Beh, insomma… è una storia antica e un po’ strampalata….”
“Cioè?” feci scambiando un’altra occhiata con André, assalita da un’altra ondata di quella curiosità immotivata che mi aveva sfiorata prima e che ora sembrava travolgermi.
“Si dice che ci sia dentro una mappa per trovare un grande tesoro… si dice… ma non si sa se è vero, perché nessuno lo ha mai aperto… perché è maledetto: chi ha provato ad aprirlo ha avuto delle gravi disgrazie… gli ha portato una grande sfortuna. Nessuno è mai riuscito ad aprirlo.”
Stupidaggini! Pensai io, e lessi la stessa cosa negli occhi divertiti di André.
“È un oggetto della mia famiglia da molti anni, ma non abbiamo mai provato a vedere di cosa veramente parlasse… lo tengo sempre nascosto. Non è una bella cosa e non si sa mai. Non capisco come lo abbiate trovato. Sarà settecentesco… se fosse vero quello che si dice… ed è vero perché quando ero piccolo ho conosciuto il suo precedente proprietario e vi assicuro gliene sono capitate!… beh se fosse vero, forse si tratterebbe di un oggetto appartenuto a Cagliostro… questo è quello che penso io, perché in verità… nessuno sa cosa sia”.
“Sa che le dico?” feci io per nulla spaventata “che io a queste cose non credo e che vorrei comprare questo libro”.
André si girò a guardarmi. L’uomo spalancò gli occhi dietro le spesse lenti, stupito.
“Come?”
“Ha capito bene, lo prendo”.
“Non si lasci affascinare dalla storia del tesoro…”
“Non è il tesoro che mi affascina… voglio capire che libro è e basta. Non credo neanche un po’ alle maledizioni… e non credo neanche alla storia del tesoro se è per questo”.
Non sapevo neanche io perché, ma sentivo che dovevo avere e leggere quel libro. André mi guardava in silenzio ed il verde dei suoi occhi era diventato di una sfumatura indefinibile in quell’atmosfera antica e polverosa. Non avrei saputo dire cosa passava in quel momento nel suo sguardo, me lo domando a volte ancora oggi, e quando lo chiedo a lui non mi sa rispondere.
“Che c’è? Non hai sentito? Lo vuole comprare, dov’è il problema?” disse all’antiquario.
“Se a lei questo libro non interessa e lo teme, non è meglio venderlo?”
“Ma è della mia famiglia da molto tempo…”
“Ma è come se non ci fosse… era lì nascosto, seppellito da una pila di carte…”
L’uomo rimase in silenzio a meditare sul da farsi, guardando un po’ me e un po’ André.
“Ecco beh… insomma…”
“Se lo dà a me lo pagherò trecento franchi!” squillò una voce alle nostre spalle. Non credevo alle mie orecchie, trecento franchi… era la voce di Girodel… mi voltai… era lui… col suo abito all’ultima moda… Io trecento franchi se li avessi avuti….
L’antiquario gongolò sfregandosi le mani che ritornarono a posto non appena tornai a guardarlo.
“Ebbene…”
“E tu perché ti intrometti? Questo affare riguarda me e monsieur Arval” precisai.
“Mi auguro sia una trattativa aperta, monsieur Arval” soggiunse, condendo il tutto con il suo più affascinante sorriso “capirà che gli affari sono affari!” ed allargò le braccia come per dire “cosa posso farci!”
L’antiquario non parlava sotto lo sguardo disgustato di André e mio, e davanti allo splendore della dentiera di Victor. Nel fondo dei suoi occhi riluceva uno splendore di monete sonanti.
“Arval…” lo riprese André, ma Victor, che, ne ero sicura, si comportava così per vendicarsi di tutte le discussioni acrimoniose avute con me e soprattutto dell’ultima al fulmicotone, lo interruppe:
“E voi quanto offrite? Io rilancerò comunque. È di splendida fattura codesto… libello. Risalirà al Settecento. Vero monsieur?” fece rivolgendosi amabilmente all’antiquario.
“Non fingere di essere un intenditore… lo so perché lo stai facendo! Ti interessa solo…” tentai di dirgli.
“Ah no! Sapete cosa vi dico? Trecentocinquanta!”
Mi guardai stupita con André: né io né lui, mettendo insieme i nostri soldi, avremmo mai potuto pagare quella somma.
Arval sembrò convincersi sempre più velocemente che il legame affettivo con quell’oggetto di famiglia era in fondo più labile di quanto credesse.
“Anzi trecentosessanta!” sibilò Girodel e quei dieci franchi in più decretarono la cancellazione di quel legame: l’antiquario, con il sorriso paralizzato sul volto, porse il libro a Victor, evitando il nostro sguardo. Lui prese il libro, ne accarezzo la copertina, arrotolò il nastrino azzurro intorno all’indice e con aria compiaciuta si rivolse a me: “Mia cara, tu non avresti comunque tempo per leggerlo, sei molto impegnata col tuo articolo no? Ci vediamo domani” poi fece un cenno della testa ad André ed un abbozzo di saluto “… Monsieur” ed andò a pagare Arval.
Rimanemmo lì, fermi senza parlare in quella luce polverosa.
Quello che aveva fatto era per me un’umiliazione, non un dispetto. Significava molte più cose di quanto non sembrasse.
“Chi è quel vanesio?” disse André interrompendo i miei pensieri.
“È uno scemo” sussurrai io, incrociando più strette le braccia sul petto.
Il fuoco crepitava nel camino e le faville volavano leggere su per la cappa, mentre qualche ramo verde gemeva consunto dalla fiamma. A volte quella sembrava la mia casa, e non il solito posto vuoto che mi accoglieva ogni sera. Il buio era denso e compatto negli angoli, squarciato dalla luce del camino. Le lingue di fuoco facevano quel che volevano…
Nessuno
dice loro dove andare o cosa fare…
“Ci stai ancora pensando?”
“Sì… lo so che era solo un oggetto qualsiasi…”
“Non è vero tu non stai pensando quello, o meglio non solo a quello” mi rispose lui avvicinandosi con una sedia. Io ero sul divano a riscaldarmi i piedi ghiacciati ed a godermi lo spettacolo luminoso, persa fra le lingue di fuoco.
“Ti brucia che lo abbia fatto per ricordarti che è lui il capo e può tutto, anche se tu hai il coraggio di alzare la testa”.
Ed ecco che tornava la sensazione stupenda e paurosa di essere nuda… la sensazione che i suoi occhi potessero volare attraverso i miei occhi e leggere ogni dettaglio della mia storia, mentre io cercavo le parole giuste per rispondere.
“Non ci vuole molto per capirlo Oscar. Era un atteggiamento che non poteva avere altre spiegazioni. Io capisco come ti senti”.
“Lo so” gli risposi e mi tornò in mente quella scena, e le scene dei giorni precedenti, e quello che succedeva ogni giorno senza che io potessi fare nulla… e mi lasciavo fermare da Victor… ed anche se non mi fermava Victor quel che io potevo fare era meno di un granello di sabbia nel deserto… ed aveva ragione Alain… di soldati per le mie guerre non c’è n’erano più.
Si sedette sulla sedia davanti a me, con la spalliera fra le gambe ed il volto arrossato dal caldo del camino sulle braccia conserte. E continuava a guardarmi.
Quei pensieri ed un senso di debolezza dell’anima di fronte alla storia, che negli ultimi anni non era che un inferno scandito da rintocchi di orologio, mi stavano sommergendo. Lo guardai negli occhi per sforzarmi di stare bene, ma non riuscii a trattenere una stupida lacrima.
“Oscar…” fece lui accennando ad alzarsi.
“No… no… non è nulla. Sta’ tranquillo pensavo ad alcune cose…”
“Lo vedo” e venne e sedersi sul divano accanto a me.
“Sto pensando che ci è riuscito…”
“A far cosa?”
“Mi ha quasi piegata”.
“Ne sei sicura?”
“Come ne sei sicura? Che domande mi fai André?”
“Non credi più a quello che volevi fare? Non credi più in quello in cui credevi prima?”
“So che da quando mi alzo la mattina fino alla sera sempre più spesso rischio di non mangiare… e che, anche se continuo ad intestardirmi contro la banalità di Victor, così non salverò nessuno… non cambieranno le cose… il fatto che io mi rifiuti di scrivere qualcosa di stupido non cambierà nulla e in ogni caso non potrei scrivere quello che sento… e mi odio, perché penso che, se non mi intestardissi sul nulla, forse avrei qualcosa in più da mangiare… lui voleva dimostrare che può tutto e se ci penso potrebbe anche decidere di mandarmi via… ma fino ad ora non ho mai pensato che ne fosse sul serio capace… ed ho sprecato tutto questo tempo in una presa di posizione inutile, perché in realtà io non posso fare nulla per rimediare a quello che sta accadendo… mi odio per questo, ma non potrei essere diversa, perché questa sono io…”
“Ed è importante che continui a rimanerlo” mi interruppe stringendomi le mani, mentre ormai le parole ed i pensieri erano un fiume in piena ed avevo l’impressione che il rumore del vento che soffiava nella cappa del camino si facesse assordante. Mi ricordo che le sue mani erano calde e le mie di ghiaccio.
“Non piangere più, ora ti racconto una cosa…” aggiunse spostandosi sul bordo del divano per guadarmi meglio.
“Molto tempo fa… non ricordo bene quando, forse nel Medioevo, ma non importa… c’era una città governata da una regina e questa città si trovava sotto l’assedio dei nemici… non ricordo quale fosse la città, il nome della regina e tanto meno i nemici ora che ci penso, ma non sono cose granché importanti…”
Non capivo proprio dove volesse andare a parare, ma siccome me lo disse con una faccia buffa, mi sfuggì in un sorrisetto sconsolato: “Ma non ti ricordi nulla André…”
Riuscito nell’intento di farmi ridere, continuò il racconto tutto soddisfatto.
“No, ascolta… la popolazione era stremata, perché l’assedio ormai durava da troppo. I nemici erano sicuri di averli sfiancati al punto giusto e pregustavano la capitolazione. In effetti, dentro le mura non era rimasto quasi più nulla: le uniche cose che erano rimaste erano un sacco di cereali nei magazzini della regina ed una mucca. La popolazione moriva di fame, ed alcuni consiglieri chiesero alla regina di distribuire il grano alla sua gente e di uccidere la mucca per potersene cibare, ma la regina si rifiutò e disse ai suoi consiglieri di prendere il sacco e di dare da mangiare tutto quel che conteneva alla mucca. Quando il popolo lo seppe si inferocì e decise di uccidere la regina che rimase chiusa nel suo castello ed impose ai suoi uomini di fare quel che aveva detto, altrimenti li avrebbe uccisi lei di persona. Così fu fatto, e, quando il sacco fu vuoto e la mucca ben grassa, i consiglieri le chiesero a cosa fossa fosse servita quella mossa stupida. La regina allora non rispose ed ordinò che la mucca fosse uccisa e lanciata dall’alto delle mura sull’accampamento nemico; a quel punto la gente non ebbe neanche più la forza di ribellarsi, perché pensò che quella donna fosse ormai impazzita, e nella disperazione generale fu fatto come lei ordinava. Sarebbero morti tutti, ne erano sicuri… ma il giorno dopo accadde una cosa strana: l’uomo che era di vedetta corse giù dalla torre urlando e saltando dalla gioia, perché il campo nemico era vuoto. Il nemico non c’era più, era andato via”.
“I nemici, vedendo la mucca grassa lanciata giù dalle mura dopo tutto quel tempo di assedio, furono certi che la città fosse ancora tanto ricca da potersi permettere quel gesto di scherno e decisero di andare via, vero?” gli chiesi, comprendendo quel che aveva voluto dirmi.
“Già, proprio così. A volte le strategie che sembrano meno ortodosse portano dritte allo scopo e se le segui non stai tradendo te stessa, né quel che ti anima. Non voglio dirti che il fine giustifica i mezzi, perché non lo credo, ma che a volte si può bluffare… potremmo bluffare”.
“Bluffare…? Mi stai dicendo che magari dovrei scrivere quello che lui mi chiede? Ed il bluff quale sarebbe?”
“Oscar, hai idea di quanta gente la pensi come te? Non passa una settimana che non si accenni ad una rivolta, nonostante le rivolte siano sistematicamente soffocate nel sangue. Hai idea di quanti volantini clandestini circolino nonostante le censure? Hai idea del fatto che la regia di tutto questo sia molto in alto e neanche tanto difficile da raggiungere per chi lo voglia veramente?”
“Radio Londra?” sussurrai, comprendendo sempre meglio il significato di quel che mi diceva.
“Già… una sera andremo da Alain ad ascoltare la radio”.
Rimasi un po’ stupita a chiedermi perché mi fossero sfuggite tante cose che si trovavano sotto i miei occhi e mi balenò in mente un’idea: “Hai detto volantini clandestini…? Non mi dispiace come idea…”
“In fondo abbiamo dalla nostra il vecchio Alain che è un tipografo e che ti assicuro non aspetta altro, tu e Bernard siete due giornalisti…”
“Bernard è anche un ladro politico…”
“Il che non guasta, visto quello che vogliamo fare. Per la parte grafica potrei vedermela io”.
Avevamo parlato a bassa voce, anche se eravamo dentro casa mia, perché non ci sentissero neanche i muri. Ci eravamo scambiate quelle parole animati da uno strano spirito di complicità battagliera.
Come ai vecchi tempi mi venne in mente, ma era una frase che non aveva ragione di esistere, perché di vecchi tempi non c’è n’erano mai stati. Nonostante l’enormità di quello che volevamo fare mi sentii felice, per nulla preoccupata.
Erano cose che capimmo tutti e due, e che ci fecero affiorare un sorriso sulle labbra.
“Andremo da Alain” conclusi e lui assentì. Ora capivo le critiche che mi aveva fatto Alain.
Rimanemmo compiaciuti a fissare il fuoco, mentre la solita radio della vicina incominciava a vociare al calar del sole, trasmettendo melodie incomprensibili là dove eravamo seduti noi.
Chissà perché, all’improvviso, i miei pensieri tornarono al libro che avevo trovato e perso nel negozio di monsieur Arval.
“Non so perché mi è ritornato in mente quel libro”.
“Hm…” fece lui riscuotendosi.
“Sto mischiando tutti i pensieri di questa giornata” dissi portandomi una mano alla fronte per giustificare quella strana variazione di tema. Lui mi fissò serio, ma senza stupirsi di quel che avevo detto.
“Secondo te André è vera quella storia e c’entra nulla Cagliostro?”
“Arval, per quanto oggi abbia ceduto ed è normale se uno fa la fame, è uno che non dice stupidaggini… Io però non ci credo. E Cagliostro non c’entra niente” concluse fissando di nuovo il fuoco con le braccia conserte, come se in realtà sapesse come stavano le cose.
“Lo credo anch’io. Ma allora perché ci penso?” gli chiesi, sicura che mi avrebbe dato una risposta.
Con il capo appoggiato allo schienale voltò il viso verso di me.
“Non credo di poter rispondere a questo”.
“Hai ragione, sono tutte stupidaggini” e mi rivolsi a guardare in camino, mentre i suoi occhi mi rimanevano addosso.
“In genere quando si prendono delle decisioni importanti si brinda” osservai, pensando all’attività giornalistica clandestina.
“Non sarebbe una cattiva idea”.
“Peccato che ho solo dell’acqua”.
“Beh, non è un problema, in fondo non è proprio una prassi quella di brindare”.
“Hm…”
“A parte qualcosa da bere, c’è qualcos’altro con cui suggelleresti una decisione del genere?”
“Non capisco…”
“Pensa a una cosa che ti piace e che magari non trovi in giro da un bel po’ ti tempo”.
“Di’ un po’… ma che storia è?”
Aveva preso quell’abitudine di spiazzarmi all’improvviso con domande che non capivo mai come gli venissero in mente, ma che alla fine andavano sempre a colpire nel segno.
“Dai concentrati e pensa a qualcosa di buono che non mangi da tanto”.
“André, se non fossi stata con te tutto il pomeriggio direi che hai bevuto!”
“Dai! E chiudi gli occhi” mi fece tirandomi un buffetto sul braccio.
Per tenerlo contento feci come mi chiedeva.
“Va bene ho pensato, posso riaprirli?”
“Sì, solo un attimo…” e mi mise in mano qualcosa di rettangolare avvolto dalla stagnola “riaprili!”
Quando vidi cos’era non avevo più parole, perché mai in vita mia avrei pensato di avere voglia allo stesso tempo di piangere e ridere alla vista di una tavoletta di cioccolato.
Iniziammo a ridere sempre più forte ed io avrei avuto voglia di stringerlo, ma non lo feci, non lo feci… però spezzai la tavoletta in due e gliene portai un pezzo alla bocca, come si fa con i bambini; ed avevo la sensazione che il riflesso di me che era nei suoi occhi fosse l’immagine di una bambina.
Eravamo due bambini.
E si cancellò il teorema che mi ero costruita in trentatré anni: che ogni ricordo dell’infanzia è la prova inconfutabile che nella vita si è fallito; si cancellò perché la vita stava iniziando a smentire quello in cui credevo.
Quella casa, che non sentivo mai mia, sembrava un posto incantato, dove tutto sarebbe potuto succedere: era come se nell’aria ci fosse della felicità che aspettava solo di essere afferrata.
“Sei un moccioso!” gli dissi scherzando affettuosamente, come non credevo sarei riuscita mai a fare, mentre addentava il pezzo di cioccolato.
“E tu no? Come è stata la tua infanzia?” chiese a bruciapelo.
“Boh… non lo so” e dopo averci riflettuto aggiunsi “avevo Girodel per compagno di giochi”.
“Ah… mi dispiace… mi dispiace veramente” fece lui tutto serio e ci mettemmo a ridere di nuovo.
Forse ora sì… lo avrei stretto… forse stavo per farlo, perché sentivo che lui lo voleva, ma dei colpi sulla porta spazzarono via tutta quell’atmosfera.
Dapprima credemmo di esserci sbagliati, di aver sentito male, e stemmo in silenzio per sentire meglio. Altri colpi ed una voce flebile che mi chiamava da fuori.
“C’è veramente qualcuno alla porta” ed andai di malavoglia ad aprire.
Rosalie mi si lanciò fra le braccia in lacrime, ed io rimasi lì senza riuscire a capire una parola delle frasi spezzettate che mi diceva, tirando su col naso. André si era portato sulla soglia del soggiorno e con l’aria di chi non ci capisce nulla mi chiese cosa fosse successo. Gli feci segno col capo che non lo sapevo. Presi Rosalie per le braccia ed allontanatala in modo da guardarla in viso le chiesi di parlare piano e di spiegarmi perché piangesse.
“Terribile… terribile… che ne sarà… che ne sarà…?”
“Cosa Rosalie? Dimmi!”
“Oscaaar…” esalò senza respirare, tanto che ebbi paura si soffocasse.
“Che succede? Però respira!” le disse André avvicinandosi.
“Terribile… aiutatemi, aiutatemi!”
“Rosalie cos’è successo?” scandii.
“Mia… mia… so… sorella! Non torna a casa da due giorni! E se le è successo qualcosa… io non so cosa fare… che posso fare?”
André ed io ci guardammo e non sapevamo che dirle.
Continua...
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